Alcuni cittadini israeliani scrivono
una lettera aperta alla famiglia di Mohammed Abu Khadr, il giovane palestinese
arso vivo da un gruppo di coloni. Sfidando il pensiero dominante nella società,
e nel tentativo di fermare l’ultima offensiva su Gaza.
Le nostre mani grondano di sangue. Le nostre mani hanno dato fuoco a Mohammed.
Le nostre mani hanno soffiato sulle fiamme. Viviamo qui da troppo tempo perché si possa dire “non lo sapevamo, non lo abbiamo capito
prima, non eravamo in grado di prevederlo”. Siamo stati testimoni
dell’enorme macchina di incitamento al razzismo e alla vendetta messa in moto
dal governo, dai politici, dal sistema educativo e dai mezzi di informazione.
Abbiamo visto la società israeliana
diventare povera e in stato di abbandono, fino a quando la chiamata alla
violenza è diventata uno sfogo per molti, adulti e giovani senza distinzioni,
in tutte le sue forme.
Abbiamo visto come l’essere “ebreo” sia stato
totalmente svuotato di significato, e radicalmente ridotto a nazionalismo,
militarismo, una lotta per la terra, odio per i non-ebrei, vergognoso
sfruttamento dell’Olocausto e dell’“Insegnamento del Re (Davide, ndt)”.
Più di ogni altra cosa,
siamo stati testimoni di come lo Stato di Israele, attraverso i suoi vari
governi, ha approvato leggi razziste, messo in atto politiche discriminatorie,
si è adoperato per custodire con forza il regime di occupazione, preferendo la
violenza e le vittime da ambo le parti ad un accordo di pace.
Le nostre mani sono impregnate di
questo sangue, e vogliamo esprimere le nostre condoglianze e il nostro dolore
alla famiglia Abu Khadr, che sta vivendo una perdita inimmaginabile, e a tutta
la popolazione palestinese.
Ci opponiamo alle politiche
di occupazione del nostro governo, e siamo contro la violenza, il razzismo e
l’istigazione che esiste nella società israeliana.
Ci rifiutiamo di lasciare che il
nostro ebraismo venga identificato con questo odio, un ebraismo che include le
parole del rabbino di Tripoli e di Aleppo, il saggio Hezekiah Shabtai che ha
detto: “Ama il tuo prossimo come te stesso” (Levitico, XVIII).
Questo amore reciproco non si
riferisce soltanto a quello di un ebreo verso un altro, ma anche verso i nostri
vicini che non sono ebrei. E’ un amore che ci insegna a vivere con loro e
insieme a loro perseguire il benessere e la sicurezza. Non è soltanto il
buonsenso che ce lo richiede, ma è la Torah stessa, che ci ha ordina di
condurre la vita in modo armonioso, nonostante e contro le azioni dello Stato e
le parole dei nostri rappresentanti di governo.
Le nostre mani grondano di
sangue.
Per questo ci impegniamo a
continuare la nostra battaglia all’interno della società israeliana – ebrei e
palestinesi – per cambiare la società dal suo interno, per lottare contro
la sua militarizzazione e per diffondere una consapevolezza che oggi risiede
soltanto in una esigua minoranza.
Lotteremo contro la scelta di
muovere ancora guerre, contro l’indifferenza nei confronti dei diritti e delle
vite dei palestinesi, e il continuo favorire gli ebrei in tutto questo ciclo di
violenza.
Dobbiamo combattere per offrire un
legame umano – un legame che sia anche politico, culturale, storico,
israelo-palestinese ed arabo- ebraico; un legame che può essere raggiunto
attraverso la storia di molti di noi che hanno origini ebraiche ed arabe, e per
questo, fanno parte del mondo arabo.
La nostra scelta è quella
della lotta per l’uguaglianza civile e il cambiamento economico, in nome dei
gruppi emarginati e oppressi nella nostra società: arabi, etiopi, mizrahim (di
discendenza araba), donne, religiosi, lavoratori migranti, rifugiati,
richiedenti asilo e molti altri.
Di fronte a questa situazione il
lato più forte è quello che ha la capacità di usare la nonviolenza per
abbattere il regime razzista e il vortice di violenza. Di fronte alla
compiacenza di molti israeliani, cerchiamo e scegliamo la nonviolenza, mentre
gli altri preferiscono permettere al regime di ingiustizia di rimanere saldo al
proprio posto, e aspettano soluzioni che in qualche modo fermino la spirale
infinita di violenza – che mostra la sua faccia ora in questa nuova guerra
contro Gaza – soltanto per avere nuove morti e appelli alla vendetta da ambo le
parti e allontanando un possibile accordo sempre più lontano.
Le nostre mani grondano di sangue, e
il nostro desiderio è quello di creare una lotta congiunta con qualsiasi
palestinese che voglia unirsi a noi contro l’Occupazione, contro la violenza
del nostro regime, contro il disprezzo dei diritti umani.
Questa sarà una lotta per
mettere fine all’Occupazione, o con l’istituzione di uno Stato palestinese
indipendente o attraverso la creazione di uno Stato unico in cui tutti saremo
cittadini di pari diritti e dignità.
Le nostre mani sono piene di questo
sangue. Affermandolo così forte nella nostra società saremo sempre accusati
dalla propaganda nazionalista di essere unilaterali, e di condannare soltanto i
crimini israeliani e non quelli commessi dai palestinesi.
A queste persone noi rispondiamo
così: colui che sostiene o giustifica l’uccisione dei palestinesi, supporta e
incoraggia di conseguenza anche l’uccisione degli israeliani ebrei. E
viceversa. La giostra della violenza è grande e si muove velocemente, ma noi ci
opponiamo ad essa, e crediamo che l’unica soluzione sia la nonviolenza.
Andare contro i metodi di Netanyahu
non significa necessariamente sostenere Hamas: la realtà non è dicotomica.
Altre opzioni esistono nell’asso tra questi due. Allora sottolineiamo ancora di
più che siamo cittadini israeliani e il centro della nostra vita è Israele. Per
questo la nostra più grande critica è rivolta alla società israeliana, che
cerchiamo di cambiare.
Questi assassini si nascondono tra
di noi, fanno parte di noi. Ci sono, ovviamente, spazi in cui si possono
criticare anche le altre società. Ma crediamo, ciononostante, che il dovere di
ogni persona sia di esaminare prima da vicino e in modo critico la propria
società, e solo dopo si possa permettere di approcciarsi alle altre
(...).
Le nostre mani grondano di
questo sangue, e sappiamo che la maggior parte dei palestinesi innocenti uccisi
negli ultimi 66 anni da noi israeliani ebrei non hanno mai ricevuto giustizia.
I loro assassini non sono stati
arrestati, neanche processati, a differenza dei ragazzi sospettati per
l’omicidio di Mohammed. La maggior parte di questi innocenti è morta per mano
di uomini in uniforme mandati dal governo, dai militari, dalla polizia o dallo
Shin Bet.
Questi omicidi, avvenuti per mezzo
di aerei, artiglieria o di persona vengono definiti come “errori umani” o
“problemi tecnici”. E quando ci si riferisce ad essi a volte si include
soltanto una fiacca scusa. La maggior parte dei casi viene raramente posta
sotto inchiesta e quasi tutti finiscono senza rinvii a giudizio, dissolvendosi
nell’aria. Tanti, troppi sono ignorati dai media, dalle agenzie giudiziarie,
dall’esercito.
La ragione per cui i
sospettati della morte di Mohammed sono stati arrestati è semplice: non
portavano un’uniforme.
Ad eccezione dei soldati condannati per il massacro di
Kafr Qasam nel 1956 e rimasti in prigione per non più di un
anno, raramente ci sono stati altri processi nelle Corti israeliane contro
uomini dello Stato, anche per la maggior parte degli odiosi massacri a cui
questa terra ha assistito.
Le nostre mani sono
impregnate di quel sangue. Quando Benjamin Netanyahu esprime le sue
condoglianze e condannare l’omicidio di Mohammed, lo fa con lo stesso respiro
di sempre, comunicando una rivendicazione pericolosa e razzista sulla
superiorità morale di Israele nei confronti dei suoi vicini.
“Non c’è
posto per simili assassini nella nostra società. In questo noi ci distinguiamo
dai nostri vicini. Nelle loro società questi assassini sono visti come eroi e
hanno delle piazze dedicate ai loro nomi. Ma questa non è l’unica differenza.
Noi perseguiamo coloro che incitano all’odio, mentre l’Autorità Palestinese, i
loro media ufficiali e sistema educativo fanno appello alla distruzione di
Israele”.
Netanyahu ha dimenticato che
diverse persone sospettate di essere criminali di guerra hanno servito in vari
governi israeliani, alcuni sotto la sua stessa leadership, e che il numero di
persone innocenti assassinate negli ultimi 66 anni di conflitto dipinge un
quadro molto diverso.
Quando guardiamo il numero di ebrei
israeliani e di palestinesi uccisi, vediamo che il numero dei palestinesi è
molto più elevato.
Netanyahu dimentica anche, o cerca di farci
dimenticare, l'incitamento diffuso propagato dal suo governo nelle ultime
settimane, e le sue parole di vendetta dopo la scoperta dei corpi dei tre
ragazzi ebrei rapiti - Gilad Shaar, Naftali Fraenkel ed Eyal Yifrah - quando
tutti noi eravamo in stato di profondo shock: "Satana non ha ancora inventato una vendetta per il sangue di un
bambino, né per il sangue di questi ragazzi giovani e puri"
(...).
Le nostre mani hanno sparso
questo sangue, e invece di dichiarare giorni di digiuno, lutto e pentimento, il
governo ha ora deciso di lanciare un'operazione militare a Gaza, che ha
chiamato "Operazione Bordo Protettivo".
Chiediamo al governo di fermare
questa operazione subito e di lottare per una tregua e per un accordo di pace,
a cui il governo israeliano si è sempre opposto negli ultimi anni.
Gaza è la storia di tutti
noi; è anche l'oblio della nostra storia. E' il posto più segnato dal dolore in
Palestina e in Israele (…). Gaza è la nostra disperazione.
Le nostre origini comuni sembrano
essere state spazzate via sempre più lontano: dopo 40 anni di possibilità di un
compromesso storico doloroso tra i due movimenti nazionali, quello palestinese
e quello sionista, questa opzione è gradualmente evaporata. Il conflitto viene
reinterpretato in termini mitologici e teologici, in termini di vendetta, e
tutto ciò che ora possiamo promettere ai nostri figli sono molte altre guerre
per le generazioni a venire, nuove uccisioni tra entrambi i popoli, e la
costruzione di un regime di apartheid che richiederà ancora più decenni per
essere smantellato.
Le nostre mani hanno sparso questo
sangue (…), cerchiamo di lavorare contro questa tendenza. Lo facciamo
attraverso le varie comunità della nostra società: ebrei e palestinesi, arabi e
israeliani, Mizrahi e Ashkenazi, tradizionalisti, religiosi, laici e ortodossi.
Abbiamo scelto di opporci ai
muri, alle separazioni, alle espropriazioni e deportazioni, al razzismo e alla
colonizzazione, per offrire un futuro comune come alternativa all'attuale stato
depressivo, oppressivo e violento della nostra società.
Vogliamo costruire un avvenire che non si arrenda al
ciclo di violenza e di vendetta, ma che al suo posto offra la giustizia, la
riparazione, la pace e l'uguaglianza; un futuro che attinge agli elementi
comuni della nostra cultura, umanità e tradizioni religiose in modo che le
nostre mani non serviranno più a spargere sangue, ma a ricongiungerci l'uno con
l'altro in pace, con l'aiuto di dio, Insha'Allah.
*Traduzione dall’ebraico
all’inglese di Idit Arad and Matan Kaminer. La lettera, pubblicata
originariamente sul sito Haokets , è stata pubblicata in inglese sul magazine
israeliano +972mag , che ringraziamo per la gentile concessione. Al
link originale la lista dei cittadini israeliani firmatari della lettera. La
traduzione in italiano è a cura di Stefano Nanni e Anna Toro.
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