Nel
documento sulla Strategia di Sicurezza Nazionale (National Security Strategy)
appena pubblicato dall’amministrazione statunitense troviamo una dolorosa
descrizione dell’attuale realtà europea.
Vi troviamo
scritto:
“L'Europa
continentale ha perso quota nel PIL mondiale, passando dal 25% del 1990 al 14%
di oggi, in parte a causa di normative nazionali e transnazionali che minano la
creatività e l'operosità.
Ma questo
declino economico è eclissato dalla prospettiva reale e più concreta della
cancellazione della civiltà. I problemi più ampi che l'Europa si trova ad
affrontare includono le attività dell'Unione Europea e di altri organismi
transnazionali che minano la libertà e la sovranità politica, le politiche
migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la
censura della libertà di parola e la repressione dell'opposizione politica, il
crollo dei tassi di natalità e la perdita di identità nazionali e di fiducia in
se stessi.
Se le
tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra
20 anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato se alcuni paesi europei
avranno economie e forze militari sufficientemente forti da rimanere alleati
affidabili. Molte di queste nazioni stanno attualmente raddoppiando il loro
impegno in quella direzione.
(…)
L'amministrazione
Trump si trova in contrasto con i funzionari europei che nutrono aspettative
irrealistiche rispetto alla guerra, radicati in governi di minoranza instabili,
molti dei quali calpestano i principi fondamentali della democrazia per
reprimere l'opposizione. Un'ampia maggioranza europea desidera la pace, ma
questo desiderio non si traduce in politica, in larga misura a causa del
sovvertimento dei processi democratici da parte di quei governi.”
Ora, dare
ragione all’amministrazione americana è spiacevole, spiacevole sia perché
questa traiettoria europea è stata fino a tempi recentissimi supportata e
alimentata dagli USA, sia perché sappiamo tutti che queste verità vengono dette
non certo in buona coscienza e per amore della verità, ma solo perché al
momento tornano utili alla prospettiva strategica americana.
Ciò non
toglie che siano verità, e vengono dette perché, in quanto verità, appaiono
riconoscibili ai popoli europei.
La
traiettoria europea che viene delineata nel documento parte, correttamente, dal
1990, cioè dalla svolta neoliberale che ha luogo con il Trattato di Maastricht
e la trasformazione della Comunità Europea in Unione Europea. Al tempo quella
svolta significava seguire gli USA nel loro percorso storico, come unica
potenza mondiale rimasta dopo il crollo dell’URSS. Allora – come ora – ciò che
caratterizza le classi dirigenti europee è la loro astrattezza. Se agli USA si
può imputare frequentemente un brutale pragmatismo, l’Europa soffre invece di
una congenita astrattezza (che, peraltro, può essere precisamente altrettanto
brutale, ma senza essere pragmatica, senza esercitarsi ad analizzare e reagire
alla realtà circostante).
Negli anni
’90 quell’astrattezza si espresse nella forma di un’adesione incondizionata
all’idea del trionfo liberale sul modello comunista, trionfo che si traduceva
in una metamorfosi del senso dello stato.
Lo stato
neoliberale non si voleva più né “stato sociale” come nella stagione a economia
mista del secondo dopoguerra, né “stato minimo” come nel liberalismo classico.
Lo stato neoliberale si voleva interventista, ma non per interventi mossi da
un’agenda sociale bensì con un’agenda dettata dall’ideale della “concorrenza
perfetta”. Questo ideale microeconomico andava imposto a tutti i livelli,
inclusi i monopoli naturali (ferrovie, forniture elettriche, ecc.) e inclusi i
sistemi difficilmente privatizzabili (scuola, sanità, università). Là dove non
si poteva senz’altro privatizzare, lì si inventavano sistemi di valutazione, di
misurazione del prodotto, di competizione interna, di creazione di incentivi e
disincentivi che mimavano i meccanismi di mercato.
Questo
processo di snaturamento del settore pubblico, nel tentativo di assimilarne i
meccanismi alla concorrenza privata è alla radice non solo della decadenza
progressiva dell’istruzione pubblica e della sanità, dove le migliori risorse
vengono spese in pseudocompetizioni e burocrazia, ma anche della frenesia
normativa degli apparati europei. Qui il grande perdurante equivoco, sia per i
detrattori che per i sostenitori, è che questo interventismo del centro
amministrativo rappresenti un residuo socialista, mentre è neoliberalismo allo
stato puro: infatti non è l’intervento centrale (stato, commissione europea) a
fare la differenza, ma la sua agenda, i suoi intenti.
Con un
esempio, avere una Banca Centrale Europa avrebbe potuto di principio essere un
fattore compatibile col socialismo-comunismo, nel momento in cui la Banca
Centrale avesse orientato la produzione di moneta e il suo indirizzamento a
sostegno della piena occupazione, delle politiche di ricerca e sviluppo, di un
consolidamento dell’industria pubblica; ma nel momento in cui l’agenda della
BCE è dettata prioritariamente dal fine della stabilità della moneta, essa pone
al centro dei propri interessi i detentori di capitale (oligarchie finanziarie
in primis) e non i cittadini lavoratori.
La
combinazione tra interventismo centrale e priorità degli interessi delle
oligarchie finanziarie è catastrofica, è la peggiore delle combinazioni
economico-politiche immaginabili. Essa unisce tendenze centrali al
normativismo, alla sorveglianza, all’autoritarismo con la mancanza anarchica di
un indirizzo politico, sostituito dall’interesse economico delle oligarchie.
Questa combinazione è incomparabilmente peggiore dei sistemi dove
l’autoritarismo si radica nel perseguimento di un interesse nazionale (es.,
Cina) ma anche di quelli dove la priorità dell’interesse economico individuale
si abbina ad una cornice libertaria, anarcocapitalista (come gli USA).
Tutte le
tendenze più catastrofiche degli ultimi trent’anni sono da ricondurre a questa
devastante combinazione.
La distruzione
delle identità collettive (nazionali, etniche, religiose, comunitarie,
famigliari) è stata funzionale alla sostituzione della società tradizionale con
un sistema di transazioni individuali, idealmente con un mercato universale.
La
cosiddetta “sostituzione etnica” non è mai stata pianificata, e tuttavia essa
di fatto avviene come esternalità di un simultaneo processo di indebolimento
delle identità interne e di un ricorso massivo a risorse lavorative a basso
costo (migranti). L’opzione opposta, quella di aumentare salari, compattezza
politica e potere contrattuale dei lavoratori autoctoni avrebbe rappresentato
una riduzione percentuale della fetta di profitti per le oligarchie
finanziarie, dunque non è stata presa in considerazione.
L’indebolimento
del potere contrattuale dei lavoratori è andato di pari passo con una riduzione
della loro capacità di consumo, e questo si è abbinato alla tendenza europea al
mercantilismo, cioè a puntare tutte le proprie carte sulle esportazioni, su una
bilancia commerciale favorevole. Ma questo naturalmente significa che, a fronte
di qualunque sconvolgimento esterno, a qualunque turbativa dei meccanismi del
commercio estero (crisi subprime, covid, guerre) l’Europa non è più in grado di
compensare le carenze del mercato esterno ricorrendo al mercato interno.
In un
contesto dove solo l’interesse economico individuale viene santificato, il ceto
politico ha iniziato a essere rappresentato sempre più da mediocri arrivisti,
da quaquaraquà, da gente priva di qualunque spina dorsale ideale e disposta a
ogni compromesso pur di arrivare. Ovviamente questo si è ripercosso in forma di
un degrado complessivo della politica, in un collasso delle capacità
autenticamente politiche, in un crollo della lungimiranza strategica, in un disfacimento
di ogni qualità personale sostituita dalla fedeltà alla lobby di riferimento (e
ogni riferimento a von der Leyen, Kallas, Merz, Starmer, Macron, ecc. è
puramente casuale).
Alla fine ci
ritroviamo nella situazione paradossale di aver preso un modello pragmatico di
matrice americana come un’ideologia eterna, di averla coltivata e implementata
con tipica astrattezza europea, di esserne caduti vittima, e di rimanere alla
fine con il cerino in mano mentre gli stessi americani – come hanno fatto più volte
nella storia – girano la nave di 180° perché ora è nel loro interesse fare
così.
Impoveriti,
invecchiati, senza futuro, senza identità, senza visione, marginali ma con la
presunzione di essere ancora chi dà le carte.
Materialmente
i margini per cambiare rotta ci sarebbero ancora, ma il muro di ottusità creato
ad arte negli ultimi decenni - e consolidato nei luoghi strategici di
formazione della pubblica opinione - non sembra essere prossimo a cedere, e
senza una rivoluzione culturale nessuno spiraglio si può aprire.
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