BlackRock vuol farci pagare la guerra e la pace - Alberto Capece
Ieri, nel post dedicato alla demenzialità bellica della Ue, avevo accennato proprio in coda, al ruolo degli ambienti global – finanziari nella inedita, scomposta e incoerente aggressività europea. Non sono andato avanti per evitare di rendere il post troppo lungo, ma occorre uscire dal vago: questa ingombrante presenza non è sempre nascosta dietro le quinte, alle volte le eminenze grigie si mostrano anche sul palcoscenico. Per esempio ci si potrebbe chiedere cosa c’entri Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il gigante finanziario che gestisce più o meno 10 triliardi di dollari, con le trattative di pace e con Zelensky? C’entra molto, visto che telefona spesso al duce di Kiev e non è certo un caso che il cancelliere tedesco, Merz, un uomo che esce da BlackRock appunto, sia diventato il maggior fautore della guerra. Il fatto è che fin dall’autunno del 2022 Fink ha firmato con Zelensky un patto per la ricostruzione dell’Ucraina che di fatto sfrutta joint venture pubblico – privato per fare un mucchio di affari.
Ovviamente più viene distrutto nel corso del conflitto, più la torta
aumenta: così possiamo presumere che Fink e i suoi compari stiano aspettando il
momento in cui si potrà lucrare di più sul Paese che ha fornito ilo materiale
umano, evitando però che l’avanzata russa dilaghi e rompa le uova nel paniere o
susciti negli stessi ucraini un sentimento di ripulsa nei confronti di chi li
ha usati come carne da cannone. È dunque probabile, per non dire certo, che
egli sia parte di primo piano nelle trattative, così come è stato un attore
importante nella guerra. Adesso c’è da ricostruire tutto ciò che rimarrà del
Paese, dalla rete elettrica all’agricoltura, all’industria, allo stesso
apparato dello stato che oggi è in mano a nazisti e oligarchi che rubano a più
non posso. Ossia ci sono come minimo 600 miliardi di euro in gioco che stanno
già stati dirottati su strumenti finanziari ad hoc: tutto questo è persino
visibile nel cosiddetto piano di pace formulato da Trump e leggendo le clausole
che riguardano il “dopoguerra”, pare di sentire i sussurri delle eminenze
grigie nei recessi della Casa Bianca. Del resto, a quanto pare di capire,
l’intero Paese non sarà che un bel parco giochi nelle mani della finanza. Va
però specificato che gran parte dei soldi saranno di origine pubblica, cioè
verranno prelevati dalle tasche dai cittadini, soprattutto europei, in
maniera che i ricchi divengano ancora più ricchi, grazie a un massacro che
hanno propiziato con un cinismo estremo: quando si sono resi conto di non
riuscire a sconfiggere la Russia con le loro sanzioni, si sono dedicati a
mettere in piedi un gigantesco business. Che poi sia macchiato di sangue a loro
importa ben poco. L’espressione il sonno del giusti è una clamoroso falso: i
giusti si tormentano, sono gli ingiusti a non avere pensieri.
Per un momento è sembrato che parte di quei soldi avrebbero potuto derivare
dalla rapina dei fondi russi, ma quando si è capito che ciò avrebbe spaccato la
Ue, forse in maniera irrecuperabile e che comunque l’Fmi aveva forti dubbi
sull’operazione, ecco che hanno messo le mani nelle tasche sempre più povere
dei cittadini, per cavar fuori 90 miliardi di euro da regalare ai corrotti di
Kiev: si tratta di denaro da rubare che non serve a nulla per la guerra. I
problemi dell’Ucraina consistono soprattutto nella carenza di uomini e di
addestramento e in parte nella mediocrità e del costo stratosferico delle armi
prodotte dall’Occidente. Cerco di spiegarmi con un esempio concreto: i russi
lanciano ogni mese molte decine di missili ipersonici su obiettivi militari,
energetici o industriali dell’Ucraina, ma per avere il 12 % di possibilità di
intercettarli occorre far partire almeno 4 Patriot per ognuno dei vettori russi
in avvicinamento, vale a dire occorre un totale di 16 milioni di dollari
per avere una minima possibilità di difesa. Per disporre poi di un’intera
batteria di questi mediocri missili antiaerei (in Arabia Saudita sono
riusciti a beccare solo pochissimi droni degli Houti) dotata di radar,
centri di controllo, generatori e tutto ciò che occorre, la spesa è di un
miliardo in relazione a una modestissima efficacia.
Così 90 miliardi sembrano tanti e sono in effetti tanti, anzi troppi, per
Paesi in drammatica crisi economica, ma in realtà sono pochi per
organizzare una efficace difesa nelle condizioni in cui si trova ormai
l’esercito ucraino: la sola difesa aerea per un anno li brucerebbe quasi tutti.
Senza dire che Kiev è in totale bancarotta e che occorrerebbero 150 miliardi
solo per tenere in piedi la baracca. Ma si sa, Fink e la sua compagnia cantante
di speculatori, amano questi fiumi di denaro perché producono interessi che poi
vanno in tasca a loro. La russofobia, instillata ogni giorno, su ogni canale o
giornale mainstream, serve appunto a fa sì che il flusso di soldi non si fermi.
E per questo che intervengono direttamente nelle trattative, non fidandosi
abbastanza delle loro teste di legno di Bruxelles, scelte proprio in ragione
della loro mediocrità e/o ricattabilità. In una lettera aperta al
cancelliere Merz, l’economista Jeffrey Sachs gli lancia l’accusa di essere
fuori dalla storia, dalla diplomazia, da ogni buon senso e credibilità. Però
dovrebbe sapere che, nel modello economico in cui viviamo, il profitto non
guarda in faccia a nessuno e tantomeno alla storia. Fino a quando la storia non
ne decreterà la fine.
Davos, BlackRock e il cerino
della democrazia
Quando il potere non si presenta alle elezioni - Giuseppe Gagliano
C’è chi
parla di “nomina tecnica”, chi di “fase di transizione”, chi si affanna a
precisare che no, BlackRock non ha preso formalmente il controllo del World
Economic Forum. Tutto vero. Ma irrilevante. Perché il punto non è il titolo
sulla porta, bensì chi tiene le chiavi. E oggi una di quelle chiavi è finita
nelle mani di Larry Fink, capo del più grande gestore di capitali del pianeta,
chiamato a co-presiedere il tempio di Davos proprio mentre il sistema globale
scricchiola.
Dicono che
non sia una presa di potere. Sarà. Ma quando il signore di dieci e passa
trilioni di dollari di asset diventa il garante della “governance globale”,
forse una domanda bisognerebbe farsela. Anche solo per sport.
Il World
Economic Forum è sempre stato questo: un luogo dove il potere si dà del tu,
lontano da urne, parlamenti e fastidiose opinioni pubbliche. Ma finché restava
un salotto, una fiera delle buone intenzioni, si poteva liquidarlo come
folklore d’élite. Oggi no. Oggi Davos è il posto dove si prova a supplire al
fallimento della politica. E chi meglio di BlackRock, che governa capitali più
grandi di molti Stati, può farlo?
BlackRock
non legifera, certo. Ma decide cosa è finanziabile e cosa no. E nel mondo reale,
quello dove le fabbriche chiudono e le transizioni si pagano, questo equivale a
decidere cosa esiste e cosa muore. Se non investi, non cresci. Se non cresci,
scompari. Altro che sovranità.
La favola
racconta che è tutto per il bene comune: sostenibilità, clima, responsabilità
sociale. Peccato che a stabilire cosa è “responsabile” sia sempre lo stesso
club. Un club che non risponde a elettori, ma ad azionisti. E che quando
sbaglia non viene sfiduciato, ma al massimo cambia consulente.
Sul piano
geopolitico il messaggio è chiarissimo. Mentre Cina e Russia rafforzano il
controllo statale sull’economia, l’Occidente sceglie un’altra strada:
privatizzare la stabilità. Delegare al capitale il compito di tenere insieme un
sistema che la politica non sa più governare. Non è liberalismo, è resa. Una
resa elegante, in giacca scura e cravatta ESG.
Il problema
non è Larry Fink. È il vuoto che lo rende indispensabile. Stati indeboliti,
istituzioni multilaterali paralizzate, democrazie che non decidono più ma
ratificano. In questo spazio entra la finanza, che non fa prigionieri ma
nemmeno promesse. E soprattutto non chiede permesso.
Poi ci
stupiamo se fuori dall’Occidente Davos viene visto come il volto sorridente di
un ordine economico imposto dall’alto. Ci stupiamo se cresce la diffidenza, se
il Sud globale parla di ipocrisia, se la parola “governance” suona come un
sinonimo elegante di comando.
La verità è
che nessuno ha eletto BlackRock, ma tutti ne subiscono le scelte. Nessuno ha
votato il World Economic Forum, ma molte politiche pubbliche sembrano scritte
con il suo vocabolario. E quando il potere diventa così grande da non avere
bisogno di legittimazione, allora sì che il problema non è più complottista. È
democratico.
Davos non ha
bisogno di prendere formalmente il potere. Gli basta che nessun altro lo
eserciti davvero.
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