giovedì 4 dicembre 2025

La finanza usata come arma contro la Palestina - Maurizio Bongioanni


Negli ultimi mesi l’occupazione israeliana dei territori palestinesi ha assunto in modo sempre più evidente i tratti di una stretta finanziaria senza precedenti, che si somma alla devastazione materiale e alla violenza sistematica inflitta alla popolazione civile. Un gruppo di esperti delle Nazioni Unite parla apertamente di una “catastrofe economica e finanziaria”.

Nella Striscia di Gaza, la maggior parte delle attività commerciali, agricole e industriali risulta danneggiata, la disoccupazione supera l’80 per cento, il Pil è crollato e gli scambi si sono fermati. La povertà è endemica e nei mesi scorsi è stata dichiarata la carestia. A questa crisi strutturale si aggiunge oggi una crisi di liquidità: le banche e i bancomat sono stati in gran parte distrutti, Israele ha bloccato l’afflusso di nuova valuta, il contante è diventato raro e i prezzi dei beni essenziali sono esplosi: a metà 2025 il costo dell’olio da cucina è aumentato del 1.200 per cento, quello della farina del 5mila per cento, mentre gli operatori umanitari perdono fino al 40 per cento del loro salario solo per riuscire ad accedervi. I pagamenti digitali, infatti, sono ostacolati da blackout elettrici e interruzioni delle telecomunicazioni.

Ne abbiamo parlato con Attiya Waris, docente di Fiscal Law all’Università di Nairobi ed esperta indipendente sugli effetti del debito estero delle Nazioni Unite. 

Professoressa Waris, in un comunicato stampa delle Nazioni Unite lei denunciava il collasso dell’economia palestinese e la difficoltà di recuperare gli spazi economici perduti nell’ultimo anno. È possibile immaginare un futuro percorso di ricostruzione economica, qualora si arrivasse a un cessate il fuoco stabile? Da dove si potrebbe ripartire?

In questo momento è estremamente difficile avere una visione chiara dell’economia palestinese. La violenza continua e l’aggressione costante impediscono qualunque stabilità. La possibilità di una ripresa economica si allontana man mano che il conflitto prosegue. E comincio a credere che questa non sia una conseguenza collaterale, ma il risultato di una strategia deliberata. Come ho indicato nel mio ultimo rapporto di ottobre all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, strumenti finanziari vengono usati come vere e proprie armi, con l’obiettivo di indebolire in profondità l’economia palestinese.

Può farci qualche esempio concreto di strumenti finanziari utilizzati come armi?

Le due banche israeliane autorizzate a processare le transazioni verso la Palestina sono un punto critico del sistema, perché senza le deroghe alle norme antiriciclaggio e antiterrorismo i trasferimenti vengono bloccati automaticamente. Da anni la minaccia di revocare queste deroghe crea instabilità: basta un annuncio o un ritardo per far rallentare o interrompere i flussi di denaro, con conseguenze immediate sulla capacità della Palestina di pagare salari, importare beni o sostenere servizi essenziali.

Uno dei problemi più gravi riguarda il trattenimento delle entrate fiscali dovute all’Autorità Nazionale Palestinese, l’Anp. Parliamo delle imposte che Israele raccoglie per conto della Palestina e che, secondo gli Accordi di Oslo, dovrebbe trasferire regolarmente. Quando Israele blocca questi fondi, l’Autorità Palestinese si trova senza la liquidità necessaria per pagare stipendi pubblici e fornitori, compresi quelli che garantiscono elettricità, carburante, manutenzione delle reti e servizi ospedalieri. In Cisgiordania la maggior parte dell’energia viene acquistata dalla compagnia elettrica israeliana, che pretende pagamenti regolari: se l’Anp non ha fondi, la fornitura viene ridotta o sospesa.

Questo ha effetti immediati sulla vita delle persone. Quando l’elettricità salta o viene razionata, gli ospedali entrano in crisi. Gli incubatori dei reparti neonatali, ad esempio, richiedono una fornitura elettrica continua: senza elettricità, i macchinari si spengono. E abbiamo ricevuto informazioni credibili secondo cui in alcuni di questi blackout dei bambini prematuri sono morti perché le incubatrici non potevano funzionare. Non si tratta di un danno “indiretto”: è la conseguenza diretta di una decisione politica di trattenere fondi destinati ai servizi essenziali.

Questo è il motivo per cui parlo esplicitamente di finanza usata come arma. Non è un linguaggio metaforico: quando si blocca intenzionalmente l’accesso a risorse finanziarie indispensabili al funzionamento dei servizi primari, si colpisce deliberatamente la capacità di una popolazione di sopravvivere. È un modo di esercitare pressione politica attraverso la vulnerabilità economica, con conseguenze umanitarie gravissime e prevedibili.

Lei ha detto che Israele non sta rinnovando la deroga che permette alle banche israeliane di processare transazioni verso banche palestinesi. Se questo blocco dovesse perdurare a lungo, quale sarebbe lo scenario futuro?

Senza quella deroga, ogni transazione palestinese sarebbe trattata come un’operazione proibita o ad altissimo rischio. Di fatto significherebbe isolare completamente la Palestina dal sistema finanziario globale. Niente trasferimenti internazionali, niente aiuti umanitari, niente pagamenti, nessuna capacità di sostenere importazioni. È difficile pensare a una misura più radicale di questa per soffocare un’economia.

Più in generale, cosa si intende per “crisi di liquidità” e come si sopravvive a tale condizione?

Significa che non c’è abbastanza contante nell’economia. Parliamo proprio delle banconote fisiche necessarie per qualsiasi transazione quotidiana. I raid dell’esercito israeliano contro cambiavalute e banche, documentati anche da video, mostrano soldati che portano via denaro contante: togliere fisicamente moneta dall’economia significa ridurre immediatamente la capacità delle persone di accedere a beni essenziali. In contesti di crisi estrema la popolazione non si fida dei pagamenti digitali e in Palestina le interruzioni di elettricità rendono quelle soluzioni quasi impraticabili. Se il contante manca, l’economia scivola verso il baratto. È un processo che già vediamo: chi ha un po’ di liquidità sopravvive, gli altri scambiano beni o servizi.

Prima del 7 ottobre 2023 era ancora possibile ritirare soldi e ricevere rimesse?

Sì, era possibile, anche se con crescente difficoltà. Dopo quella data la situazione è rapidamente peggiorata. Chi aveva denaro contante lo sta usando ora per la sopravvivenza. Chi non ne ha, non ha accesso al sistema finanziario. La valuta dominante resta lo shekel israeliano, insieme a dinari giordani e piccole quantità di valuta egiziana. Ma l’uso dello shekel è in sé problematico, perché la Palestina non controlla né la sua emissione né la quantità che può essere depositata nelle banche. È un meccanismo che amplifica la vulnerabilità.

Torniamo in Cisgiordania, dove il collasso economico avanza per motivi diversi rispetto a Gaza. La sospensione dei permessi di lavoro per circa 100mila lavoratori palestinesi ha ulteriormente drenato risorse. Quanto era importante questa componente dell’economia?

Era una componente cruciale. I redditi dei lavoratori palestinesi in Israele rappresentavano circa un quarto del reddito nazionale lordo. Toglierli significa tagliare un intero canale di sostentamento non solo per quei lavoratori, ma per le comunità familiari che dipendono da loro. È uno shock economico che ha effetto immediato su consumi, mutui, prestiti, spesa alimentare. Un’intera economia locale si reggeva su quei flussi.

Qual è il ruolo del diritto internazionale in questo quadro?

La Corte internazionale di giustizia e l’Assemblea generale dell’Onu hanno stabilito che l’occupazione israeliana è illegale e che deve terminare. Questo vale anche per la dimensione economica: l’occupante deve garantire il funzionamento dell’economia locale, non distruggerla. Trattenere entrate fiscali, bloccare valuta, impedire pagamenti e sfruttare risorse naturali è contrario a questi obblighi. Il quadro giuridico è molto chiaro, e il suo mancato rispetto crea responsabilità internazionali precise.

Ora la priorità è la liquidità. Senza contante, nessuna economia può sopravvivere. Va permesso l’ingresso di valuta, va ristabilito un sistema sicuro di distribuzione del denaro e va garantito un minimo di stabilità elettrica per usare i pagamenti digitali. A questo vanno affiancate misure immediate come la restituzione delle entrate fiscali trattenute e il rinnovo permanente della deroga bancaria. Non sono richieste politiche, sono richieste vitali per la sopravvivenza economica.

Lei ha detto che per uscire da questa crisi strutturale servirebbe una banca centrale palestinese e una valuta propria. Ma un progetto del genere può partire senza il riconoscimento ufficiale da parte della Banca Mondiale?

Sì, può farlo. E, a mio avviso, avrebbe dovuto iniziare molti anni fa. Una banca centrale è uno degli elementi fondamentali per qualsiasi percorso di autodeterminazione statale. Paesi che non godono di pieno riconoscimento internazionale — penso per esempio al Somaliland — hanno comunque una propria moneta e un’istituzione monetaria funzionante. La Palestina non l’ha potuta sviluppare finora a causa dei vincoli strutturali imposti dall’occupazione: il controllo israeliano sulle frontiere, sui flussi finanziari, sulle risorse e perfino sulla quantità di valuta che può circolare complica enormemente la creazione di una moneta autonoma.

Detto questo, non è necessario attendere il riconoscimento della Banca Mondiale per avviare il processo. Nelle fasi iniziali conta molto di più il riconoscimento da parte dei Paesi vicini e di quelli con cui si intrattiene commercio quotidiano. La Banca Mondiale può certamente sostenere il progetto – e io credo che avrebbe dovuto farlo con maggiore decisione già in passato – ma non è un prerequisito.

Oggi esistono anche alternative tecnologiche: sistemi di pagamento digitali, e-wallet, forme di moneta elettronica che potrebbero in parte aggirare i blocchi imposti sulle valute fisiche. Naturalmente tutto questo richiede infrastrutture minime, come un accesso stabile all’elettricità e alle telecomunicazioni, che attualmente non sono garantite. Ma sul piano teorico e tecnico la Palestina ha la capacità di creare la propria politica monetaria. Ciò che manca non è la possibilità: è lo spazio politico per farlo.

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