Iside Gjergji, Sociologia della tortura.
Immagine e pratica del supplizio postmoderno, Edizioni Ca’ Foscari –
Digital Publishing, 2019. Il libro è liberamente scaricabile qui
Di fronte al persistere di un fenomeno come la tortura la prima reazione è
quella di sgomento e condanna morale. O almeno così dovrebbe essere. Ciò
nonostante, per comprendere questa terribile realtà non ci si può limitare a
evocare la malvagità innata degli essere umani o i comportamenti devianti dei
singoli. Occorre porsi una domanda più radicale: perché gli Stati spingono
alcune persone a torturarne delle altre? Affermare l’esistenza di questa spinta
significa presupporre che nella società contemporanea vi siano delle dinamiche
capaci di favorire l’utilizzo della tortura e che questa, di conseguenza,
svolga una qualche funzione nella riproduzione degli attuali assetti
socio-economici.
E proprio da questo tipo di considerazioni parte Iside Gjergji nel suo ultimo
lavoro Sociologia della tortura. Immagine e pratica del supplizio postmoderno. La prima
cosa da chiarire è che la tortura non riguarda il bisogno degli Stati di
ottenere informazioni. Essa ha invece sempre come obiettivo finale la
disumanizzazione delle vittime e il loro isolamento dalle rispettive comunità
di riferimento. Ma c’è di più. Il suo bersaglio non è soltanto il singolo
torturato o la singola torturata, bensì il torturato-ceto o torturato-classe.
Portare in primo piano la storia sociale dei corpi torturati significa
sottolineare che essi non si presentano come semplici corpi biologici
soggiogati da un generico potere; sono, invece, corpi che sono in grado di
rivelare a quali ceti o classi sociali appartengono e che vengono soggiogati da
un potere socialmente e storicamente determinato.
Affermare questo per l’autrice non significa ignorare che la tortura esiste
dalla notte dei tempi, ma riconoscere che essa ha una storia nella quale non si
presenta sempre uguale a se stessa. Nel mondo premoderno la tortura è
apertamente riconosciuta come uno strumento legittimo in mano al potere, mentre
in quello moderno la sua legittimità è sottoposta a critiche sempre maggiori
fino a che viene formalmente abolita a partire dalla Costituzione degli Stati
Uniti nel 1787 e dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino nel
1789. Questo processo raggiunge il suo apice con la Dichiarazione universale
dei diritti dell’uomo del 1948, con le successive convenzioni
internazionali ad hoc e con l’inserimento
negli ordinamenti giuridici nazionali di previsioni specifiche.
Ma questa è la storia che si svolge alla luce del sole. Nell’ombra, sottolinea
Gjergji, la pratica del supplizio non viene mai meno. Se la necessità di
salvaguardare i diritti umani diventa ideologia comune, non a tutti, ed è
questo il punto dirimente, viene riconosciuta la qualità di essere umano. Un
momento fondamentale di questa storia sotterranea è l’incontro che si verifica
nelle colonie tra tortura e razzismo. Per rapinare le risorse delle colonie e
per sfruttare al massimo la manodopera locale occorreva creare un sistema
capace di ridurre i colonizzati a sotto-uomini, semplici cose. La risposta a
tale bisogno strutturale fu il razzismo, inteso non come semplice ideologia o
credenza ma, per dirla con Sartre, come razzismo-operazione: una prassi con una
sua funzione specifica e una sua giustificazione incorporata che poggia
interamente sulla violenza. Se il razzismo è concepito in questo modo è facile
comprendere come la tortura rappresenti la sua verità estrema, essendo la forma
più estrema della violenza. Tortura e razzismo condividono lo stesso obiettivo:
distruggere l’uomo senza farlo morire, perché ciò che davvero vogliono è
segnare un confine invalicabile tra razze, tra ciò che è umano e ciò che non lo
è.
Un altro episodio storico di grande interesse, connesso con il colonialismo, è
quello della caccia alle streghe. Non si tratta affatto di un lascito del buio
Medioevo, che allunga le sue ombre sull’alba dell’età moderna, ma di una
consapevole applicazione nella vecchia Europa dei metodi di dominazione
sperimentati con successo da parte dei primi colonizzatori dell’America. Il
tutto, sostiene l’autrice, per rispondere ai bisogni crescenti del nuovo
sistema di produzione: svalorizzare la forza lavoro femminile, la più richiesta
dal “libero” mercato insieme a quella dei bambini, e allo stesso tempo a
imporre una gerarchizzazione di genere all’interno della nascente classe dei
lavoratori “liberi”. Il legame tra tortura e stregoneria nasconde, nelle sue
pieghe, il legame tra tortura e capitale, commenta l’autrice.
Facciamo un salto di alcuni secoli e con Gjergji arriviamo agli anni
immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale quando gli
USA reclutano centinaia di ex nazisti con una vasta esperienza accumulata nelle
torture di massa. Nel 1950 viene realizzato dalla CIA il Kubark Counterintelligence Manual, atroce compendio che
ha guidato per molti anni le torture in molti Paesi, introducendo un’importante
novità: il corpo non è più l’unico bersaglio della violenza perché il supplizio
diventa anche mentale. La progressiva privazione sensoriale del soggetto
torturato comporta un più rapido crollo psico-fisico e, in molti casi, non
lascia segni visibili sul corpo. L’utilizzo più esteso di quelle che vengono
ipocritamente definite “tecniche di interrogatorio” avviene probabilmente
nell’America Latina, dove sono funzionalmente collegate agli interessi
commerciali statunitensi, colpendo soprattutto uomini e donne provenienti dalle
classi lavoratrici e popolari o dalle loro organizzazioni sindacali e
politiche.
Giungiamo infine ai nostri giorni e precisamente all’11 settembre 2001. Dopo
l’attentato alle Torri Gemelle, sottolinea l’autrice, il discorso pubblico
torna a fare aperta menzione della tortura quale pratica legittima. Non fa più
scandalo sostenere la necessità di utilizzare tecniche di “interrogatorio
coercitivo” per garantire la sicurezza nazionale. Il Patriot Act ha di fatto
lasciato la porta aperta al loro utilizzo con l’obiettivo dichiarato di vincere
la guerra al terrore. I risultati si vedono presto: vengono pubblicate le foto
dei militari americani che, sorridenti, torturano e umiliano i prigionieri
iracheni ad Abu Ghraib. Immortalare le torture rientra in una precisa strategia
ideata dai vertici militari perché la moltiplicazione delle immagini della
tortura diventa essa stessa tortura, la sua forma finale, pericolosamente
simile alla spettacolarizzazione premoderna delle liturgie punitive. L’immagine
è infatti moltiplicatore di vergogna, minaccia alla reputazione sociale del
torturato, perpetuazione dell’umiliazione del torturato e del godimento dei
torturatori.
La tortura diventa anche frequente materia di rappresentazione filmica, in
particolare nelle serie TV, nota l’autrice. In una di grandissimo
successo, 24, la tortura rappresenta il
pilastro fondamentale della struttura narrativa: nelle prime sei stagioni (su 8
complessive) ci sono ottantanove scene di tortura in cui Jack Bauer, il
protagonista, usa quasi tutte le tecniche a disposizione: minaccia, ricatta,
picchia, soffoca, accoltella, spara, folgora, droga. L’orologio che compare costantemente
sullo schermo in modalità countdown evoca
il più classico ticking bomb scenario, situazione
tipo su cui si è impantanato il recente dibattito sulla tortura: è lecito
utilizzare “l’interrogatorio coercitivo” per estrarre informazioni che possono
salvare vite umane minacciate da una bomba che sta per esplodere?
Al di là dell’estrema improbabilità di questa situazione (che prevede la
certezza che un ordigno sta per esplodere e la sicurezza che la persona
interrogata ha le informazioni necessarie per sventare la minaccia) è proprio
la struttura di questo scenario a risultare mistificante. Il presupposto è
infatti che la tortura serve ad ottenere informazioni. Abbiamo visto, invece,
che la tortura serve a disumanizzare, attraverso la violenza esercitata su
alcuni individui, interi ceti e classi. E sappiamo anche che i corpi che
subiscono il supplizio sono socialmente connotati, immersi negli attuali
rapporti sociali di produzione. Giungiamo dunque a quella che è la tesi più
forte del libro di Iside Gjergji. In ultima istanza la riduzione a nuda vita di
interi gruppi sociali è funzionale al “controllo e alla svalorizzazione della
loro forza lavoro”. Per questo motivo
maggiore è il bisogno di controllo sulla forza lavoro, maggiore è l’uso
della tortura da parte degli Stati, a prescindere dalla forma politica e
istituzionale che questi possono assumere. La tortura di massa ha segnato i
momenti di passaggio o di grave crisi dei sistemi di produzione mentre, nelle
fasi di relativa stabilità, essa è servita a puntellarli. L’elemento stabile
nel suo orizzonte storico e geografico, ovvero la provenienza sociale delle sue
vittime, rappresenta una chiara conferma.1
Commentando il ragionamento dell’autrice, si può sostenere che
probabilmente non è un caso che la storia segreta e quella palese della tortura
si ricongiungono all’inizio del nuovo millennio. L’imperativo categorico del
capitale in salsa neoliberista, infatti, è stato quello di riconquistare il
pieno controllo e aumentare lo sfruttamento di una forza lavoro che nel
tornante storico degli anni sessanta e settanta, a livello internazionale, si
era ribellata, a volte con successo, alla sua subordinazione. Una necessità che
permane più che mai acuta ancora oggi, anche in considerazione della situazione
di crisi economica e sociale generalizzata che stiamo vivendo. Se questo è vero
non possiamo considerare la tortura come un residuo del passato destinato a
scomparire.
Le cicatrici che la tortura (post)moderna lascia sui torturati di oggi non
sono altro che il prosieguo, o l’anticipo delle cicatrici che il mercato, dove
sono costretti a vendere la loro forza lavoro, ha già lasciato e continuerà a
lasciare. Con la differenza che quelle lasciate dalla tortura si manifestano in
una versione più intensa, più cruenta. I torturatori sono la versione horror di
quegli ‘acconciatori’ della ‘pelle’ dei lavoratori, di cui parla Karl Marx
quando illustra la sua biopolitica, perché i torturati appartengono, nella
stragrande maggioranza dei casi, alle fila di coloro che sono costretti a
vendere la loro ‘pelle’.2
Rimanendo a Marx, si può sviluppare ulteriormente il ragionamento di Gjergji
sostenendo che non solo la tortura è funzionale allo svilimento della forza
lavoro, ma che il lavoro in sé stesso, portando alle estreme conseguenze la
logica dello sfruttamento capitalistico, può diventare una forma di tortura.
Il lavoro alla macchina intacca in misura estrema il sistema nervoso,
sopprime l’azione molteplice dei muscoli e confisca ogni libera attività fisica
e mentale. La stessa facilitazione del lavoro diventa un mezzo di tortura,
giacché la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al
suo lavoro.3
Nel segreto laboratorio della produzione, sostiene ancora Marx, “il
capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia
sugli operai”.4 Qui il capitalista
deve affermare la sua onnipotenza, cancellando l’umanità del lavoratore, come
il torturatore nei confronti del seviziato. La fabbrica deve rimanere un luogo
separato, sottratto allo sguardo pubblico e affrancato dalle regole ordinarie,
al pari della stanza dei supplizi. Certo non bisogna mai portare questi
ragionamenti oltre il loro necessario limite. La tortura, in senso proprio,
rimane uno strumento estremo, eccezionale, se paragonata alle “normali”
sofferenze che può subire un lavoratore, per quanto tragiche esse possano
essere. Ma occorre aggiungere che durante le situazioni di crisi, come quella
che stiamo attraversando, i confini tra norma ed eccezione diventano
maggiormente porosi. Basti qui ricordare, per concludere con le parole
dell’autrice, che per i torturatori di ogni latitudine, il razzismo
“sperimentato nella vita quotidiana rappresent[a] una lunga ed efficace
palestra di addestramento”.5
1. I. Gjergji, Sociologia della tortura. Immagine e pratica del supplizio postmoderno, Edizioni Ca’ Foscari – Digital Publishing, 2019, p. 71.
2. Ivi, pp. 87-88.
3. K. Marx, Il capitale, Libro primo, Editori Riuniti, 1980, p. 467.
4. Ivi, pp. 468-469.
5.
I. Gjergji, Sociologia della tortura, p.
85.
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