E’ l’icona vivente del giornalismo “radical” israeliano. Amato o odiato,
senza mezze misure. Perché Gideon Levy spiazza, non fa sconti, scuote le
coscienze. Leggere per credere
“Giovedì, ho provato un grande orgoglio di essere un lettore - e scrittore
- di Haaretz e una profonda vergogna di essere israeliano. La
prima pagina del giornale di quel giorno avrebbe dovuto essere esposta nelle
basi delle forze aeree d'Israele, in modo che i piloti e i loro assistenti e i
comandanti di corpo e di squadrone la vedessero. Cosa avrebbe provato il
tenente Gal il pilota intervistato da Yedioth Ahronoth alla
fine del confronto militare di questo mese con Hamas. Aveva detto al giornale
che ‘provava sollievo’ dopo aver sganciato le bombe su Gaza? Proverebbe ancora
lo stesso sollievo dopo aver visto la sua opera - le fotografie dei 67 bambini
morti sulla prima pagina di Haaretz? L'unico ‘lieve
shock’ provato da quella macchina da bombardamento chiamata pilota sarebbe
ancora il momento in cui ha sganciato le bombe, come ha raccontato - o la vista
delle foto dei bambini morti avrebbe generato in lui qualche altra emozione che
gli avrebbe impedito di compiere di nuovo una missione così spregevole? Le
immagini sono scioccanti nella loro grandezza cumulativa. Tutta la propaganda
sui ‘più morali’ e ‘i migliori che vanno in aviazione’, sugli
‘attacchi aerei chirurgici’ e i colpi di avvertimento sui tetti di Gaza si
dissipano improvvisamente di fronte a queste foto. Il sorriso smagliante di
Rafeef, 10 anni. La maschera indossata da Amir, 9 anni. Mohammed, che non
avrebbe mai festeggiato nemmeno un compleanno. Gli occhiali da sole colorati di
Islam, di otto anni, nell'ultima foto che lo ritrae, che potrebbe anche essere
la prima.
Queste fotografie sono più convincenti di mille vuoti discorsi di
propaganda israeliana sull'autodifesa, sulla colpa di Hamas e su come non ci
fosse alternativa. Questo è l'ultimo, singolare risultato, davanti al quale
solo i piloti e gli altri israeliani a cui è stato fatto il lavaggio del
cervello possono rimanere indifferenti e persino parlare del loro ‘sollievo’.
Dopo il primo shock è arrivato il secondo, solo un po' meno del primo: le
reazioni in Israele. Se qualcuno avesse ancora dubitato della portata della
negazione e della repressione psicologica in cui vive la società israeliana, se
qualcuno avesse dubitato della gravità della sua malattia morale, le reazioni
alla prima pagina lo hanno dimostrato. Questa società è molto malata. Il
dibattito nei media e sui social media è scoppiato come un incendio. È stato
selvaggio e istruttivo.
Israele stava evitando la temuta notizia come la peste. Nessuno parlava dei
bambini morti, delle dimensioni orribili dell'uccisione e dell'esercito che
l'aveva commessa. Non era affatto l'argomento. In un'incredibile esibizione
acrobatica, gli israeliani hanno tirato fuori tutto quello che avevano e anche
di più per evitare la verità, eludere la responsabilità e continuare con la
loro solita autocelebrazione. Ecco una lista parziale: Haaretz è
colpevole perché non ha pubblicato le foto dei due bambini israeliani uccisi.
Il New York Times è colpevole perché ha scritto che solo due bambini
palestinesi sono stati uccisi dai razzi palestinesi. Hamas è colpevole perché
usa i bambini come scudi umani. Hamas è colpevole perché spara razzi dai centri
abitati. I bambini non sono stati nemmeno uccisi. Ci sono foto in cui li si
vede alzarsi dai loro sudari. C'era solo una cosa di cui nessuno osava parlare:
La responsabilità di Israele, la colpa delle Forze di Difesa Israeliane, il
ruolo dei piloti e la parte condivisa da ogni israeliano, dal primo ministro
Benjamin Netanyahu in giù, nella responsabilità morale di questa uccisione di
bambini. Sotto gli auspici dei suoi pietosi media, un'intera società è stata
arruolata come una sola persona, spalla a spalla, per eludere ogni
responsabilità, per sviare ogni colpa, per accusare il mondo intero, per
dissipare ogni dubbio e dire: Non è per mano nostra che è stato versato questo
sangue. Ma l'amara verità è che è stato solo per mano nostra. Non c'è altro
modo di presentarla. Non c'è altra verità da mettere in mostra. Si può dire che
questo è ciò che succede in guerra e anche pensare che se non fosse stato per
Hamas, questa guerra non sarebbe scoppiata - il che è molto dubbio - ma dare
tutta la colpa alla vittima è un nuovo record di disprezzo israeliano. Neanche
una parola di rammarico? Di dolore? Un briciolo di responsabilità? Un accenno
di colpa? Un risarcimento per le famiglie? Non Israele. Mai. I bambini sono
morti negli attacchi aerei. I bambini sono colpevoli. Solo loro. Assolutamente
solo loro”.
Così Gideon Levy, coscienza critica d’Israele.
Anche il titolo scelto dal giornale rimanda alla parte umanamente più
insopportabile di qualsiasi conflitto: la perdita delle vite umane più
piccole. Haaretz scrive sopra i volti sorridenti dei
bambini “Questo è il prezzo della guerra”.
La scelta del New York Times
Sulla scia di Haaretz, anche Il New York Times ha
fatto una scelta molto forte. Ha deciso di mostrare nella sua homepage una
sorta di slide-show che alterna le fotografie dei 67 bambini che hanno
perso la vita nella Striscia di Gaza. A ogni foto è associata una brevissima
descrizione di quell’azione che i bambini stavano facendo poco prima di morire:
c’era chi era uscito per mangiare un gelato, chi invece stava consumando la
cena con i propri genitori. Poche righe di racconti quotidiani, che fanno
comprendere la dimensione familiare della tragedia.
Per molti bambini è stata il quarto conflitto
"Essere un bambino nella Striscia di Gaza è sempre stato estremamente
difficile, anche prima dell'escalation", sottolinea
l'Unicef. "Per molti bambini, questo è stato il quarto
conflitto che hanno vissuto. Nessun posto è sicuro per i bambini nella Striscia
di Gaza. Prima dell'attuale ondata di violenze 1 bambino su 3 aveva
bisogno di supporto perla salute mentale e psicosociale. Questo numero è senza
dubbio aumentato negli ultimi giorni", continua, ribadendo la necessità di
una pace duratura: "Per il bene di tutti i bambini e del loro futuro, è il
momento di raggiungere una soluzione pacifica dilungo termine al conflitto che
dura da sette decenni. Qualsiasi soluzione politica che sarà raggiunta non
dovrebbe e non può essere quella di 'tornare a com'era prima' perché 'prima'
era insopportabile e insostenibile per tutti i bambini".
La dodicenne Dina* ha la leucemia e non è stata in grado di ricevere cure
al di fuori di Gaza da quando il coordinamento si è interrotto. "La mia
malattia ha avuto gravi conseguenze sulla mia vita e non riesco a camminare
sulle mie gambe. Ho pregato che mi amputassero gli arti. Israele dovrebbe
revocare il blocco così da avere buone scuole e buoni ospedali e poter avere
cure e posti carini dove giocare. E poter, quindi, vivere come gli altri
bambini nel mondo" ha detto.
Ahmed*, 13 anni, è stato colpito alla gamba dalle schegge di un proiettile
che è esploso e la sua richiesta di lasciare Gaza per un intervento ai nervi è
stata respinta. “Uno dei giorni più difficili della mia vita è stato quando
sono uscito dall'operazione e mi avevano preparato una sedia a rotelle. Mi
chiedevo a cosa servisse la sedia. Mi hanno detto: "Ci siederai sopra e ci
vivrai tutta la tua vita". Ho pianto, dal profondo del mio cuore ... Non
posso lasciare Gaza perché hanno chiuso i posti di blocco. La mia gamba sta
peggiorando e io sono preoccupato per questo" spiega Ahmed.
Save the Children sostiene trenta bambini che necessitano di cure mediche
urgenti al di fuori di Gaza. Alcuni di questi sono stati feriti durante il
conflitto o nelle proteste e hanno arti amputati, ferite da arma da fuoco o da
schegge, gravi danni agli occhi e al sistema neurologico. Altri vivono con
malattie debilitanti come cancro e patologie cardiache.
"Come può esserci una giustificazione in qualsiasi posto e momento per
impedire ai bambini di ottenere cure salvavita? Questi minori gravemente malati
devono lasciare Gaza per sopravvivere, semplicemente non c'è altra opzione. È
crudele che i bambini muoiano o soffrano di un dolore estremo quando possono
ricevere un trattamento appena oltre i posti di controllo. Ogni giorno che
passa, la finestra per aiutare questi bambini si chiude ulteriormente”,
dichiara Jeremy Stoner, direttore di Save the Children per il Medio Oriente.
Anche questo è “il prezzo della guerra”. E a pagarlo sono i più indifesi
tra gli indifesi: i bambini.
(* Nome modificato per motivi di protezione)
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