La Libertà Non Sta Nello Scegliere Tra Bianco E Nero, Ma Nel Sottrarsi A Questa Scelta Prescritta. (Theodor W.Adorno)
mercoledì 30 giugno 2021
Il diritto alla conoscenza. I Whistleblowers. I casi Ellsberg, Assange, Snowden
Stato e algoritmi ci proteggeranno - Alexandra Laignel-Lavastine
Uno Stato-care che
ci proteggerà da tutto
Abbiamo
calcolato adeguatamente i pericoli politici indotti da questo precedente (il
modo con cui lo Stato in Francia ha risposto alla pandemia, ndr),
al cospetto, stavolta, dell’emergere di un eventuale bio-potere? Non si capisce
infatti perché la premessa secondo la quale la vita è il supremo valore, non ci
condurrebbe passo passo a sacrificare durevolmente (e non più
provvisoriamente) certe libertà sull’altare di uno Stato
sanitario che ci curerà da tutto.
Del resto,
la prima legge votata nella primavera del 2020 è stata la legge Avia,
introdotta per combattere in Internet l’incitamento all’odio, misura di salute
pubblica poi lasciata al “discernimento” e alla discrezione dei gestori delle
piattaforme, da cui il suo carattere a giusto titolo controverso. A seguire, e
sullo sfondo delle manifestazioni contro la violenza della polizia, la
“comunità degli sviluppatori”, altra istanza misteriosa, faceva grottescamente
sapere che intendeva “bannare” dalla Rete certe espressioni (come “lista
nera”), troppo… “razzializzate”, dunque razziste per il palato di tale
comunità. Tra Stato care, vampate messianiche (proteggere i
viventi), masse terrorizzate e sviluppatori virtuosi trasformatisi in
purificatori lessicali allo scopo di vegliare al perfetto igiene del
linguaggio, il nostro avvenire tecnologico è in buone mani.
Per renderci
conto dei pericoli, ci si rivolga ancora una volta alla lezione dei dissidenti.
Eretici isolati, appestati, perseguitati, trincerati nelle loro città parallele
o gettati in prigione nell’indifferenza generale, sapevano molto bene con quale
velocità la paura e la supremazia del viscerale possono
impadronirsi di masse (comuniste o democratiche) animate soprattutto dalla
passione per la sicurezza, l’auto-conservazione e il benessere. Nell’Europa
dell’Est, meglio istruita dalle catastrofi del XX° secolo, i dissidenti avevano
compreso che è sempre in questa passione che le “isterie collettive”, passate
al setaccio dall’ungherese Istvan Bibo, maestro nell’analisi dei populismi,
hanno trovato il loro più fertile terreno1. Se la vita è tutto, la paura e con essa la reattività,
l’incapacità di fare un passo indietro e l’impulso irriflesso, trionfano
fatalmente. Da tali derive possono sottrarsi solo gli animi che decidono di
prendersi “cura” di sé, nel senso indicato da Potočka, ovvero quello di una
resistenza al divorante imperialismo della vita e dei suoi diktat. Ma Bibo, nel
programma dell’incultura tecnocratica trionfante e comunicante, non deve
comparire più de La Barbarie di Michel Henry. Pertanto, in
virtù di quali miracolose salvaguardie lo sviluppo di un partito dell’ordine
sanitario, l’espansione di un neo-igienismo e l’istituzione di una sorveglianza
generalizzata sarebbero da escludere?
Dopotutto, la
fragilità della salute umana rappresenta un’urgenza perpetua suscettibile di
fornire allo Stato l’alibi permanente per un infinito stato
d’eccezione. Bisognerà giusto accettare come evidenze il tracciamento
virtuale e le diaboliche telecamere di sorveglianza a riconoscimento facciale
venute dalla Cina e già sperimentate, qui e là, in Francia. A nome della pace
civile o del bene comune, ovviamente. E ammettere, come abbiamo fatto durante
la pandemia, che il bio-potere esercitato sulla vita dei corpi e delle
popolazioni, possa insinuarsi fin nell’intimità. Non sarà poi così difficile.
[…]
Affidare la
nostra salvezza terrestre a degli algoritmi
Non c’è solo
la questione delle “mani in cui cade la tecnologia” o del grado di consenso,
più o meno informato, della popolazione. Affidare le nostre vite e la nostra
salvezza terrestre alle cure dell’Intelligenza artificiale significherà esporsi
a una più grande minaccia antropologica, finora meno sottolineata. Come non
pensare agli effetti corrosivi degli algoritmi, a lungo termine, su libertà e
responsabilità, due pilastri del mondo democratico in quanto facoltà
propriamente umane? Lasciandoci assistere in tutto e per tutto da
intelligenze artificiali, non rischiamo niente di meno che il deperimento
progressivo del senso di responsabilità e il cedimento di ogni aspirazione alla
libertà.
Dando
priorità ai criteri di prevenzione, precauzione e benessere, probabilmente non
ne ricaveremo che i vantaggi propri della “massimizzazione” del bene collettivo.
Il nostro sistema sanitario potrebbe così appoggiarsi ad algoritmi disponibili
su cellulari e applicazioni, come nei paesi asiatici. E dal momento che in
molti ambiti si riveleranno più performanti dei nostri dottori, non ci sarà
motivo per privarsene a lungo. Con questo sistema integrato, si avrà allo
stesso tempo prevenzione (l’applicazione si farà carico di ricordarci che
dobbiamo sottoporci a esami clinici o check-up), la sintesi dell’insieme dei
nostri risultati e analisi, ma anche una capacità diagnostica e di prognosi mai
raggiunta nella storia della medicina. Questo dispositivo, associato alle
biotecnologie, avrebbe vantaggi immensi. E una volta su una così buona strada,
perché non ispirarsi anche al “credito sociale” in vigore in Cina,
dove tre miliardi di umani si vedono attribuire un punteggio positivo o
negativo in funzione del loro comportamento individuale, giudicato più o meno
virtuoso dallo Stato, anche sul piano sanitario. Almeno, sapremo con chi avremo
a che fare. Quando incroceremo un non-virtuoso, la nostra applicazione ci
avviserà: «Stop-cattivo».
Ne va
dell’esercizio della libertà e del senso di responsabilità, come due organi che
a forza di oziare, finirebbero per indebolirsi, rattrappirsi e poi morire. Lo si vede già con il senso di orientamento.
Ogni giorno, miliardi di umani si affidano ormai a delle applicazioni per
orientarsi nello spazio. Ora, l’uso smodato dei dispositivi di navigazione è
sul punto di generare un’umanità differente; tale abitudine ha già iniziato a
modificare i nostri circuiti cerebrali, precisamente quelli dove hanno origine
i sogni e che pilotano il senso d’orientamento. Quanto al potere devastante di
Internet sull’intelligenza dei digital natives, ogni giorno abbiamo
motivo di dispiacercene.
Molti di
questi giovani procedono ormai in un mondo appiattito dove la
cronologia, la geografia e gli indicatori storici scompaiono. La narrazione
non si svolge più, si pilucca e si disperde, portando con sé la coscienza di
essere depositaria di un’eredità da trasmettere. Perché sovraccaricarsi
di conoscenze, quando si rendono immediatamente disponibili grazie a un
dispositivo portatile? Il cervello delega e, a poco a poco, si svuota. La
sensibilità prende allora il sopravvento sul raziocinio, a cui conseguono l’incapacità
di elaborare un pensiero riflessivo e di padroneggiare la parola,
intolleranza, manicheismo, ignoranza dei contesti e delle sfumature. In questa
desolazione, presto non resteranno altro che tre ideali insormontabili: il
culto delle minoranze, la causa animalista e la salvaguardia del pianeta. Una
perdita di punti di riferimento che non rischia di proteggerci dal crollo
politico incombente.
Al di là, e
nell’ottica di quello che Zygmunt Bauman chiama modernità liquida, dove tutto
ciò che ci precede dev’essere idealmente liquidato per
sgomberare la strada a ogni commercio e offrirsi all’immediatezza dei nostri
desideri, non sapremo più cosa farcene delle biblioteche (inutili
e ingombranti), di solidi sistemi cognitivi (invalidanti), della
memoria (avvilente), degli impegni durevoli e dei legami di
lealtà fra umani (incompatibili con l’impero del management). Il
privilegio accordato alla leggerezza, allo zapping, alla
flessibilità, all’usa-e-getta, al volatile e al revocabile, li renderà handicap
o fardelli di cui bisogna sbarazzarci. Se a questa liquidazione si aggiunge
la tirannia del benessere, non è più chiaro in nome di cosa la pratica della
responsabilità e della libertà – al cuore di tutte le grandi utopie politiche
emancipatrici – potrebbe non uscire “influenzata” dall’epidemia.
Mobilitarsi
per lottare contro un virus, quando si presenta, sì. Ma farne il nostro solo e
unico orizzonte e pensare di poter salvaguardare la nostra dignità senza
accettare di correre il benché minimo rischio è aberrante. È forse cosi difficile agire con
calma, sangue freddo, responsabilità e fermo impegno, non trascurando la
salute, ma preservando l’economia, che è vita essa stessa, e senza rinunciare
alle nostre libertà? Come se fosse fuori dalla portata della nostra sensibilità
post-tragica capire che solo la disponibilità a mettere un poco in
gioco la propria vita per preservarne il senso può conferire a una
società democratica la sua colonna vertebrale, la sua “sacralità”, la sua
comunità, e la garanzia ultima che i suoi valori terranno perché verranno
difesi. Senza questa disponibilità, che presuppone che la vita “bruta” non
possa essere eretta affatto a bene supremo, il collettivo si svuota, quantomeno
se si ammette che solo ciò per cui saremmo pronti a sacrificare qualcosa,
riveste un carattere veramente sacro ai nostri occhi di Moderni laici.
Il criterio
sconvolto che ci ha fatto da stella polare nei giorni del coronavirus è agli
antipodi di questo atteggiamento mentale. E come scrive Olivier Rey ne L’Idôlatrie
de la vie (Gallimard), «quando non si può più sacrificare la vita, non
resta che tenersela». Niente di eroico o di glorioso in questo. Ci saremo
comunque raccontati molte menzogne durante questa pandemia, la banalità della
vita non essendo altro che una vita di servitù, esattamente quella
a cui ci espone il fatto di erigere la vita biologica a bene supremo, e di
situarne il sacro nella conservazione piuttosto che nel superamento. Una folle
caduta su scala storica. E allora no, la scelta di vita sotto il Covid non
costituisce necessariamente la notizia migliore di questo inizio secolo.
1 Istvan
Bibo, Misère des petits États de l’Est, Paris, Albin Michel, 2000.
martedì 29 giugno 2021
Un reddito di base e un’eredità per tutti - Thomas Piketty
La crisi del covid-19 ci obbliga a ripensare gli strumenti della ridistribuzione e della solidarietà. Un po’ ovunque fioriscono proposte: reddito di base, lavoro garantito, un’eredità per tutti. Diciamolo subito: queste proposte sono complementari e non alternative. A lungo termine dovranno essere applicate tutte, per gradi e in quest’ordine. Cominciamo dal reddito di base. Oggi questa misura è insufficiente, soprattutto nel sud del mondo, dove in assenza di un salario minimo le persone non possono rispettare il lockdown. In India durante le elezioni del 2019 i partiti d’opposizione avevano proposto d’introdurre un reddito di base, ma i nazionalisti-conservatori al potere a Delhi continuano a rimandare.
In Europa esistono molte forme di reddito minimo, ma con inadeguatezze di
vario tipo. In particolare è urgente renderlo accessibile anche ai cittadini
più giovani e agli studenti (come succede già da tempo in Danimarca) e
soprattutto alle persone senza domicilio o senza conto in banca, che spesso
devono affrontare un percorso a ostacoli insormontabile.
Inoltre non dobbiamo sottovalutare l’importanza delle discussioni sulle
valute digitali delle banche centrali, che idealmente dovrebbero portare alla
creazione di un servizio bancario pubblico e gratuito, agli antipodi dei
sistemi sognati dai privati (Bitcoin, Facebook, le banche). Tra l’altro è
fondamentale estendere il reddito di base a tutti i lavoratori a basso salario,
con un sistema di versamenti automatici in busta paga e sui conti bancari,
senza che le persone coinvolte debbano farne richiesta, e collegati al sistema
di tassazione progressiva.
Il reddito di base è uno strumento essenziale ma insufficiente. Il suo
importo, in particolare, è sempre limitato: generalmente è compreso tra la metà
e i tre quarti del salario minimo dei lavoratori a tempo pieno. Questo
significa che, fin dalla sua concezione, può essere solo uno strumento parziale
di lotta alle disuguaglianze. Per questo è preferibile parlare di reddito di
base e non di reddito universale (un concetto che promette più di quanto possa
garantire).
Quando si studiano le disuguaglianze, l’elemento più sorprendente è il
persistere della concentrazione della proprietà
Uno strumento più ambizioso, che potrebbe essere istituito a complemento
del reddito di base, è il sistema di garanzia dell’impiego proposto nel quadro
delle discussioni sul new deal verde.
L’idea è di proporre a tutte le persone un impiego a tempo pieno, con un
salario minimo decente (15 dollari all’ora negli Stati Uniti). Il finanziamento
sarebbe garantito dallo stato e i posti di lavoro nel settore pubblico e nelle
associazioni (comuni, amministrazioni locali, enti senza scopo di lucro)
sarebbero proposti dalle agenzie pubbliche per l’impiego. Un simile sistema
potrebbe contribuire al processo di demercificazione e di ridefinizione
collettiva dei bisogni, in particolare in materia di servizi alla persona e di
transizione energetica. Permetterebbe anche di rimettere al lavoro i
disoccupati durante le recessioni a costi limitati.
L’ultima misura che potrebbe completare questo insieme, accanto al reddito
di base, alla garanzia dell’impiego e ai diritti derivanti da uno stato sociale
esteso (istruzione e sanità gratuite, pensioni e sussidi di disoccupazione,
diritti sindacali), è garantire un’eredità a ogni cittadino.
Quando si studiano le disuguaglianze, l’elemento più sorprendente è il
persistere della concentrazione della proprietà. Il 50 per cento più povero
della popolazione mondiale non ha praticamente mai avuto niente: oggi in
Francia possiede il 5 per cento del patrimonio totale, mentre il 55 per cento è
nelle mani del 10 per cento più ricco dei francesi. L’idea secondo la quale
basta aspettare che la ricchezza si diffonda non ha senso: se fosse vero,
sarebbe successo già da tempo.
La soluzione più semplice è una ridistribuzone delle eredità che permetta
alla popolazione nel suo insieme di ricevere una somma minima. Per dare
un’idea, questa eredità potrebbe essere di 12omila euro (ovvero il 60 per cento
del patrimonio medio di ogni adulto). Versata a tutti i cittadini di 25 anni,
sarebbe finanziata da un misto di tassazione progressiva sui patrimoni e sulle
successioni. Chi oggi non eredita niente avrebbe 120mila euro, mentre chi
eredita un milione di euro ne avrebbe 600mila. Siamo ancora lontani da una
situazione di pari opportunità, un principio spesso difeso a livello teorico,
ma che le classi privilegiate vedono come la peste.
L’obiettivo dell’eredità universale è aumentare il potere di contrattazione
di chi non ha niente, permettendogli di rifiutare alcuni lavori, di avere una
casa e di fare progetti. Questa libertà spaventa i ricchi e i datori di lavoro
perché renderebbe i loro dipendenti meno arrendevoli, ma fa felici tutti gli
altri. Ci stiamo riaffacciando sul mondo dopo essere stati a lungo in
isolamento. Un motivo in più per rimetterci a pensare e a sperare.
(Traduzione di Federico Ferrone)
Questo articolo è uscito sul numero 1411 di
Internazionale.
Il terrore nel cuore della notte - Jonathan Cook
I video sono ovunque su Youtube. Soldati israeliani mascherati assaltano la casa di una famiglia palestinese nel cuore della notte. I genitori, vestiti con indumenti da notte, sono improvvisamente circondati da uomini pesantemente armati con il passamontagna.
I bambini piccoli sono costretti a svegliarsi. Con un misto di confusione e
paura, sono costretti a rispondere alle domande poste loro in un arabo stentato
da questi sconosciuti senza volto e armati. Vengono allineati in una stanza
mentre i soldati li fotografano con in mano la carta d’identità. E poi, proprio
come sono arrivati, gli uomini mascherati scompaiono nella notte.
Non ci sono domande oltre all’identificazione delle persone in casa.
Nessuno viene “arrestato”. Non c’è uno scopo ovvio; solo il senso di sicurezza
di una famiglia distrutto per sempre.
Per la maggior parte delle persone che guardano questi video sconvolgenti,
tali scene sembrano un incubo orwelliano. E di sicuro Israele ha dato a
questa procedura un nome orwelliano: “Intel Mapping” (“Mappatura delle
Informazioni”).
La scorsa settimana, su pressione dei tribunali, l’esercito israeliano ha
annunciato di aver posto fine alla pratica della “mappatura”, a meno che, e
questa sarà una scappatoia facilmente sfruttabile, non vi siano “circostanze
eccezionali”.
Dato che le famiglie le cui case, intimità e dignità vengono violate non
sono sospettate di alcun reato, è difficile immaginare quali “circostanze
eccezionali” potrebbero mai giustificare queste incursioni umilianti e
terrificanti.
Intrusi mascherati
Nell’annunciare la sua decisione, l’esercito israeliano ha affermato che
nell’era digitale c’erano altri strumenti che poteva usare per ottenere
informazioni sui palestinesi, oltre a invadere casualmente le loro case con le
armi spianate nel cuore della notte. Un comunicato ha aggiunto che si
tratta di un gesto umanitario volto a “mitigare lo sconvolgimento della vita
quotidiana dei cittadini”.
Tranne, naturalmente, che i palestinesi non sono “cittadini” israeliani;
sono soggetti senza diritti che vivono sotto una belligerante occupazione
militare. E non si tratta di “disagi”, i palestinesi non stanno affrontando un
ritardo imprevisto del treno, ma una forma di punizione collettiva, e quindi un
crimine di guerra.
Come osserva un rapporto di tre organizzazioni israeliane per i
diritti umani pubblicato lo scorso novembre, “è altamente dubbio che qualsiasi
caso di mappatura possa essere considerata legale ai sensi del diritto
internazionale”. Tuttavia, queste invasioni domestiche sono all’ordine
del giorno. Sono parte integrante della politica dell’esercito israeliano di
sorveglianza, controllo e persecuzione dei palestinesi.
Secondo i dati raccolti dalle Nazioni Unite, l’esercito israeliano ha
effettuato circa 6.400 “operazioni di ricerca o di arresto” solo nel 2017 e nel
2018, ciascuna operazione potenzialmente comprendente più di una casa. Una
ricerca di Yesh Din, un gruppo israeliano per i diritti umani, mostra che la
stragrande maggioranza di tali operazioni inizia tra mezzanotte e le cinque del
mattino.
In un quarto dei casi i soldati sfondano la porta per entrare e in un terzo
dei casi un familiare viene aggredito fisicamente. Due terzi delle famiglie
hanno subito queste invasioni più di una volta.
Le operazioni di “Intel Mapping” sono state particolarmente difficili da
giustificare per l’esercito su qualsiasi tipo di motivo di sicurezza. Ciò ha
portato all’inizio di quest’anno a un esame non gradito da parte della Corte
Suprema israeliana, che ha dato tempo all’esercito fino ad agosto per divulgare
la formulazione del suo protocollo di “mappatura”. La cancellazione
della pratica da parte dell’esercito la scorsa settimana significa che la
logica per traumatizzare migliaia di famiglie palestinesi per molti anni
continuerà a essere un segreto.
Crimini di guerra abituali
La realtà è che la “mappatura” non ha mai riguardato la costruzione di
un’immagine più accurata della società palestinese. Ha molti altri scopi, molto
più sinistri.
In termini pratici, viene utilizzato per addestrare giovani soldati
israeliani, familiarizzandoli con le tecniche di invasione delle case
palestinesi e di intimidazione dei palestinesi, il tutto in un ambiente sicuro
per i soldati. L’esercito sa che i genitori palestinesi si occuperanno
principalmente di proteggere i propri figli dalla terrificante presenza di
intrusi armati in quello che dovrebbe essere lo spazio più sicuro della
famiglia.
In una testimonianza di Breaking the Silence, un’organizzazione
di ex soldati israeliani che rivelano il loro passato nell’esercito, un soldato
ha osservato: “Raramente c’è una motivazione operativa per questo. Spesso,
la motivazione è pratica, il che significa che per la prima volta abbiamo uno
strumento di violazione per forzare porte aperte; nessuno ha un programma,
quindi decidiamo di irrompere in una casa in qualsiasi momento.”
Ma ci sono altri scopi, anche più oscuri, dietro queste incursioni casuali
di “mappatura”. Fanno parte del processo graduale attraverso il quale
l’esercito forma i suoi giovani soldati ad una vita di costanti crimini di
guerra. Abbatte il loro senso della moralità e ogni residuo di compassione dopo
anni di esposizione nel sistema scolastico israeliano al razzismo
anti-palestinese.
Terrorizzare i palestinesi, anche i bambini, diventa rapidamente parte
della monotona routine dei “doveri” militari.
Guerra psicologica
Ma soprattutto, le irruzioni nelle abitazioni traumatizzano i palestinesi
con modalità studiate per consolidare l’occupazione e renderla permanente. Sono
una forma di guerra psicologica, una campagna di terrore, contro le famiglie e
le comunità in cui vivono. Rafforzano il messaggio che l’esercito
israeliano è ovunque, controllando i più piccoli dettagli della vita dei
palestinesi.
I soldati prendono a cuore queste indicazioni. Uno ha detto di aver capito
che lo scopo di nascondere il volto “era quello di essere più intimidatorio,
più spaventoso, e quindi forse trovare meno resistenza”.
L’attività di “mappatura” è progettata per far credere ai palestinesi che
qualsiasi tipo di opposizione all’occupazione è inutile o controproducente. Le
invasioni domestiche lasciano cicatrici permanenti, poiché le donne spesso
descrivono di sentirsi violate e di perdere un senso di orgoglio nella loro
casa, mentre gli uomini soffrono del trauma associato all’incapacità di
proteggere mogli e figli. I bambini soffrono di ansia e disturbi del sonno e
fanno fatica a scuola.
C’è un ulteriore obiettivo in queste operazioni di “mappatura” quando gli
insediamenti ebraici sono stati costruiti vicino alle famiglie palestinesi
prese di mira. Le invasioni domestiche avvengono regolarmente per queste
famiglie, servendo come forma di pressione per incoraggiarle ad abbandonare le
loro case in modo che i coloni possano occuparle.
Un sondaggio delle Nazioni Unite del 2019 su un’area di Hebron ambita dai
coloni ha rilevato che in un periodo di tre anni, il 75% delle case palestinesi
nel quartiere era stato “mappato”. Un residente la cui casa è stata
perquisita più di 20 volte ha detto ai ricercatori di Yesh Din: “Penso che le
irruzioni dei soldati siano solo un deterrente, per cacciarci di casa”.
Spiare i palestinesi
Persino alcuni ex soldati capiscono che le motivazioni della raccolta di
informazioni per queste invasioni sono fasulle. Molti hanno detto ai gruppi per
i diritti umani che le informazioni presumibilmente ottenute da queste
operazioni non sono mai state utilizzate in seguito. Nessuno è stato in grado
di indicare una banca dati in cui venivano archiviate le informazioni.
Anche se le operazioni di mappatura riguardavano principalmente la raccolta
di informazioni, l’esercito ha mezzi molto più efficaci per spiare e
controllare la popolazione palestinese nei territori occupati della
Cisgiordania e di Gerusalemme Est.
Il lavoro dell’Unità 8200, una delle tante squadre dell’esercito per
raccolta di informazioni, include l’ascolto delle comunicazioni palestinesi per
trovare segreti che possono essere usati per ricattare ed estorcere ai
palestinesi la collaborazione con le autorità di occupazione.
Una cosiddetta unità informatica nel Ministero della Giustizia israeliano
ha il compito di spiare Internet e le comunicazioni sui social media dei
palestinesi. E Israele ha infinite altre fonti di informazione sui
palestinesi: collaboratori, il registro della popolazione palestinese che
controlla, documenti di identità biometrici, tecnologia di riconoscimento
facciale, interrogatori ai posti di blocco, uso di droni e sequestro di
palestinesi per interrogatori.
Complicità dei tribunali
Ancora più importante, l’esercito sa che può continuare come prima
con queste invasioni domestiche usando altri pretesti. Comprenderà le
operazioni di “mappatura” all’interno di tipologie ancora più violente di
incursioni notturne, come la ricerca di armi, gli interrogatori di bambini sul
lancio di pietre o gli arresti.
Purtroppo, i tribunali israeliani hanno sempre mostrato la volontà di
colludere con l’esercito proprio in questo tipo di inganni salva-faccia e
ciniche manipolazioni del linguaggio. Non c’è motivo di credere che il
sistema giuridico israeliano farà qualcosa di concreto per garantire che le
invasioni domestiche, sia per “mappatura” che per qualsiasi altro scopo,
abbiano fine.
I resoconti dei tribunali israeliani sono stati costantemente pessimi nel
proteggere i palestinesi dagli abusi dell’esercito israeliano. Anche
quando i tribunali si pronunciano tardivamente contro i protocolli militari che
violano palesemente il diritto internazionale, l’esercito trova invariabilmente
il modo di indebolire la sentenza, di solito con la complicità del tribunale. Per
anni, l’esercito ha continuato a usare i palestinesi come scudi umani,
trascinando avanti procedimenti legali riqualificando la pratica come una
cosiddetta “procedura di vicinato” o “preavviso”.
Non è difficile immaginare che “l’intel mapping” possa ricevere un simile
rifacimento linguistico usando un nuovo gergo. E c’è un motivo in più per essere
scettici: Più di 20 anni fa, l’Alta Corte israeliana ha vietato la
tortura dei detenuti palestinesi, eppure, è continuata quasi senza sosta perché
la Corte ha creato una scappatoia per i casi definiti come “bombe ad
orologeria”, quando cioè gli interrogatori presumibilmente devono affrontare
una corsa contro il tempo, a causa di un pericolo imminente, per estorcere
informazioni “necessarie” per salvare vite umane.
La realtà è che quando Israele tratta la sua occupazione come permanente,
allora preservare l’infrastruttura dell’occupazione, per sorveglianza,
controllo, intimidazione e umiliazione, diventa una necessità assoluta. Quando
l’occupante cerca inoltre di cacciare i palestinesi per sostituirli con la
propria popolazione di coloni, il marciume è ancora più profondo. Uomini, donne
e bambini palestinesi sono ridotti a nient’altro che pedine da spazzare via da
una scacchiera.
Per questo motivo, le invasioni domestiche, il terrore delle famiglie nel
cuore della notte da parte di soldati mascherati, continueranno, qualunque sia
l’eufemismo usato per giustificarli.
*****
Jonathan Cook è un giornalista britannico che vive a Nazareth dal 2001, in
passato ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il giornalismo.
La versione originale di Middle East Eye
Traduzione in italiano di Beniamino Rocchetto per Invictapalestina.org
Pandemia e femminismo - Sara Gandini
Molte decisioni durante la pandemia sono state prese sulla base del concetto di stupidità collettiva. Sull’idea del popolo bue, della gente analfabeta funzionale, degli italiani incoscienti… si sono prese decisioni insensate: sono state imposte dall’alto decisioni che se lasciate ai singoli, dando fiducia al prossimo, in realtà avrebbero avuto la stessa efficacia e avrebbero aiutato a responsabilizzare.
Se ci fosse stata più fiducia nei cittadini tutta
una serie di misure dal sapore paternalistico ce le saremmo risparmiate. Ma sia per i politici che per il nostro ego
la retorica che porta a sentirsi illuminati e superiori agli altri funziona. E
così si dà addosso ai medici, che sarebbero incompetenti e non sanno
curare, agli insegnanti che
non hanno voglia di lavorare, ai
giovani incoscienti ed egoisti, ai genitori che ubbidiscono e non si ribellano, alle mamme che hanno paura di
tutto, agli scienziati sempre in tv che dicono tutto e il contrario di
tutto, ai giornalisti che
pur di vendere la notizia utilizzano un linguaggio scandalistico lontano dalla
realtà… Finisco con questa ultima affermazione perché riguarda anche me. Io per
prima l’ho scritto perché ammetto di considerare i giornalisti i massimi
responsabili del clima terribile generato in Italia con la pandemia. Ma in
realtà anche loro ubbidiscono alle leggi del mercato, al simbolico del denaro e
del potere.
Lasciatemi quindi dire che non solo queste generalizzazioni non funzionano ma non aiutano nemmeno a pensare.
Rendono la situazione immodificabile in modo che il senso di impotenza cresce, funzionale
a chi prende le decisioni e a chi sta davvero al potere. Infatti non tutti i
giornalisti stanno a questo gioco come non tutti gli scienziati sono rapiti dal
loro narcisismo e non si prendono la responsabilità di quello che affermano. Io
penso che bisogna fare molta
attenzione a chi si prende di mira e bisogna farlo radicando la riflessione
partendo da sé… Bisogna lavorare negli interstizi, facendo leva sulle relazioni con persone che puntano
sull’indipendenza simbolica, che non
rinunciano a dire la loro verità con il rischio di ritrovarsi sole, ma che al
tempo stesso non rinunciano a scambiare con chi la pensa diversamente,
con chi ha un linguaggio e competenze differenti, in un conflitto che non
diventa contrapposizione e schieramento, banalizzazione con identificazione del
nemico di turno, ma che implica accettare di fare spazio per la verità
dell’altro, quando si vede onestà intellettuale.
Questo cerco nella mia vita, da una vita. L’ho
imparato dal femminismo e cerco di metterlo in
pratica nei progetti nati con la pandemia. Questa per me è l’unica
strada interessante proprio perché molto ambiziosa, l’unica a mio parere
efficace, lontana dalle dinamiche
di potere e dalle ideologie, ma radicata alle idealità e non
disposta a svenderle. Lontana da verità assolute e opportunismo ma ancorata ai dubbi. Questo è quello
cerco di mettere in pratica con il collettivo che sta nascendo attorno
alla pagina della “Goccia”.
lunedì 28 giugno 2021
Nizar Banat non parlerà più
Dissidente ucciso durante un raid della polizia dell’Anp nella sua casa
Nizar Banat, noto critico del presidente Abu Mazen e candidato alle presidenziali sospese dall’Autorità nazionale palestinese, è morto stamattina dopo un violento arresto. La famiglia denuncia: è stato brutalmente picchiato. Attivisti e partiti politici chiedono un’indagine indipendente
"Nizar Banat è stato assassinato”. Questa è l’accusa che da questa mattina gira sui social e tra tanti palestinesi della diaspora e dei Territori Occupati: l’attivista palestinese, duro critico dell’Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen, ha perso la vita stamattina nella sua casa di Dura, vicino Hebron, durante un raid delle forze di sicurezza dell’Anp.
La sua salute “è derivata durante l’arresto”, il commento laconico del governatore di Hebron Jibreen al-Bakri, una dichiarazione che non dice nulla e che la famiglia di Banat rigetta: è stato picchiato, dicono, dai poliziotti venuti per arrestarlo. Una detenzione che non è isolata: non solo Banat era stato arrestato più di una volta nella sua vita, ma sono diversi i casi di critici e oppositori della linea di Abu Mazen, ma anche semplici utenti dei social, finiti in manette in Cisgiordania nell’ultimo periodo.
Secondo quanto riportato da Middle East Eye, Muhannad Karajah di Lawyers for Justice aveva ricevuto una telefonata di Banat ieri, durante la quale l’attivista aveva raccontato di essere stato oggetto di minacce da parte dei servizi di intelligence palestinesi. Un mese fa inoltre uomini armati avevano sparato 60 volte contro la sua casa di Dura, mentre la famiglia era all’interno.
A condurre l’arresto, stanotte alle 3.30, sarebbero stati ben 25 membri della Preventive Security and General Intelligence, che hanno buttato giù la porta con un ordigno, svegliato Banat con spray urticante in faccia – racconta il cugino – e picchiato con dei bastoni di legno. E’ stato poi spogliato e portato via su un veicolo militare.
Subito la famiglia ha preso contatti con le varie sedi dei servizi segreti a Hebron per sapere dove fosse stato portato, senza successo. Solo un’ora e mezzo dopo hanno saputo della sua morte su WhatsApp, senza ricevere comunicazioni ufficiali. Banat è stato dichiarato morto all’ospedale governativo di Alia, ma il suo corpo lì non è stato trovato, facendo sospettare che sia morto in una caserma dei servizi.
“Quello che è successo è un omicidio”, ha commentato Karajah, mentre crescono le richieste di un’inchiesta indipendente – dal Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina ad Hamas fino alle organizzazioni per i diritti umani – che individui i responsabili della sua morte. E crescono le critiche dure verso l’Autorità, considerata un governo sempre più repressivo delle voci critiche e incapace di confrontarsi con gli oppositori.
La cancellazione delle elezioni presidenziali e legislative previste per maggio e luglio 2021 è ritenuta da molti la prova della deriva. Lo stesso Banat era candidato alle parlamentari con la lista Freedom and Dignity e, dopo il rinvio del voto a data da destinarsi, era stato tra i firmatari di un appello diretto alla Corte europea dei diritti umani in cui si chiedeva la fine dei finanziamenti all’Anp.
L’omicidio di Banat giunge in un periodo di grave crisi per Fatah, il partito di Abu Mazen, e per l’Anp. Il presidente non ha saputo gestire l’escalation di questi mesi, a partire dal movimento popolare di protesta nato intorno ai minacciati sgomberi di famiglie palestinesi dal quartiere di Sheikh Jarrah a Gerusalemme est; è quasi scomparso durante l’offensiva militare israeliana contro la Striscia di Gaza; e insiste a mantenere una carica senza più alcuna legittimità, vista l’assenza di elezioni dal 2006. Una debolezza che danneggia il movimento palestinese di base e di cui stanno approfittando soprattutto le forze islamiste, a partire da Hamas, che sta incrementando i consensi in ogni angolo della Palestina storica.
Rabbia dopo l’uccisione in custodia di Nizar Banat: «Basta ANP» - Chiara Cruciati
L’attivista palestinese, noto critico dell’Autorità Nazionale Palestinese, è stato arrestato e picchiato a morte dalla polizia di Ramallah, denuncia la famiglia. In migliaia in piazza a Ramallah marciano sul palazzo presidenziale: «Il popolo vuole la caduta del regime»
Silenzio sul Kurdistan irakeno - Linda Bergamo
In questo momento, a Erbil, nel Kurdistan iracheno, ci dovrebbe essere una delegazione internazionale per la pace e la libertà costituita da 150 persone, uomini e donne provenienti da 14/15 diversi paesi europei. L’idea della delegazione era soprattutto di mettere sotto gli occhi dei governi europei una nuova testimonianza diretta sull’orrore della campagna militare che la Turchia di Erdogan sta portando avanti nel Kurdistan iracheno.
Lo scopo dichiarato di questa guerra, mai raccontata abbastanza nei paesi alleati del regime di Erdogan (la Ue lo finanzia perché continui ad impedire l’esodo di chi fugge verso l’Europa e per la comune partecipazione alla Nato), è sempre lo stesso: annientare il PKK, il partito dei lavoratori curdo, che peraltro resta nella lista nera del Consiglio Europeo ed è ancora ritenuto un’«organizzazione a scopo terroristico». Tra bombardamenti e pressioni militari, nella “Regione del Kurdistan”, il nome ufficiale dell’entità federale autonoma dell’Irak, la Turchia si avvale della stretta collaborazione del partito maggioritario di Mas’ud Barzani, il Kurdistan Democratic Party (KDP). Il KDP, che governa a Erbil, si è unito in una coalizione con il Patriotic Union of Kurdistan (PUK), in maggioranza a Suleimani, controllato dal clan della famiglia Talabani che, con il clan dei Barzani, si è sempre conteso e/o spartito il controllo del territorio. Insieme ad altri partiti più piccoli, collaborano con il governo e formano oggi una forza unita di sostegno all’invasione turca, contro gli stessi curdi.
La delegazione della solidarietà internazionale doveva contare 150 persone tra universitari, persone impegnate in politica, attivist* etc. Ma la gran parte dei partecipanti non ha potuto raggiungere il Kurdistan iracheno. Ad almeno 27 persone è stato impedito di partire da Düsseldorf, in Germania. Anche a due catalani è stato impedito il decollo. Cinque italiani sono stati fermati negli aeroporti di Istambul e Doha e rispediti con la forza in Italia. Federico Venturini è stato costretto a tornare in Italia da Erbil (qui si può leggere la sua intervista concessa al rientro in Italia). Altri sono stati espulsi una volta arrivati in Irak, su ordine del Governo regionale del Kurdistan. Quale sia il fondamento giuridico delle espulsioni non è chiaro. Tra le motivazioni, il fatto che «sembrano essere politicamente orientati», oppure che in passato, come attivist*, avevano sostenuto delegazioni che si erano unite alla lotta armata al fianco del popolo curdo.
«Nell’ultimo anno, le autorità della regione del Kurdistan iracheno hanno condotto un’incessante repressione nei confronti di giornalisti, attivisti e manifestanti che esercitano il loro diritto alla libertà di espressione, in particolare tramite arresti arbitrari e sparizioni forzate» [1] scrive Amnesty International. Le repressioni alla libertà d’espressione fanno seguito alle proteste di massa per chiedere migliori servizi pubblici e impegno del governo nella lotta alla corruzione. Quello del clan corrotto dei Barzani è un governo che non accetta critiche.
Il risultato di questo sabotaggio è dunque che a Erbil invece di 150 ora ci sono solo 30 internazionalist*. Il 16 giugno il KDP ha fatto naturalmente di tutto per impedire lo svolgersi della conferenza di pace, l’evento principale organizzato dalla delegazione internazionale. La conferenza era stata prevista davanti alla sede delle Nazioni Unite di Erbil. È stata tenuta comunque in un hotel circondato da militari, di lì non si poteva uscire. Due tentativi di protesta pacifica sono stati repressi: un sit-in davanti all’hotel con canti e slogan contro l’invasione turca e poi, una volta costretti i manifestanti a rientrare, un momento conviviale con danze nella hall dell’hotel.
Il governo regionale del Kurdistan iracheno si è dichiarato contrario alla presenza della delegazione e non ha tardato a dimostrarlo. Ha impedito agli internazionalist* di entrare in contatto con molte ONG e altri attori locali, intimidendoli e spingendoli ad annullare gli appuntamenti già fissati. L’esercito ha inoltre impedito il raggiungimento dei villaggi del nord, evacuati in seguito ai bombardamenti turchi. Le dichiarazioni del governo accusano il PKK di servirsi della presenza degli stranieri europei per destabilizzare la regione. Nessuna solidarietà al popolo curdo è permessa, neanche da parte dei curdi stessi. L’esercito turco interviene nel nord, il KPD di Barzani dal sud. C’è una, piccola, resistenza in atto: 180 peshmerga (combattenti curdo-iracheni) hanno rifiutato di combattere contro il PKK, deponendo le armi e denunciando la politica del KDP che vuole dividere il popolo curdo. C’è però un malcontento crescente tra la popolazione del Basur (cioè del Sud della regione del Kurdistan, che è nel Nord dell’Irak), sull’incapacità dei partiti curdi di far fronte comune contro l’invasione turca.
Impedire l’arrivo della delegazione permette di evitare testimonianze “occidentali” sui crimini di guerra turchi: bombardamenti al fosforo bianco, raccolti e foreste distrutti, attivazione di cellule jihadiste sotto il controllo di Erdogan per esercitare una pressione costante sulle popolazioni curde, le forze di autodifesa del PKK, le YPG e le YPJ. La narrazione “ufficiale” classifica queste tre organizzazioni come “terroristiche”, ma è necessario ricordare che sono le uniche forze che si battono contro il modello imperialista ed estremista islamico turco, contro Daesh (o Isis) e il suo possibile ritorno nella regione. Viene completamente rimossa la resistenza curda a Kobane, a Raqqa, a Ifran e la vittoria contro Daesh a suo tempo, quando serviva gente disposta a farsi ammazzare per fermare l’avanzata dell’Isis, tanto elogiata in tutto il mondo occidentale. La narrazione “ufficiale” viene invece mantenuta anche al Consiglio Europeo, senza dubbio per non infastidire la Turchia.
L’invasione e la violenza dell’esercito turco infrangono le legislazioni internazionali. Le violazioni dei diritti umani sono flagranti. Evidente è la volontà di Erdogan di annientare l’esperienza rivoluzionaria del nord del Kurdistan iracheno, tanto quanto quella del Rojava. Erdogan viene ricevuto al vertice NATO. Come se niente fosse. L’ipocrisia e la posizione conciliante dei governi europei diventa sempre più inaccettabile.
Il 13 giugno la security aeroportuale del Governo Regionale curdo ha arrestato tre rappresentanti dell’amministrazione autonoma del Nord-Est della Siria. Erano venuti all’aeroporto di Erbil per accogliere un gruppo di 12 persone della Delegazione Internazionale, poi deportato direttamente. I tre rappresentanti sono spariti. Da allora di loro non si hanno più notizie. La preoccupazione per le loro sorti è enorme.
Il servizio di sicurezza interna e intelligence del governo regionale kurdo, chiamato Asayish, è conosciuto a livello internazionale per le pratiche inumane, le violazioni dei diritti umani, il mancato rispetto della legge e la pratica della tortura. L’Asaysh, così come altre forze di sicurezza e intelligence, è responsabile di arresti per ragioni politiche che possono durare anni.
A Sulemania, intanto, le manifestazioni continuano.
Il 17 giugno Deniz Poyaraz, militante del partito democratico filo-kurdo HDP, è stata uccisa a Izmir per mano di un esponente di un gruppo paramilitare al servizio della coalizione del governo turco AKP-MHP. Manifestazioni per ricordarla e denunciare la sua morte si sono svolte in tante città curde e europee.
Il 19 giugno un drone turco ha ucciso altre due persone e ne ha ferita una terza, attaccando il villaggio di Galala, non lontano da Sulemania.
Il 21 giugno le forze di sicurezza del governo hanno impedito alla delegazione internazionale, e a decine di altre persone, di raggiungere Qandil, una zona controllata dal PKK. In seguito a una protesta spontanea, pacifica, dei civili presenti, il servizio di sicurezza ha sparato sulla folla. Un manifestante è stato ferito.
Il 23 giugno, infine, 6 rappresentanti tedeschi della delegazione sono stati arrestati all’aeroporto Düsseldorf, di ritorno da Erbil.
Questo, così come altri arresti di membri della delegazione per la pace di ritorno in Europa, non può lasciarci indifferenti. Arrestando i suoi cittadini per aver partecipato a una manifestazione di pace, la Germania e gli altri paesi dell’Unione Europea dimostrano ancora una volta, al di là della retorica delle dichiarazioni, di voler sostenere nei fatti la Turchia proprio nelle sue mai celate ambizioni di guerra senza fine al popolo curdo.
Definire coloro che partecipano ad azioni pacifiche di solidarietà internazionale “terroristi”, pericolosi perché “politicamente orientati”, vuol dire che l’Europa mette in discussione la libertà di espressione e di pensiero che invece a parole solennemente rivendica, tra risoluzioni dell’ONU e promozione della democrazia, della good governance in tutti gli altri Stati economicamente meno influenti. La Turchia, che partecipa al vertice NATO e ha il secondo esercito dei paesi che vi aderiscono, è un alleato “irrinunciabile”. Che commetta ogni giorno crimini di guerra contro i curdi, finanzi cellule di Daesh, promuova un discorso infarcito di fanatismo islamico, utilizzi armi chimiche, imprigioni in modo sistematico gli oppositori politici, impedisca ai curdi di Turchia di parlare la loro lingua e utilizzi la tortura importa poco o niente. Mica si può essere perfetti.
La nota di Amnesty International
[1] https://www.amnesty.org/fr/latest/news/2021/06/kurdistan-region-of-iraq-arbitrary-arrests-and-enforced-disappearance-of-activists-and-journalists/
Questo articolo è uscito anche su Progetto Melting Pot
Assange, sempre in pericolo
Quando
il silenzio diventa un omicidio - Vincenzo Vita
Caso
Assange. Siamo di fronte, dunque, ad un caso amaro in sé, viste le precarie
condizioni di salute di Assange, e per sé. Sembra, infatti, la prova tecnica di
un nuovo regime nell’informazione Lo scorso venerdì si è tenuto, presso il
senato della Repubblica, un convegno sul diritto alla conoscenza. Promosso
dalla biblioteca del senato medesimo diretta da Gianni Marilotti insieme
all’associazione intitolata allo scomparso giornalista di inchiesta Mimmo
Càndito (fu presidente dei Reporter senza frontiere dal 1999), il dibattito si
è giustamente incentrato sulla tragica vicenda di Julian Assange. Il giornalista
di origine australiana è il fondatore dell’agenzia WikiLeaks, oggi detenuto nel
carcere speciale inglese di Belmarsh con il rischio solo rinviato
dell’estradizione negli Stati uniti. L’iniziativa ha rotto un po’ il velo di
silenzio attorno ad una vicenda dai contorni pericolosi ed emblematici. Grazie
all’impegno di Marinella Venegoni, la compagna di Càndito, di Gian Giacomo
Migone con l’Indice libri del mese, della federazione della stampa con Giuseppe
Giulietti, della fondazione Basso e dell’omologa intitolata a Paolo Murialdi,
nonché di Critica liberale il sipario si è strappato. Tuttavia, come hanno
sottolineato gli interventi di chi (Raffaele Fiengo, Enzo Marzo, Nello Rossi)
ha condotto per anni lotte incisive per la libertà di informazione e la
trasparenza degli apparati, c’è moltissimo da fare. Fondamentale la documentata
comunicazione di Stefania Maurizi de il Fatto Quotidiano, cui si deve in Italia
il mantenimento la luce accesa su di una vicenda abnorme. Come sono risultati
inquietanti gli interventi del padre del whistleblower John Shipton (con una
sobria drammaticità, antitetica rispetto all’imbarazzante televisione del
dolore di tanti talk) e dell’avvocato australiano dell’imputato Greg Barnes.
Già, l’imputazione. Si tratta di un reato previsto dall’Espionage Act
statunitense del 1917, in base al quale la pena prevista in caso di
accoglimento dell’estradizione, visto che gli Stati uniti non demordono arriva
a 175 anni di carcere. Siamo di fronte, dunque, ad un caso amaro in sé, viste
le precarie condizioni di salute di Assange, e per sé. Sembra, infatti, la
prova tecnica di un nuovo regime nell’informazione. Qual è la questione, in
sintesi? Mentre coloro che hanno promosso guerre sanguinose e terribili in Iraq
o in Afghanistan o hanno controllato migliaia di cablogrammi e di telefonate
con la National Security Agency (NSA) girano per il mondo con conferenze ben
retribuite, l’eroe civile capace di illuminare la verità rischia di morire in
prigione. Eppure, ora le cancellerie quasi si vergognano delle guerre di
conquista volte ad esportare per così dire la democrazia. Visto che dall’Iraq
distrutto è nato il terrore dell’Isis o di Al Qaida e che dal clamoroso
insuccesso afghano ne hanno tratto vantaggio i talebani. Per non citare lo
scandalo di Guantanamo, che è tuttora un buco nero del e nel mondo globale. Di
tutto ciò non si sarebbe saputo pressoché nulla senza il coraggio di WikiLeaks
supportato dalle fonti Edward Snowden ex tecnico della Central Intelligence
Agency (CIA) in crisi di coscienza, e Chelsea Manning, il militare che ruppe il
muro dell’omertà e ha tentato per tre volte di suicidarsi. Shakespeare ne
avrebbe tratto uno dei suoi capolavori, essendovi in tali storie il racconto
senza false retoriche del lato oscuro potere. Quest’ultimo si fonda sulla
pratica (violenta) del segreto, perché la verità può essere eversiva. Ciò
accade soprattutto quando vi sono misfatti di stato, azioni belliche contrarie
ad ogni legge internazionale. Assange è sottoposto nella fortezza in cui è
rinchiuso ad una vera e propria tortura, della stessa forma da lui denunciata
con una controinformazione preziosa. Ha ricordato Migone, come aveva fatto del
resto in vista delle elezioni americane Furio Colombo, che siamo al cospetto di
un precedente insidioso. Non così accadde quando Daniel Ellsberg, il
whistleblower dei Pentagon Papers (1967), disvelò le porcherie della guerra del
Vietnam. Allora non si ebbero condanne, in virtù del principio fondamentale
della libertà di informazione garantito dal primo emendamento della
costituzione di Washington. Tant’è che il New York Times e il Post pubblicarono
paginate e non vi fu censura, malgrado le pressioni del segretario della difesa
McNamara. Basti, poi, leggere il duro documento stilato dallo Special
Rapporteur on Torture delle Nazioni unite, Nils Melzer. Dove si stigmatizza
pure il comportamento della Svezia, dove la drammaturgia cominciò, con accuse
strumentali rivelatesi infondate. Perché il sipario si apra davvero, serve un
atto formale, così come è accaduto in Gran Bretagna e in Australia su spinta di
parlamentari di parti diverse. Una mozione delle camere rivolta al presidente
del consiglio Draghi, affinché ponga il problema di Assange all’unione europea
e a Joe Biden, è urgente e necessaria.
©
2021 IL NUOVO MANIFESTO SOCIETÀ COOP. EDITRICE
RICONOSCERE
LO STATUS DI RIFUGIATO A JULIAN ASSANGE
Abbiamo
presentato una mozione che sarà discussa e votata in Aula la prossima settimana
per impegnare il governo a intraprendere ogni utile iniziativa finalizzata a
garantire la protezione e l'incolumità di Julian Assange da parte delle
autorità britanniche e a scongiurarne l'estradizione.
Ad
Assange bisogna riconoscere lo status di rifugiato politico e la protezione
internazionale, in virtù delle riconosciute e accettate disposizioni
internazionali sul diritto d'asilo.
_____________
Questo il
testo della mozione:
<--------->
MOZIONE
La
Camera,
premesso
che:
il 28
marzo 2021 Stella Morris, moglie di Julian Assange, ha riportato la notizia di
una lettera personale da parte di Papa Francesco recapitata al marito,
incarcerato nel Regno unito dal 2019, per il tramite del prete del
penitenziario;
Julian
Assange, cittadino australiano, è al centro di un caso diplomatico e giuridico
che dura ormai da undici lunghissimi anni;
giornalista,
attivista e programmatore informatico, nel 2006 Assange ha fondato il sito wikileaks.org
(WikiLeaks)
con l’obiettivo di offrire uno spazio libero ai whistleblower disposti a
pubblicare documenti sensibili e compromettenti, in forma anonima e senza la
possibilità di essere rintracciati;
il sito,
negli anni, è stato curato da molti giornalisti, attivisti e scienziati
riscuotendo sempre maggiore attenzione nell’opinione pubblica, rivelando
segreti e scandali, relativi, tra gli altri, a guerre, loschi affari
commerciali, episodi di corruzione e di evasione fiscale;
le
rivelazioni di WikiLeaks hanno contribuito ad aumentare la consapevolezza di
larghi strati della pubblica opinione mondiale rispetto a governi, uomini di
potere, reti di relazioni ed eventi, ben oltre la narrazione ufficiale;
nel 2010
Assange è assurto ad ampia notorietà internazionale per aver rivelato tramite
WikiLeaks documenti classificati statunitensi, ricevuti dalla ex militare
Chelsea Manning, riguardanti diversi crimini di guerra;
nell’ottobre
del 2010, pochi mesi prima delle accuse avviate contro Julian Assange in
Svezia, WikiLeaks pubblicò video e documenti diplomatici relativi alle guerre
in Afghanistan e in Iraq. Fu una delle più grandi fughe di notizie della storia
che documentarono abusi delle forze americane, compresa l’uccisione di decine di
civili, compresi due giornalisti della Reuters, da parte di un elicottero da
guerra statunitense Apache a Baghdad nel 2007;
WikiLeaks,
attraverso il così denominato “Cablegate”, diffuse più di 300 mila documenti
riservati dell’esercito statunitense che rivelarono gravi inadempienze della
autorità nel perseguire abusi, torture, violenze perpetrate durante le guerre
in Afghanistan e Iraq;
durante
le primarie presidenziali del Partito Democratico statunitense del 2016,
WikiLeaks pubblicò delle e-mail inviate e ricevute dalla candidata Hillary
Clinton dal suo server di e-mail privato quando era Segretario di stato
dimostrando, tra l'altro, il coinvolgimento dell'Arabia Saudita e del Qatar in
varie azioni di supporto alla formazione dello Stato Islamico in Siria e in
Iraq (ISIS) e ponendo concreti dubbi sul coinvolgimento statunitense in esse;
per le
sue rivelazioni Julian Assange ha ricevuto svariati encomi da privati e
personalità pubbliche, onorificenze (tra cui il Premio Sam Adams, la "Gold
medal for Peace with Justice" da Sydney Peace Foundation e il "Martha
Gellhorn Prize for Journalism"), ed è stato ripetutamente proposto per il
Premio Nobel per la pace per la sua attività di informazione e trasparenza;
nel 2012,
per sfuggire all’arresto da parte della polizia britannica, Julian Assange
trovò asilo presso l’ambasciata dell’Ecuador, il cui governo gli avrebbe
riconosciuto in quello stesso anno lo status di rifugiato politico e il diritto
d’asilo;
l’11
aprile 2019, la polizia britannica ha arrestato Julian Assange all’interno
dell’ambasciata dell’Ecuador a Londa, con il consenso delle autorità
ecuadoriane dopo che, in seguito al cambio di governo, le stesse gli avevano
revocato lo status di rifugiato;
nella
serata del 11 aprile, Julian Assange è stato condotto dinanzi alla Westminster
Magistrates' Court, dove sembrerebbe sia stato riconosciuto colpevole ipso
facto d'aver violato nel 2012 i termini della cauzione: ovvero quando aveva
deciso di rifugiarsi nell'ambasciata ecuadoriana e di non comparire di fronte a
un giudice britannico che lo aveva convocato per conto della magistratura
svedese nell'ambito di una controversa inchiesta per presunto stupro e molestie
avviate contro di lui a Stoccolma, accuse poi archiviate;
oggi
quindi Julian Assange risulta essere detenuto nel Regno unito per aver violato
le condizioni di una libertà vigilata imposte sulla base di un mandato poi
revocato, ma la motivazione reale della sua detenzione parrebbe risiedere nella
richiesta di estradizione da parte degli Stati uniti;
le autorità
di Washington asseriscono infatti che Julian Assange e WikiLeaks avrebbero
messo a repentaglio la sicurezza nazionale degli Stati uniti. Con questa stessa
accusa Chelsea Manning, che a WikiLeaks fornì i documenti nel 2010, è stata
dapprima condannata a 35 anni di prigione e, successivamente, graziata dal
Presidente Obama;
l’estradizione
nei confronti di Assange troverebbe una ragione di fondamento in un atto di
accusa segretamente depositato ad Alexandria, nello stato del Virginia, che
consisterebbe di un solo capo di imputazione, insieme a Chelsea Manning,
relativo al reato di pirateria informatica, anche se sembrerebbe che il
ministero della giustizia statunitense abbia contestato ad Assange altri reati,
tra cui quelli di cospirazione e spionaggio;
dopo
quasi undici anni, quello in atto contro Julian Assange assume i contorni di
una persecuzione contro la persona e di una ritorsione contro il progetto
WikiLeaks, ma rappresenta anche un pericoloso precedente per attivisti,
giornalisti e whistleblower negli Stati uniti così come in qualunque altro
Stato;
la
detenzione di Julian Assange – i cui presupposti erano già stati respinti nel
2015 dal Gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulla Detenzione Arbitraria e
rivelatasi anche avvenire in condizioni gravosamente severe – nonché le
eventualità di estradizione e persecuzione a vita negli USA, hanno suscitato
forte protesta e appelli per il rilascio da parte dell'opinione pubblica e di
svariate organizzazioni per i diritti umani;
nel
novembre 2019 il relatore Onu sulla tortura ha dichiarato che Assange avrebbe
dovuto essere rilasciato e la sua estradizione negata, dichiarazione
successivamente fatta propria anche dal Consiglio d'Europa, di cui il Regno
unito è peraltro Stato membro fondatore;
nel
dicembre 2020 lo stesso relatore Onu sulla tortura, oltre a rinnovare l'appello
per l'immediata liberazione di Assange, ha chiesto, senza esito, che questi
venisse almeno trasferito dal carcere ad un contesto di arresti domiciliari;
il 5
gennaio 2021 la giustizia inglese ha negato l'estradizione di Assange per
motivi di natura medica, nello specifico per il bene della sua salute mentale
per l’alto rischio di tendenze suicide;
tuttavia,
nonostante quanto espresso in precedenza e nonostante le precarie condizioni di
salute, Julian Assange risulta ancora detenuto in condizioni gravosamente
severe presso la prigione di Belmarsh;
per
questa ragione è opportuno esercitare la massima pressione sul Regno unito
affinché comprenda la gravità della situazione e garantisca la protezione di
Julian Assange, accogliendo quanto richiesto dal relatore Onu sulla tortura e
quanto fatto proprio dal Consiglio d’Europa, massima istituzione per lo stato
di diritto e per la tutela dei diritti umani di cui il Regno unito è membro
fondatore;
finché a
Julian Assange non verrà riconosciuta la piena libertà, lo status di rifugiato
politico e la protezione internazionale, il rischio che egli possa andare
incontro a violazioni dei diritti umani sarà sempre concreto e incombente,
oltre a condizioni detentive che violerebbero il divieto assoluto di tortura e
di altri maltrattamenti e un processo iniquo che, negli Stati Uniti, potrebbe
essere seguito dalla pena di morte, a causa del suo lavoro con WikiLeaks;
impegna
il Governo:
ad
intraprendere, anche in aderenza alle Convenzioni internazionali e
specificatamente alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell’uomo e delle libertà fondamentali, ogni utile iniziativa finalizzata a
garantire la protezione e l’incolumità di Julian Assange da parte delle
autorità britanniche e a scongiurarne l’estradizione;
a
riconoscere lo status di rifugiato politico e la protezione internazionale a
Julian Assange, in virtù delle riconosciute e accettate disposizioni
internazionali sul diritto d’asilo.