Stabat Mater - Gianni Mascia
Stava Maria, Mater addolorada, a Gaza.
Tristezza nelle viscere, pietre nel cuore,
nelle penombre di vespro che s’arrossano,
come carne insanguinata, appena martoriata,
nell’ora d’un segno di croce, a denti stretti,
senza preghiere e senza nemmeno un sospiro,
né una stilla d’acqua santa a benedire
l’ultimo momento, l’ultimo canto funebre.
Stava Maria, madre di dolore, a Gaza.
Ribolle la terra nel vuoto del nulla,
mentre lontano rimbomba feroce la voce
del fragore di mura in caduta, sbrecciate,
che suonano nei sogni di polvere malvagia,
di notti che repentine rotolano nelle rovine,
nel singhiozzare del pianto di un bimbo ferito
che beve le lacrime salate dell’amarezza,
che piovono come un fiume d’Inverno, tsunami,
dalla bocca spalancata del cielo gonfio, grigio,
color di Piombo Fuso, che vomita l’anima
nei suoni dell’abbandono e della disamistade
che sono la sinfonia dell’odio e della tirannia.
Stava Maria, Mater addolorada, a Gaza.
Tristezza nelle viscere, pietre nel cuore,
nelle penombre di vespro che s’arrossano,
come carne insanguinata, appena martoriata,
nell’ora d’un segno di croce, a denti stretti,
senza preghiere e senza nemmeno un sospiro,
né una stilla d’acqua santa a benedire
l’ultimo momento, l’ultimo canto funebre.
Stava Maria, madre di dolore, a Gaza.
Ribolle la terra nel vuoto del nulla,
mentre lontano rimbomba feroce la voce
del fragore di mura in caduta, sbrecciate,
che suonano nei sogni di polvere malvagia,
di notti che repentine rotolano nelle rovine,
nel singhiozzare del pianto di un bimbo ferito
che beve le lacrime salate dell’amarezza,
che piovono come un fiume d’Inverno, tsunami,
dalla bocca spalancata del cielo gonfio, grigio,
color di Piombo Fuso, che vomita l’anima
nei suoni dell’abbandono e della disamistade
che sono la sinfonia dell’odio e della tirannia.
Stava Maria, Mater addolorada, a Gaza…
Era lì, a Gaza, stava a Kabul, in Sierra Leone,
in ogni dove e in ogni quando riluca il dolore,
in ogni dove e in ogni quando alberghi la follia
e l’uomo si strafoga di quel sangue innocente
consolato solo dal canto di labbra di luna.
Era lì, a Gaza, stava a Kabul, in Sierra Leone,
in ogni dove e in ogni quando riluca il dolore,
in ogni dove e in ogni quando alberghi la follia
e l’uomo si strafoga di quel sangue innocente
consolato solo dal canto di labbra di luna.
GAZA CITY – RASA DISCANTO - Sandro Sardella
“Mentre in
lontananza rombava il tuono dell’artiglieria,
noi
incollavamo, recitavamo, componevamo versi e
cantavamo con
tutta l’anima. Eravamo alla ricerca di
un’arte
elementare che pensavamo avrebbe salvato
l’umanità
dalla furiosa follia di quei tempi.
Aspiravamo a
un nuovo ordine che potesse ristabilire
l’equilibrio
tra il cielo e l’inferno.”
(Jean Arp)
il cuore ha
tremato
il flusso
dell’indecente ha forzato
un occidentale
quotidiano consumonarcotizzato
il cuore tuo
cara amica
ha tremato
inquietato da
piccoli occhi
interrogantimpauriti
acceso da
grida e pianti
scosso da
un’indifferenza
devastante
fiamme sulla
spiaggia di Gaza city
la corsa delle
ambulanze è breve
l’assedio resta in
piedi
inascoltato
feroce
sterminatore
i bimbi saltano e
giocano
in un sole
traballante
la palla
vola
galleggia
oltre
idee di pietra e
cementi
le olive cadono
premature e marce
come cani da
caccia
si sparpagliano
cacciatori
investiti
di un qualche
valore spirituale
s’ingozzano
fanno il bagno
fanno pulizia
lo sguardo fisso
nel vuoto
dove un boato ha
lasciato
indelebile la sua
impronta di
polveri urla e
brandelli di cielo
la cena fumò e
bruciò
tra i detriti
delle stanze
sopra il balcone
nuovo
mani e voci
le luci e la baia
la sabbia ha un
buon sapore
oltre la marea
l’odore del
mercato
ascoltando le
sirene
di una fragile
tregua
ancora quando
piove piombo
e dalle colline
aride
appena pomeriggio
carrarmati e
blindati
senza limiti di
tempo
sversano
un fuoco biblico
per purificare la
terra
per avere sicuro e
largo dominio
corpi caldi e
umidi
impolverati
le donne urlano
agli aerei in
cielo
un incalzante
lamento
si sparge
a ritmo infuocato
tra mura e carni
sfarinate
la polvere fluttua
fumo che vomita
rumori di vita
soleggiati e
sparati
è un luglio di
giudizio
inesorabile
irrefrenabile
ne sentiamo
l’odore
il vento asciuga
umori
dentro fiori
invisibili
le conchiglie
stridono
sullo schermo
il grido della
carne
s’infrange
s’affoga
come sopportare
quel cielo
queste notti
arrossate
questa bestiale
propaganda
questa mia
impotenza
e parliamo
cara amica
di occupazione
di genocidio
di infinite
ingiustizie
di vergognose
complicità
di indignazione
di
di
di
e guardiamo
gli aquiloni
estivi
agitarsi nel cielo
sopra teste
resistenti
nel luglio fuoco
di Gaza city
le tue lacrime
macchie di sole
dentro voci di
campane rotte
A Gaza – Alberto Masala
Questo testo può apparire debole
e rinunciatario – ma rappresenta la mia condizione di impotenza attuale
rispetto a come l’occidente sta gestendo l’arroganza e la falsità delle tesi
israeliane: un regime teocratico e sanguinario, violento e determinato allo
sterminio, che non ha nessuna opposizione da parte dei governi “occidentali”.
Davanti a ciò che succede a Gaza sono disperato e impotente: oggi non potevo
scrivere un testo differente da questo, anche se avrei voluto farlo.
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