lunedì 22 dicembre 2025

a proposito di BlackRock e della democrazia

BlackRock vuol farci pagare la guerra e la pace - Alberto Capece

Ieri, nel post dedicato alla demenzialità bellica della Ue, avevo accennato proprio in coda, al ruolo degli ambienti global – finanziari nella inedita, scomposta e incoerente aggressività europea. Non sono andato avanti per evitare di rendere il post troppo lungo, ma occorre uscire dal vago: questa ingombrante presenza non è sempre nascosta dietro le quinte, alle volte le eminenze grigie si mostrano anche sul palcoscenico. Per esempio ci si potrebbe chiedere cosa c’entri Larry Fink, amministratore delegato di BlackRock, il gigante finanziario che gestisce più o meno 10 triliardi di dollari, con le trattative di pace e con Zelensky?  C’entra molto, visto che telefona spesso al duce di Kiev  e non è certo un caso che il cancelliere tedesco, Merz, un uomo che esce da BlackRock appunto, sia diventato il maggior fautore della guerra. Il fatto è che fin dall’autunno del 2022 Fink ha firmato con Zelensky un patto per la ricostruzione dell’Ucraina che di fatto sfrutta joint venture pubblico – privato per fare un mucchio di affari.

Ovviamente più viene distrutto nel corso del conflitto, più la torta aumenta: così possiamo presumere che Fink e i suoi compari stiano aspettando il momento in cui si potrà lucrare di più sul Paese che ha fornito ilo materiale umano, evitando però che l’avanzata russa dilaghi e rompa le uova nel paniere o susciti negli stessi ucraini un sentimento di ripulsa nei confronti di chi li ha usati come carne da cannone. È dunque probabile, per non dire certo, che egli sia parte di primo piano nelle trattative, così come è stato un attore importante nella guerra. Adesso c’è da ricostruire tutto ciò che rimarrà del Paese, dalla rete elettrica all’agricoltura, all’industria, allo stesso apparato dello stato che oggi è in mano a nazisti e oligarchi che rubano a più non posso. Ossia ci sono come minimo 600 miliardi di euro in gioco che stanno già stati dirottati su strumenti finanziari ad hoc: tutto questo è persino visibile nel cosiddetto piano di pace formulato da Trump e leggendo le clausole che riguardano il “dopoguerra”, pare di sentire i sussurri delle eminenze grigie nei recessi della Casa Bianca. Del resto, a quanto pare di capire, l’intero Paese non sarà che un bel parco giochi nelle mani della finanza. Va però specificato che gran parte dei soldi saranno di origine pubblica, cioè verranno prelevati dalle tasche dai cittadini,  soprattutto europei, in maniera che i ricchi divengano ancora più ricchi, grazie a un massacro che hanno propiziato con un cinismo estremo: quando si sono resi conto di non riuscire a sconfiggere la Russia con le loro sanzioni, si sono dedicati a mettere in piedi un gigantesco business. Che poi sia macchiato di sangue a loro importa ben poco. L’espressione il sonno del giusti è una clamoroso falso: i giusti si tormentano, sono gli ingiusti a non avere pensieri.

Per un momento è sembrato che parte di quei soldi avrebbero potuto derivare dalla rapina dei fondi russi, ma quando si è capito che ciò avrebbe spaccato la Ue, forse in maniera irrecuperabile e che comunque l’Fmi aveva forti dubbi sull’operazione, ecco che hanno messo le mani nelle tasche sempre più povere dei cittadini, per cavar fuori 90 miliardi di euro da regalare ai corrotti di Kiev: si tratta di denaro da rubare che non serve a nulla per la guerra. I problemi dell’Ucraina  consistono soprattutto nella carenza di uomini e di addestramento e in parte nella mediocrità e del costo stratosferico delle armi prodotte dall’Occidente. Cerco di spiegarmi con un esempio concreto: i russi lanciano ogni mese molte decine di missili ipersonici su obiettivi militari, energetici o industriali dell’Ucraina, ma per avere il 12 % di possibilità di intercettarli occorre far partire almeno 4 Patriot per ognuno dei vettori russi in avvicinamento, vale a dire  occorre un totale di 16 milioni di dollari per avere una minima possibilità di difesa. Per disporre poi di un’intera batteria di questi mediocri missili antiaerei  (in Arabia Saudita sono riusciti a beccare solo pochissimi droni degli Houti)  dotata di radar, centri di controllo, generatori e tutto ciò che occorre, la spesa è di un miliardo in relazione a una modestissima efficacia.

Così 90 miliardi sembrano tanti e sono in effetti tanti, anzi troppi, per Paesi in drammatica  crisi economica, ma in realtà sono pochi per organizzare una efficace difesa nelle condizioni in cui si trova ormai l’esercito ucraino: la sola difesa aerea per un anno li brucerebbe quasi tutti. Senza dire che Kiev è in totale bancarotta e che occorrerebbero 150 miliardi solo per tenere in piedi la baracca. Ma si sa, Fink e la sua compagnia cantante di speculatori, amano questi fiumi di denaro perché producono interessi che poi vanno in tasca a loro. La russofobia, instillata ogni giorno, su ogni canale o giornale mainstream, serve appunto a fa sì che il flusso di soldi non si fermi. E per questo che intervengono direttamente nelle trattative, non fidandosi abbastanza delle loro teste di legno di Bruxelles, scelte proprio in ragione della loro mediocrità e/o ricattabilità. In una lettera aperta al cancelliere Merz, l’economista Jeffrey Sachs gli lancia l’accusa di essere fuori dalla storia, dalla diplomazia, da ogni buon senso e credibilità. Però dovrebbe sapere che, nel modello economico in cui viviamo, il profitto non guarda in faccia a nessuno e tantomeno alla storia. Fino a quando la storia non ne decreterà la fine.

da qui


Davos, BlackRock e il cerino della democrazia

Quando il potere non si presenta alle elezioni - Giuseppe Gagliano

C’è chi parla di “nomina tecnica”, chi di “fase di transizione”, chi si affanna a precisare che no, BlackRock non ha preso formalmente il controllo del World Economic Forum. Tutto vero. Ma irrilevante. Perché il punto non è il titolo sulla porta, bensì chi tiene le chiavi. E oggi una di quelle chiavi è finita nelle mani di Larry Fink, capo del più grande gestore di capitali del pianeta, chiamato a co-presiedere il tempio di Davos proprio mentre il sistema globale scricchiola.

Dicono che non sia una presa di potere. Sarà. Ma quando il signore di dieci e passa trilioni di dollari di asset diventa il garante della “governance globale”, forse una domanda bisognerebbe farsela. Anche solo per sport.

Il World Economic Forum è sempre stato questo: un luogo dove il potere si dà del tu, lontano da urne, parlamenti e fastidiose opinioni pubbliche. Ma finché restava un salotto, una fiera delle buone intenzioni, si poteva liquidarlo come folklore d’élite. Oggi no. Oggi Davos è il posto dove si prova a supplire al fallimento della politica. E chi meglio di BlackRock, che governa capitali più grandi di molti Stati, può farlo?

BlackRock non legifera, certo. Ma decide cosa è finanziabile e cosa no. E nel mondo reale, quello dove le fabbriche chiudono e le transizioni si pagano, questo equivale a decidere cosa esiste e cosa muore. Se non investi, non cresci. Se non cresci, scompari. Altro che sovranità.

La favola racconta che è tutto per il bene comune: sostenibilità, clima, responsabilità sociale. Peccato che a stabilire cosa è “responsabile” sia sempre lo stesso club. Un club che non risponde a elettori, ma ad azionisti. E che quando sbaglia non viene sfiduciato, ma al massimo cambia consulente.

Sul piano geopolitico il messaggio è chiarissimo. Mentre Cina e Russia rafforzano il controllo statale sull’economia, l’Occidente sceglie un’altra strada: privatizzare la stabilità. Delegare al capitale il compito di tenere insieme un sistema che la politica non sa più governare. Non è liberalismo, è resa. Una resa elegante, in giacca scura e cravatta ESG.

Il problema non è Larry Fink. È il vuoto che lo rende indispensabile. Stati indeboliti, istituzioni multilaterali paralizzate, democrazie che non decidono più ma ratificano. In questo spazio entra la finanza, che non fa prigionieri ma nemmeno promesse. E soprattutto non chiede permesso.

Poi ci stupiamo se fuori dall’Occidente Davos viene visto come il volto sorridente di un ordine economico imposto dall’alto. Ci stupiamo se cresce la diffidenza, se il Sud globale parla di ipocrisia, se la parola “governance” suona come un sinonimo elegante di comando.

La verità è che nessuno ha eletto BlackRock, ma tutti ne subiscono le scelte. Nessuno ha votato il World Economic Forum, ma molte politiche pubbliche sembrano scritte con il suo vocabolario. E quando il potere diventa così grande da non avere bisogno di legittimazione, allora sì che il problema non è più complottista. È democratico.

Davos non ha bisogno di prendere formalmente il potere. Gli basta che nessun altro lo eserciti davvero.

da qui

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