Gli anni Ottanta
Ho finito la terza media nel giugno del 1990, trentacinque anni fa e fino a quel momento, sia alle medie che alle elementari, io che vivevo in provincia di Viterbo gli stranieri non li avevo mai avuti in classe, poco più li avevo conosciuti. Per me da bambino, gli stranieri erano solo i marocchini, così li chiamavano sulla spiaggia di Torvajanica dove d’estate andavo al mare, a casa di mio zio. A me da bambino pareva che esistessero solo quelli di stranieri, i marocchini, e poco importa che ovviamente non fossero solo magrebini, a me pareva proprio che nell’Italia intera gli stranieri fossero solo i marocchini. Però alle elementari era arrivato in quinta un ragazzino adottato dalla Colombia, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, giocava bene a pallone e il mister alla prima partita gli aveva dato la maglia numero dieci. Un po’ io c’avevo sperato nella maglia numero dieci, ma a me aveva dato la otto, lui era molto più forte di me ed era mancino, come Maradona. Il maestro ce l’aveva presentato così quando era arrivato: «viene da un paese molto lontano, e adesso il suo papà è Sergio Guidi e la sua mamma la Rosa». Sergio Guidi, che noi lo conoscevamo tutti perché era il dirigente della nostra squadra e ci caricava in sette sulla Ford Escort per portarci alle partite, da quel giorno ci avrebbe caricato in otto. Quel bambino veniva da un mondo lontano come ci aveva detto il maestro, ed era per me una cosa strana perché, se magari nelle scuole delle grandi città alla fine degli anni Ottanta gli stranieri erano già arrivati, per me, per la mia scuola in provincia di Viterbo, alle elementari, ma anche alle medie, gli stranieri veri, quelli che avevo conosciuto, erano stati fino a quel punto solo i marocchini del mare di Torvajanica che vendevano le palette e le ciambelle di Goldrake e da allora in poi anche il mio amico adottato dalla Colombia. Poi certo, c’erano anche i Rom, che erano gli zingari, anzi, gli zingheri, che ti portavano via se non ti comportavi bene: così mi aveva istruito la mia zia zitella. Ma anche i Rom, a parte quelli che si vedevano in giro per la festa di Santa Rosa e quelli che un po’gli assomigliavano e che erano i padroni delle giostre e del calcinculo, non erano pervenuti nella mia vita tra Ottanta e Novanta. Insomma, nella mia scuola in provincia di Viterbo fino alla terza media non c’erano mai stati gli stranieri e sarà sempliciotto, ma storicamente c’è del vero, nell’Italia di più o meno trentacinque quaranta anni fa, per lo meno nella mia Italietta di provincia che era la Tuscia, lo straniero in pratica non esisteva. Trentacinque quaranta anni fa, che poi è uno sputo di tempo, tanto che lo sto qui a raccontare come fosse ieri.
Gli anni Novanta/1
Nell’anno di Italia ‘90, a settembre, ho iniziato il liceo e sì, anche
nella mia classe non c’era nemmeno uno straniero. Vabbè, il liceo. Eh sì, il
liceo: tutti italianissimi e viterbesissimi (ché il liceo io l’ho fatto a
Viterbo) e forse, a dirla tutta, quello più straniero lì dentro ero proprio io,
non solo perché in centro ci arrivavo da Celleno – oggi detto Il borgo fantasma
– con venti minuti di postale dell’Acotral (oggi Cotral), ma soprattutto per il
cognome sardo che mi ritrovavo: Contu, ché mio nonno, arrivato dalla Barbagia
nel Lazio nel 1963, come tutti i sardi della migrazione sarda di quel periodo,
lui sì che era proprio straniero in continente. Per non dire di mio padre,
giovane sardo sbarcato a Civitavecchia e poi dopo qualche anno da Monterotondo
a Viterbo, dove avrebbe sposato una continentale – mia madre – e dove sarei
nato io due anni dopo mia sorella, nel 1976, proprio quando i sardi erano
quelli dell’Anonima Sarda (figurati, i Contu venivano pure da Onanì, a due km
da Lula, il paese di Matteo Boe). Nei racconti di famiglia c’era sempre
stata, tra le altre, la storia delle visite di cortesia dei carabinieri alle
famiglie sarde come la nostra nel viterbese durante il sequestro Moro, quando
lui pare villeggiasse bellamente a Gradoli sul lago di Bolsena, e io che avevo
due anni al tempo, mi dicono essermici trovato a mio modo e da dentro una culla
in mezzo a una di quelle improvvisate. E allora, forse proprio per questo non
avevo avuto gli stranieri a scuola: una specie di punizione, perché in realtà
lo straniero ero io, continentale di seconda generazione, che in tavola invece
della rosetta avevo il pane carasau, che qualcuno mi chiamava malignamente
sardignolo, che ero figlio di quelli dicevano con la Pattada sempre in tasca, e
se in quegli anni me la prendevo e pure parecchio, forse mi sarebbe bastato uno
qualunque proveniente dal futuro a consolarmi, profetizzandomi che una volta
diventato insegnate non sarebbe stato troppo difficile capirle quelle seconde
generazioni nate e cresciute in Italia, perché il primo a essere una seconda
generazione nella ridente Tuscia con lo stigma del bau bau venuto da lontano,
tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ero stato proprio io.
Niente di strano eh, l’esperienza praticamente di metà degli italiani con
storie di migrazioni interne sul groppone familiare, anche se troppo presto gli
italiani se lo sarebbero dimenticato.
Gli anni Novanta/2
Posto che i marocchini per me a quel tempo continuavano a esserci specie
d’estate – ma avevo fatto un salto, diciamo di qualità, passando dal mare di
Torvajanica a quello di Montalto di Castro dove un giorno avrei pure trovato
moglie – a un certo punto, nell’ italianissima nazione, irruppe una specie di
criptide nuovo. C’era che era caduto il muro, s’era sfasciato tutto là dove
stavano i comunisti di Ivan Drago, e nel giro di due anni, 1991 e 1992, seconda
e terza liceo per quanto mi riguarda, spuntò fuori a scuola un nuovo bau bau
che più bau bau non si poteva: l’albanese. E allora giù, tutti a spaventarsi
con i primi barconi, che quelli erano barconi veri da fare spavento, altro che
le barchette che un giorno avrebbe combattuto eroicamente l’oh Capitano, mio
Capitano. La banchina come un formicaio del porto di Bari, la nave Vlora che
pareva l’arca di Noè, e davvero mamma li turchi, arriva l’orda, gli albanesi vi
ammazzeranno tutti, vi porteranno via il lavoro, le mogli, i bambini, e giuro,
un insegnante ci disse in classe che l’errore nostro era stato di non fare la
resistenza navale come a Lepanto, a noi che, mentre ci diceva questa cazzata,
le battaglie navali la facevamo per davvero, ma sotto il banco. Ora, sarebbe
pure troppo citofonato stare a vedere come dopo un altro sputo di tempo, i
trent’anni che separano quel buffo ieri dall’oggi, quegli stessi albanesi che
facevano sognare il 1571 al mio professore sarebbero diventati quanto di meglio
c’è oggi nel mio quartiere e nella mia scuola, dall’imprenditore e la sua ditta
che assume gli italiani e che mi ha fatto i lavori in casa, ad alcuni dei
migliori amici dei miei figli, fino al cento e lode uscito dalla mia classe di
liceo classico – sì, horribile dictu, liceo classico – della
ragazza albanese che a breve diventerà mia collega di lettere e insegnerà
italiano ai nipoti di chi gridava ai bau bau che erano sbarcati all’inizio dei
Novanta, con il mito del Milan di Sacchi e delle Mercedes 190. Ma allora già si
gridava all’apocalisse anche se, per restare a quei miei primi anni Novanta e a
stare onestamente sul pezzo, stranieri nella mia Viterbo di allora ancora
pochi, zero nella mia classe. Se non altro avevo capito che non c’erano solo i
marocchini diventati magicamente magrebini, che a quel punto bisognava
preoccuparsi anche dell’est, e non solo degli albanesi, ma di tutti quelli in
fuga dal disastro balcanico, ma anche dei polacchi, addirittura già di qualche
rumeno, e poi a Roma c’erano anche i centroafricani, i filippini no, che quelli
stavano rintanati nelle ville all’Olgiata, e poi gli indonesiani e i bangladini
e pure i latinoamericani che aumentavano sempre più con i zufoletti nelle
piazze (ma loro li conoscevo bene, perché ero iscritto all’associazione
Italia-Nicaragua) e pure qualche cinese si iniziava a vedere, ma poca roba.
Insomma, pareva che qualcosa di grosso stesse accadendo, anche se, nella mia
modestina Tuscia, continuavamo a essere, anzi continuavano a essere, tutti
Rossi, Ricci e Proietti, Delle Monache, Bernini e Morucci, Meschini, Serafini e
Buffetti. Beh, sì, c’era anche Contu, ma a quel punto più o meno m’ero
integrato anche io o, meglio, ero diventato sufficientemente stronzo anche io
da accontentarmi di quel mondo incredibilmente micragnoso e piccolo.
Gli anni Novanta/3
Finito il liceo, come mezza mia famiglia, nel 1995 vengo a fare
l’Università qui a Perugia, dove vivo adesso, da dove non mi sono più mosso.
L’impatto straniero a Perugia fu per me davanti all’Università per gli
Stranieri, allora ma anche oggi istituzione più che prestigiosa, che ricordo in
quel primo giorno in città non per integranti motivi, ma per colpa della
marmitta della Vespa che mi ero portato da Viterbo. Eh sì, perché avevo preso
alloggio fuori dal centro di Perugia, e per quello m’ero industriato per
portarmi la Vespa da Viterbo per andare a lezione, ma per l’ennesima volta lo
straniero ero io nel nuovo posto dove ero arrivato. La Polini della mia Vespa
modificata (nel bildungsroman del giovane viterbese ci doveva essere almeno una
Polini/Dr75/carburatore Dell’Orto 19 come precondizione all’esistenza) faceva
talmente casino che il vigile, fermandomi, m’aveva intimato «ma che ti dice la
testa di fare tutto ‘sto bordello? Ma da dove arrivi tu? Viterbese? Ma
tornatene a casa tua!». Ovvio che l’ultima esclamazione è farlocca e l’ho
aggiunta io (ma, secondo me, l’aveva pensata davvero il vigile), ma insomma,
per farla breve, certo che a quel punto, arrivato a Perugia, gli stranieri
c’erano ovunque, ma stranieri variegati, da quelli della stazione di Fontivegge
un po’ più incasinati a quelli del centro e delle facoltà un po’ più pettinati.
E poi c’ero anche io, il viterbese con la Vespa ma con il cognome sardo,
straniero al quadrato, e forse davvero non è un caso che per quattro anni avrei
felicemente convissuto in appartamento con due pugliesi di Taranto innamorati
di Cito, uno di Roccabernarda che faceva arrivare il pacco di giovedì e un
altro di Rieti: stranieri pure tutti loro, ché, passi Taranto e la mitologica
provincia di Crotone, ma se non è straniero uno di Rieti a Perugia di che
stiamo a parlare. Emergenze presunte perugine di allora dunque, a parte noi
studenti fuorisede: albanesi – aridaje – i latinoamericani di via della
Pallotta, e il nome di un quartiere sentito per la prima volta allora, Ponte
San Giovanni, alle porte di Perugia, che pareva fosse una specie di Bronx, un
ricettacolo di provenienze diverse da rimanerci secchi al solo entrarci, una
specie di bolgia a cielo aperto (spoiler: ci sarei andato a vivere nel 2005, ci
abito tutt’ora, lì avrei fatto crescere con gran soddisfazione quattro figli).
Mettici poi, per quanto mi riguarda, un Erasmus, i quattro anni di università e
uno da obbiettore di coscienza alla Caritas dove per quattordici mesi avrei
abitato in comunità con i messi alla prova (manco a dirlo, marocchini e
albanesi), frequentato per altrettanti mesi il centro d’ascolto ai tempi dell’articolo
18, leggi portare i vestiti e i panini negli androni della questura di notte
alle ragazze della tratta che venivano rastrellate e caricate sui pullman ai
tempi della Bossi – Fini («tra una settimana sono di nuovo qui» mi disse Aisha
in un’alba d’inverno, nei sotterranei della questura, con il più bello dei
sorrisi mai visti. Mi innamorai all’istante: Aisha fece talmente tremare di
chiaritate l’aria che ancora ce l’ho piantata in testa). Insomma, alla fine
degli anni Novanta e all’inizio degli anni Zero il mio apprendistato da
italiano medio sulla presenza dello straniero era di certo andato avanti un bel
pezzo. Ma nel giro di pochissimo per me sarebbe iniziato un altro giro,
un’altra corsa.
Gli anni Zero
Nell’ottobre del 2003 vengo al mondo per la seconda volta, entro per la
prima volta in classe, in un Ipsia della provincia di Perugia: prof Contu al
servizio delle patrie scuole. Da quel primo giorno mi tocca andare un po’ più
veloce: dieci anni di precariato in giro per la regione che avrei fatto tutti
in istituti tecnici e professionali, con una parentesi al liceo artistico.
Ovviamente le classi si erano a quel punto riempite di alunni con cognomi per
niente viterbesi, ma nemmeno perugini. Eh sì, perché già all’inizio degli anni
Zero, quelli che avevo in classe, se non ancora tutti erano nati in Italia,
comunque c’erano arrivati da piccoli, e chiamarli stranieri già mi pareva una
cosa cretina, dal momento che stavano nella stessa aula di scuola dove stavano
gli altri. Ma è un fatto che per la prima volta la scuola, la società mi pareva
davvero cambiata, il mondo finalmente era arrivato in Italia, ovvero circa
venticinque anni fa, uno sputo ancora più piccolo per la storia di questo
paese. Nei miei primi dieci anni da insegnante precario, che cambiava una
scuola all’anno, ma anche che ogni tanto ce ne iscriveva un figlio o una figlia
– tre Contu/Marcacci su quattro nascono in quel periodo – le classi, la vita,
l’Italia intera questa volta per davvero, per lo meno ai miei occhi, s’era
riempita, vivaddio di persone che arrivano non solo da Spello o Panicale, ma
anche da mille altre parti del pianeta. Le classi nelle quali ogni anno mi
trovavo a insegnare per altro già mi propinavano la lezione storica della scuola
che, al riparo di chi si impegnava con riscontro (elettorale e al bar sotto
casa mia) per fomentare il bau bau e il mamma li turchi, tra mille difficoltà
si faceva carico delle difficoltà, e soprattutto le superava, nel semplice e
naturale procedere degli eventi e della storia che a scuola è sempre tanto più
silenziosa quanto al trotto se non di corsa: sì, la scuola già mi squadernava
davanti l’evidenza di un mondo finalmente nuovo. Penso alla percezione
dell’albanese che nel giro di nemmeno un decennio era nettamente mutata (forse
anche il mio vecchio professore s’era ricreduto sulla Lepanto da fare a
Durazzo), alle millanta di alunne e alunni di provenienza nord e centro
africana che, al netto del racconto e delle etichette infami che ci già allora
piacevano tanto, iniziavano allora a dare e continuano tutt’ora a dare lezioni
positive di riscatto politico e sociale nelle nostre classi, alle millanta di
ragazze e ragazzi dell’est, Polonia, Romania, Moldavia, Ucraina etc.,
dell’altro continente, Perù, Ecuador, Cile etc., che ho avuto in classe e che,
semplicemente, prosaicamente, naturalmente, mi mostravano come l’integrazione,
giorno per giorno, al netto di tutte le fatiche, giuste e naturali, stava
fiorendo come margherite tra l’asfalto proprio a scuola. Per non farmi mancare
nulla, o per lo meno per non fare l’integrato con le scuole degli altri, ebbi
in quegli anni la buona ventura di mandare i primi miei tre figli nelle scuole
del quartiere di Ponte San Giovanni, sì, il Bronx di noialtri perugini, scuole
dove tutti e tre i piccoli e poi adolescenti Contu avrebbero studiato con
profitto (dovrei scrivere altrettante righe per parlare di quegli insegnanti,
di quelle scuole), scuole dove si erano mischiati a mille altri cognomi per
niente perugini e di ogni parte del mondo (a un certo punto il più grande, che
aveva i suoi due migliori amici con famiglia congolese mi disse in alla fine
della seconda media: «babbo, Maurice, Martial e io abbiamo fondato una crew, lo
sai come ci chiamiamo?», «come?». «I Negrita»). Scuole nelle quali i miei figli
hanno studiato, imparato, avuto la possibilità di fare e fare bene quello che
si fa scuola compreso il fare molto bene le superiori, ma soprattutto avuto il
privilegio di un’idea di mondo e di realtà meno micragnosa di quella che a me
era parsa normale alla loro di età.
Gli anni Dieci
Dagli anni Dieci agli anni Venti, mi rendo conto però di una cosa. Di
quello che di incredibile e di rapido stava avvenendo a scuola, con tutte le
contraddizioni e le difficoltà possibili, ma con un’evidenza di un progresso
morale e civile senza precedenti, di contro nella società, nella comunicazione,
soprattutto nella politica, passava ben poco. Anzi, il racconto di questa
cortissima storia italiana con lo straniero a scuola (trentacinque? Quaranta
anni?) era sempre più spiaccicata sull’episodio brutto e singolare che
diventava sineddoche a quattro colonne sui giornali dell’invasione
incontrollata, sulla classe di frontiera dove le proporzioni tra il numero di
figli della nazione e figli dell’invasione era fuori da ogni controllo,
insomma, da tutti i disastri che ci avrebbe portato questa piaga purulenta
detta immigrazione. Certo che di questioni aperte c’erano e ce ne sono (quando
mai sono mancate a scuola), ma ciò che mi colpiva è come la quotidianità nella
quale mi trovavo (istituti tecnici e professionali con un alto numero di
immigrati, un quartiere assolutamente multietnico, un’ esperienza significativa
di tre figli in scuole fortemente multietniche) mi parlava di un mondo dove la
speranza e il progredire dell’integrazione era evidente in casi
incalcolabilmente più abbondanti delle cosiddette questioni critiche. Insomma,
a fronte di una storia relativamente breve dello straniere a scuola, trenta,
quaranta anni, a me pareva – e pare tutt’ora -, che se c’era un luogo dove
l’integrazione progrediva spedita, quello era proprio la normalità della vita
scolastica, mentre nel senso comune, la percezione fosse alimentata dal veleno
di un vocabolario osceno, dall’idea dello straniero, proprio di quello
straniero finito sul giornale, come prova provata della rovina dei tempi
e della nazione anziché, come di fatto constatavo, di tutto il resto di quella
nuova umanità nella quale, ogni mattina, a scuola, a casa, nel quartiere,
percepivo i segni di una nuova fioritura. O forse, semplicemente si trattava di
quella storiella antica ma sempre vera dell’albero che cade e che fa più casino
della foresta che in silenzio cresce.
Gli anni Venti
Negli ultimi dieci anni insegno sempre nella stessa scuola, un istituto con
al suo interno vari indirizzi, dal liceo classico al liceo delle scienze umane
ed economico sociale. Il mondo è cambiato in modo radicale da quel piccolo
mondo antico delle mie elementari e medie a Viterbo, su questo ci faccio ogni
anno una lezione a scuola, siamo in un tempo dove la frattura, il cambiamento
epocale, è sotto gli occhi di tutti: «se dici a tuo nonno “taggami” che ti
risponde?», inizio così quella lezione. Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo
di storia. Eppure, lo dico con convinzione adamantina, è un mondo infinitamente
più bello e sensato di quel piccolo mondo antico nel quale sono cresciuto io.
In classe oramai ho stabilmente ragazzi e ragazze nate in Italia, ma con il
cognome diverso come lo era il mio Contu quando ero proprio io la seconda
generazione. Alcuni sono bravissimi, la ragazza di cui dicevo prima, il 100 del
liceo classico e che sarà mia collega di Lettere spero prestissimo, un giorno,
nel suo ultimo anno, quando io auguro buon primo voto a tutti in occasione dell’ultimo
referendum, mi sorprende dicendomi: «ma io non voto prof, non ho ancora la
cittadinanza». Quel giorno rimango muto, mi frigge la rabbia dentro e penso
solo a che paese meschino, ottuso, cieco nonostante tutto continuiamo a volere
essere. Nel frattempo, ci è nata una quarta figlia, anche lei frequenta nido e
materna a Ponte San Giovanni, mi rendo conto come a cinque anni il fatto che i
suoi amichetti e le sue amichette si chiamino Sara ma anche Kayla, Lorenzo ma
anche Amir, Luca ma anche Eliot, sia per lei la cosa più pacifica del mondo,
come la pioggia che cade all’ingiù. Vivo dal 2005 in un condominio multietnico,
le scale a volte puzzano un po’ di cipolla, ma se per questo anche del torcolo
umbro che fa mia moglie, e che, per quanto mi riguarda, ha un odore ben più
nauseante della cipolla che preferisco di gran lunga. La scuola, le nuove
generazioni, ragazze e ragazzi nata ormai negli anni Dieci del terzo millennio
(in prima ci sono i 2011, e noi ancora stiamo a frignare sul Novecento e i bei
tempi andati) vivono anche loro come un semplice e banale dato di realtà un
Italia che finalmente, troppo tardi rispetto al resto d’Europa, s’è aperta al
mondo. I problemi ci sono ogni giorno, la scuola, ogni mattina, riapre per
risolverli ogni giorno, di più, spesso e volentieri ci riesce ogni giorno.
Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo di storia. Eppure, tutto sembra
navighi contro, la politica, un senso comune che continua a generare paura, un
tempo dove l’odio passa nelle parole (un giorno dovremo rendere conto dell’uso,
anche su giornali illustri, di abomini come il termine “maranza” eletto a tipo
umano), politici indegni che costruiscono consenso sulla condanna degli ultimi.
Soprattutto, mi rendo conto che la reazione della maggior parte – io dico soprattutto
adulti per non dire vecchi – di coloro che leggessero questa piccola storia fin
qui raccontata sarebbe l’eccepire «sì, ma tu in quale mondo vivi e hai
vissuto?». Non sarebbe troppo complicato rispondere: «vivo a scuola, dove
stiamo costruendo, anzi, abbiamo già costruito, nonostante te che in fondo
nemmeno te lo meriti, nonostante quello che ti dicono e leggi, nonostante
questa politica misera, un mondo nuovo e infinitamente migliore per te, ma
soprattutto per chi verrà dopo di te».
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