mercoledì 10 dicembre 2025

Lo straniero a scuola mia - Roberto Contu

Gli anni Ottanta

Ho finito la terza media nel giugno del 1990, trentacinque anni fa e fino a quel momento, sia alle medie che alle elementari, io che vivevo in provincia di Viterbo gli stranieri non li avevo mai avuti in classe, poco più li avevo conosciuti. Per me da bambino, gli stranieri erano solo i marocchini, così li chiamavano sulla spiaggia di Torvajanica dove d’estate andavo al mare, a casa di mio zio. A me da bambino pareva che esistessero solo quelli di stranieri, i marocchini, e poco importa che ovviamente non fossero solo magrebini, a me pareva proprio che nell’Italia intera gli stranieri fossero solo i marocchini. Però alle elementari era arrivato in quinta un ragazzino adottato dalla Colombia, sarebbe diventato uno dei miei migliori amici, giocava bene a pallone e il mister alla prima partita gli aveva dato la maglia numero dieci. Un po’ io c’avevo sperato nella maglia numero dieci, ma a me aveva dato la otto, lui era molto più forte di me ed era mancino, come Maradona. Il maestro ce l’aveva presentato così quando era arrivato: «viene da un paese molto lontano, e adesso il suo papà è Sergio Guidi e la sua mamma la Rosa». Sergio Guidi, che noi lo conoscevamo tutti perché era il dirigente della nostra squadra e ci caricava in sette sulla Ford Escort per portarci alle partite, da quel giorno ci avrebbe caricato in otto. Quel bambino veniva da un mondo lontano come ci aveva detto il maestro, ed era per me una cosa strana perché, se magari nelle scuole delle grandi città alla fine degli anni Ottanta gli stranieri erano già arrivati, per me, per la mia scuola in provincia di Viterbo, alle elementari, ma anche alle medie, gli stranieri veri, quelli che avevo conosciuto, erano stati fino a quel punto solo i marocchini del mare di Torvajanica che vendevano le palette e le ciambelle di Goldrake e da allora in poi anche il mio amico adottato dalla Colombia. Poi certo, c’erano anche i Rom, che erano gli zingari, anzi, gli zingheri, che ti portavano via se non ti comportavi bene: così mi aveva istruito la mia zia zitella. Ma anche i Rom, a parte quelli che si vedevano in giro per la festa di Santa Rosa e quelli che un po’gli assomigliavano e che erano i padroni delle giostre e del calcinculo, non erano pervenuti nella mia vita tra Ottanta e Novanta. Insomma, nella mia scuola in provincia di Viterbo fino alla terza media non c’erano mai stati gli stranieri e sarà sempliciotto, ma storicamente c’è del vero, nell’Italia di più o meno trentacinque quaranta anni fa, per lo meno nella mia Italietta di provincia che era la Tuscia, lo straniero in pratica non esisteva. Trentacinque quaranta anni fa, che poi è uno sputo di tempo, tanto che lo sto qui a raccontare come fosse ieri.

 

Gli anni Novanta/1

 

Nell’anno di Italia ‘90, a settembre, ho iniziato il liceo e sì, anche nella mia classe non c’era nemmeno uno straniero. Vabbè, il liceo. Eh sì, il liceo: tutti italianissimi e viterbesissimi (ché il liceo io l’ho fatto a Viterbo) e forse, a dirla tutta, quello più straniero lì dentro ero proprio io, non solo perché in centro ci arrivavo da Celleno – oggi detto Il borgo fantasma – con venti minuti di postale dell’Acotral (oggi Cotral), ma soprattutto per il cognome sardo che mi ritrovavo: Contu, ché mio nonno, arrivato dalla Barbagia nel Lazio nel 1963, come tutti i sardi della migrazione sarda di quel periodo, lui sì che era proprio straniero in continente. Per non dire di mio padre, giovane sardo sbarcato a Civitavecchia e poi dopo qualche anno da Monterotondo a Viterbo, dove avrebbe sposato una continentale – mia madre – e dove sarei nato io due anni dopo mia sorella, nel 1976, proprio quando i sardi erano quelli dell’Anonima Sarda (figurati, i Contu venivano pure da Onanì, a due km da Lula, il paese di Matteo Boe).  Nei racconti di famiglia c’era sempre stata, tra le altre, la storia delle visite di cortesia dei carabinieri alle famiglie sarde come la nostra nel viterbese durante il sequestro Moro, quando lui pare villeggiasse bellamente a Gradoli sul lago di Bolsena, e io che avevo due anni al tempo, mi dicono essermici trovato a mio modo e da dentro una culla in mezzo a una di quelle improvvisate. E allora, forse proprio per questo non avevo avuto gli stranieri a scuola: una specie di punizione, perché in realtà lo straniero ero io, continentale di seconda generazione, che in tavola invece della rosetta avevo il pane carasau, che qualcuno mi chiamava malignamente sardignolo, che ero figlio di quelli dicevano con la Pattada sempre in tasca, e se in quegli anni me la prendevo e pure parecchio, forse mi sarebbe bastato uno qualunque proveniente dal futuro a consolarmi, profetizzandomi che una volta diventato insegnate non sarebbe stato troppo difficile capirle quelle seconde generazioni nate e cresciute in Italia, perché il primo a essere una seconda generazione nella ridente Tuscia con lo stigma del bau bau venuto da lontano, tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, ero stato proprio io. Niente di strano eh, l’esperienza praticamente di metà degli italiani con storie di migrazioni interne sul groppone familiare, anche se troppo presto gli italiani se lo sarebbero dimenticato.

 

Gli anni Novanta/2

 

Posto che i marocchini per me a quel tempo continuavano a esserci specie d’estate – ma avevo fatto un salto, diciamo di qualità, passando dal mare di Torvajanica a quello di Montalto di Castro dove un giorno avrei pure trovato moglie – a un certo punto, nell’ italianissima nazione, irruppe una specie di criptide nuovo. C’era che era caduto il muro, s’era sfasciato tutto là dove stavano i comunisti di Ivan Drago, e nel giro di due anni, 1991 e 1992, seconda e terza liceo per quanto mi riguarda, spuntò fuori a scuola un nuovo bau bau che più bau bau non si poteva: l’albanese. E allora giù, tutti a spaventarsi con i primi barconi, che quelli erano barconi veri da fare spavento, altro che le barchette che un giorno avrebbe combattuto eroicamente l’oh Capitano, mio Capitano. La banchina come un formicaio del porto di Bari, la nave Vlora che pareva l’arca di Noè, e davvero mamma li turchi, arriva l’orda, gli albanesi vi ammazzeranno tutti, vi porteranno via il lavoro, le mogli, i bambini, e giuro, un insegnante ci disse in classe che l’errore nostro era stato di non fare la resistenza navale come a Lepanto, a noi che, mentre ci diceva questa cazzata, le battaglie navali la facevamo per davvero, ma sotto il banco. Ora, sarebbe pure troppo citofonato stare a vedere come dopo un altro sputo di tempo, i trent’anni che separano quel buffo ieri dall’oggi, quegli stessi albanesi che facevano sognare il 1571 al mio professore sarebbero diventati quanto di meglio c’è oggi nel mio quartiere e nella mia scuola, dall’imprenditore e la sua ditta che assume gli italiani e che mi ha fatto i lavori in casa, ad alcuni dei migliori amici dei miei figli, fino al cento e lode uscito dalla mia classe di liceo classico – sì, horribile dictu, liceo classico – della ragazza albanese che a breve diventerà mia collega di lettere e insegnerà italiano ai nipoti di chi gridava ai bau bau che erano sbarcati all’inizio dei Novanta, con il mito del Milan di Sacchi e delle Mercedes 190. Ma allora già si gridava all’apocalisse anche se, per restare a quei miei primi anni Novanta e a stare onestamente sul pezzo, stranieri nella mia Viterbo di allora ancora pochi, zero nella mia classe. Se non altro avevo capito che non c’erano solo i marocchini diventati magicamente magrebini, che a quel punto bisognava preoccuparsi anche dell’est, e non solo degli albanesi, ma di tutti quelli in fuga dal disastro balcanico, ma anche dei polacchi, addirittura già di qualche rumeno, e poi a Roma c’erano anche i centroafricani, i filippini no, che quelli stavano rintanati nelle ville all’Olgiata, e poi gli indonesiani e i bangladini e pure i latinoamericani che aumentavano sempre più con i zufoletti nelle piazze (ma loro li conoscevo bene, perché ero iscritto all’associazione Italia-Nicaragua) e pure qualche cinese si iniziava a vedere, ma poca roba. Insomma, pareva che qualcosa di grosso stesse accadendo, anche se, nella mia modestina Tuscia, continuavamo a essere, anzi continuavano a essere, tutti Rossi, Ricci e Proietti, Delle Monache, Bernini e Morucci, Meschini, Serafini e Buffetti. Beh, sì, c’era anche Contu, ma a quel punto più o meno m’ero integrato anche io o, meglio, ero diventato sufficientemente stronzo anche io da accontentarmi di quel mondo incredibilmente micragnoso e piccolo.

 

Gli anni Novanta/3

 

Finito il liceo, come mezza mia famiglia, nel 1995 vengo a fare l’Università qui a Perugia, dove vivo adesso, da dove non mi sono più mosso. L’impatto straniero a Perugia fu per me davanti all’Università per gli Stranieri, allora ma anche oggi istituzione più che prestigiosa, che ricordo in quel primo giorno in città non per integranti motivi, ma per colpa della marmitta della Vespa che mi ero portato da Viterbo. Eh sì, perché avevo preso alloggio fuori dal centro di Perugia, e per quello m’ero industriato per portarmi la Vespa da Viterbo per andare a lezione, ma per l’ennesima volta lo straniero ero io nel nuovo posto dove ero arrivato. La Polini della mia Vespa modificata (nel bildungsroman del giovane viterbese ci doveva essere almeno una Polini/Dr75/carburatore Dell’Orto 19 come precondizione all’esistenza) faceva talmente casino che il vigile, fermandomi, m’aveva intimato «ma che ti dice la testa di fare tutto ‘sto bordello? Ma da dove arrivi tu? Viterbese? Ma tornatene a casa tua!». Ovvio che l’ultima esclamazione è farlocca e l’ho aggiunta io (ma, secondo me, l’aveva pensata davvero il vigile), ma insomma, per farla breve, certo che a quel punto, arrivato a Perugia, gli stranieri c’erano ovunque, ma stranieri variegati, da quelli della stazione di Fontivegge un po’ più incasinati a quelli del centro e delle facoltà un po’ più pettinati. E poi c’ero anche io, il viterbese con la Vespa ma con il cognome sardo, straniero al quadrato, e forse davvero non è un caso che per quattro anni avrei felicemente convissuto in appartamento con due pugliesi di Taranto innamorati di Cito, uno di Roccabernarda che faceva arrivare il pacco di giovedì e un altro di Rieti: stranieri pure tutti loro, ché, passi Taranto e la mitologica provincia di Crotone, ma se non è straniero uno di Rieti a Perugia di che stiamo a parlare. Emergenze presunte perugine di allora dunque, a parte noi studenti fuorisede: albanesi – aridaje – i latinoamericani di via della Pallotta, e il nome di un quartiere sentito per la prima volta allora, Ponte San Giovanni, alle porte di Perugia, che pareva fosse una specie di Bronx, un ricettacolo di provenienze diverse da rimanerci secchi al solo entrarci, una specie di bolgia a cielo aperto (spoiler: ci sarei andato a vivere nel 2005, ci abito tutt’ora, lì avrei fatto crescere con gran soddisfazione quattro figli). Mettici poi, per quanto mi riguarda, un Erasmus, i quattro anni di università e uno da obbiettore di coscienza alla Caritas dove per quattordici mesi avrei abitato in comunità con i messi alla prova (manco a dirlo, marocchini e albanesi), frequentato per altrettanti mesi il centro d’ascolto ai tempi dell’articolo 18, leggi portare i vestiti e i panini negli androni della questura di notte alle ragazze della tratta che venivano rastrellate e caricate sui pullman ai tempi della Bossi – Fini («tra una settimana sono di nuovo qui» mi disse Aisha in un’alba d’inverno, nei sotterranei della questura, con il più bello dei sorrisi mai visti. Mi innamorai all’istante: Aisha fece talmente tremare di chiaritate l’aria che ancora ce l’ho piantata in testa). Insomma, alla fine degli anni Novanta e all’inizio degli anni Zero il mio apprendistato da italiano medio sulla presenza dello straniero era di certo andato avanti un bel pezzo.  Ma nel giro di pochissimo per me sarebbe iniziato un altro giro, un’altra corsa.

 

Gli anni Zero

 

Nell’ottobre del 2003 vengo al mondo per la seconda volta, entro per la prima volta in classe, in un Ipsia della provincia di Perugia: prof Contu al servizio delle patrie scuole. Da quel primo giorno mi tocca andare un po’ più veloce: dieci anni di precariato in giro per la regione che avrei fatto tutti in istituti tecnici e professionali, con una parentesi al liceo artistico. Ovviamente le classi si erano a quel punto riempite di alunni con cognomi per niente viterbesi, ma nemmeno perugini. Eh sì, perché già all’inizio degli anni Zero, quelli che avevo in classe, se non ancora tutti erano nati in Italia, comunque c’erano arrivati da piccoli, e chiamarli stranieri già mi pareva una cosa cretina, dal momento che stavano nella stessa aula di scuola dove stavano gli altri. Ma è un fatto che per la prima volta la scuola, la società mi pareva davvero cambiata, il mondo finalmente era arrivato in Italia, ovvero circa venticinque anni fa, uno sputo ancora più piccolo per la storia di questo paese. Nei miei primi dieci anni da insegnante precario, che cambiava una scuola all’anno, ma anche che ogni tanto ce ne iscriveva un figlio o una figlia – tre Contu/Marcacci su quattro nascono in quel periodo – le classi, la vita, l’Italia intera questa volta per davvero, per lo meno ai miei occhi, s’era riempita, vivaddio di persone che arrivano non solo da Spello o Panicale, ma anche da mille altre parti del pianeta. Le classi nelle quali ogni anno mi trovavo a insegnare per altro già mi propinavano la lezione storica della scuola che, al riparo di chi si impegnava con riscontro (elettorale e al bar sotto casa mia) per fomentare il bau bau e il mamma li turchi, tra mille difficoltà si faceva carico delle difficoltà, e soprattutto le superava, nel semplice e naturale procedere degli eventi e della storia che a scuola è sempre tanto più silenziosa quanto al trotto se non di corsa: sì, la scuola già mi squadernava davanti l’evidenza di un mondo finalmente nuovo. Penso alla percezione dell’albanese che nel giro di nemmeno un decennio era nettamente mutata (forse anche il mio vecchio professore s’era ricreduto sulla Lepanto da fare a Durazzo), alle millanta di alunne e alunni di provenienza nord e centro africana che, al netto del racconto e delle etichette infami che ci già allora piacevano tanto, iniziavano allora a dare e continuano tutt’ora a dare lezioni positive di riscatto politico e sociale nelle nostre classi, alle millanta di ragazze e ragazzi dell’est, Polonia, Romania, Moldavia, Ucraina etc., dell’altro continente, Perù, Ecuador, Cile etc., che ho avuto in classe e che, semplicemente, prosaicamente, naturalmente, mi mostravano come l’integrazione, giorno per giorno, al netto di tutte le fatiche, giuste e naturali, stava fiorendo come margherite tra l’asfalto proprio a scuola. Per non farmi mancare nulla, o per lo meno per non fare l’integrato con le scuole degli altri, ebbi in quegli anni la buona ventura di mandare i primi miei tre figli nelle scuole del quartiere di Ponte San Giovanni, sì, il Bronx di noialtri perugini, scuole dove tutti e tre i piccoli e poi adolescenti Contu avrebbero studiato con profitto (dovrei scrivere altrettante righe per parlare di quegli insegnanti, di quelle scuole), scuole dove si erano mischiati a mille altri cognomi per niente perugini e di ogni parte del mondo (a un certo punto il più grande, che aveva i suoi due migliori amici con famiglia congolese mi disse in alla fine della seconda media: «babbo, Maurice, Martial e io abbiamo fondato una crew, lo sai come ci chiamiamo?», «come?». «I Negrita»). Scuole nelle quali i miei figli hanno studiato, imparato, avuto la possibilità di fare e fare bene quello che si fa scuola compreso il fare molto bene le superiori, ma soprattutto avuto il privilegio di un’idea di mondo e di realtà meno micragnosa di quella che a me era parsa normale alla loro di età.

 

Gli anni Dieci

 

Dagli anni Dieci agli anni Venti, mi rendo conto però di una cosa. Di quello che di incredibile e di rapido stava avvenendo a scuola, con tutte le contraddizioni e le difficoltà possibili, ma con un’evidenza di un progresso morale e civile senza precedenti, di contro nella società, nella comunicazione, soprattutto nella politica, passava ben poco. Anzi, il racconto di questa cortissima storia italiana con lo straniero a scuola (trentacinque? Quaranta anni?) era sempre più spiaccicata sull’episodio brutto e singolare che diventava sineddoche a quattro colonne sui giornali dell’invasione incontrollata, sulla classe di frontiera dove le proporzioni tra il numero di figli della nazione e figli dell’invasione era fuori da ogni controllo, insomma, da tutti i disastri che ci avrebbe portato questa piaga purulenta detta immigrazione. Certo che di questioni aperte c’erano e ce ne sono (quando mai sono mancate a scuola), ma ciò che mi colpiva è come la quotidianità nella quale mi trovavo (istituti tecnici e professionali con un alto numero di immigrati, un quartiere assolutamente multietnico, un’ esperienza significativa di tre figli in scuole fortemente multietniche) mi parlava di un mondo dove la speranza e il progredire dell’integrazione era evidente in casi incalcolabilmente più abbondanti delle cosiddette questioni critiche. Insomma, a fronte di una storia relativamente breve dello straniere a scuola, trenta, quaranta anni, a me pareva – e pare tutt’ora -, che se c’era un luogo dove l’integrazione progrediva spedita, quello era proprio la normalità della vita scolastica, mentre nel senso comune, la percezione fosse alimentata dal veleno di un vocabolario osceno, dall’idea dello straniero, proprio di quello straniero finito sul giornale,  come prova provata della rovina dei tempi e della nazione anziché, come di fatto constatavo, di tutto il resto di quella nuova umanità nella quale, ogni mattina, a scuola, a casa, nel quartiere, percepivo i segni di una nuova fioritura. O forse, semplicemente si trattava di quella storiella antica ma sempre vera dell’albero che cade e che fa più casino della foresta che in silenzio cresce.

 

Gli anni Venti

 

Negli ultimi dieci anni insegno sempre nella stessa scuola, un istituto con al suo interno vari indirizzi, dal liceo classico al liceo delle scienze umane ed economico sociale. Il mondo è cambiato in modo radicale da quel piccolo mondo antico delle mie elementari e medie a Viterbo, su questo ci faccio ogni anno una lezione a scuola, siamo in un tempo dove la frattura, il cambiamento epocale, è sotto gli occhi di tutti: «se dici a tuo nonno “taggami” che ti risponde?», inizio così quella lezione. Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo di storia. Eppure, lo dico con convinzione adamantina, è un mondo infinitamente più bello e sensato di quel piccolo mondo antico nel quale sono cresciuto io. In classe oramai ho stabilmente ragazzi e ragazze nate in Italia, ma con il cognome diverso come lo era il mio Contu quando ero proprio io la seconda generazione. Alcuni sono bravissimi, la ragazza di cui dicevo prima, il 100 del liceo classico e che sarà mia collega di Lettere spero prestissimo, un giorno, nel suo ultimo anno, quando io auguro buon primo voto a tutti in occasione dell’ultimo referendum, mi sorprende dicendomi: «ma io non voto prof, non ho ancora la cittadinanza». Quel giorno rimango muto, mi frigge la rabbia dentro e penso solo a che paese meschino, ottuso, cieco nonostante tutto continuiamo a volere essere. Nel frattempo, ci è nata una quarta figlia, anche lei frequenta nido e materna a Ponte San Giovanni, mi rendo conto come a cinque anni il fatto che i suoi amichetti e le sue amichette si chiamino Sara ma anche Kayla, Lorenzo ma anche Amir, Luca ma anche Eliot, sia per lei la cosa più pacifica del mondo, come la pioggia che cade all’ingiù. Vivo dal 2005 in un condominio multietnico, le scale a volte puzzano un po’ di cipolla, ma se per questo anche del torcolo umbro che fa mia moglie, e che, per quanto mi riguarda, ha un odore ben più nauseante della cipolla che preferisco di gran lunga. La scuola, le nuove generazioni, ragazze e ragazzi nata ormai negli anni Dieci del terzo millennio (in prima ci sono i 2011, e noi ancora stiamo a frignare sul Novecento e i bei tempi andati) vivono anche loro come un semplice e banale dato di realtà un Italia che finalmente, troppo tardi rispetto al resto d’Europa, s’è aperta al mondo. I problemi ci sono ogni giorno, la scuola, ogni mattina, riapre per risolverli ogni giorno, di più, spesso e volentieri ci riesce ogni giorno. Trentacinque? Quaranta anni? Uno sputo di storia.  Eppure, tutto sembra navighi contro, la politica, un senso comune che continua a generare paura, un tempo dove l’odio passa nelle parole (un giorno dovremo rendere conto dell’uso, anche su giornali illustri, di abomini come il termine “maranza” eletto a tipo umano), politici indegni che costruiscono consenso sulla condanna degli ultimi. Soprattutto, mi rendo conto che la reazione della maggior parte – io dico soprattutto adulti per non dire vecchi – di coloro che leggessero questa piccola storia fin qui raccontata sarebbe l’eccepire «sì, ma tu in quale mondo vivi e hai vissuto?». Non sarebbe troppo complicato rispondere: «vivo a scuola, dove stiamo costruendo, anzi, abbiamo già costruito, nonostante te che in fondo nemmeno te lo meriti, nonostante quello che ti dicono e leggi, nonostante questa politica misera, un mondo nuovo e infinitamente migliore per te, ma soprattutto per chi verrà dopo di te».

da qui

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