Con l’inizio del terzo millennio l’espansione
del continente digitale planetario ha investito l’Italia e coinvolto
nell’erosione progressiva dello spazio pubblico gran parte dei suoi cittadini.
Con “spazio pubblico” non intendo soltanto quell’insieme di luoghi aperti e
reali, ovvero non virtuali, entro cui lo Stato dovrebbe garantire a tutti la
libertà di esercitare apertamente i diritti di cittadinanza, d’informazione, di
attività culturale e politica in tutte le varianti. Ancora prima, infatti, lo
si dovrebbe considerare come uno spazio strategico per la maturazione e il
consolidamento delle nostre abilità relazionali; delle capacità di
progettazione comune, di collaborazione empatica e di operatività condivisa.
Come una grande rete di luoghi immaginati, voluti e liberamente istituiti da
aggregazioni sociali autonome e autogestite. Luoghi aperti, dunque, in virtù
dei quali possano svilupparsi e assumere una forma storica i momenti di
confronto e le forme sorgive della creatività e del mutamento sociale. Nella
seconda metà del Novecento gli spazi pubblici post-bellici avevano vissuto in questo
Paese un importante scossone. Le deboli attrezzature associative istituite per
via burocratica dallo Stato dovettero cedere il passo a nuove esigenze
culturali portate avanti da un fermento generazionale e laico nato in
alternativa anche ad altre istituzioni robustamente sostenute da enti religiosi
o privati. Negli anni ‘60 e ‘70 si è data infatti una fioritura rigogliosa di
energie istituenti e ha preso vita un vasto arcipelago di inedite associazioni
culturali, formazioni politiche, fermenti sindacali, centri sociali e movimenti
extra-parlamentari accomunati, pur nella loro varietà spesso conflittuale, a
forti attese di progresso sociale. Negli ultimi vent’anni, gran parte di questo
processo si è tuttavia inaridito confluendo nella grande ragnatela di internet
e nei suoi incanti; ragnatela che ha saputo presentarsi al mondo come
un’offerta di libertà per tutti pur che si fossero dotati di dispositivi mobili
e avessero aperto profili e account nelle sue maglie. Abbiamo visto così un
grande esodo verso le nuove community disseminate nello spazio
virtuale messo a disposizione “gratuitamente” dalle piattaforme e sapientemente
mitizzato dalle loro agenzie di marketing prodighe di allettanti inviti ad
esplorare le sue meraviglie. Lentamente rispetto ad altre aree del mondo, ma
velocemente per i tempi del rinnovamento sociale che caratterizzano i processi
storici dell’Italia, molti cittadini hanno così aperto profili social su questa
o quella piattaforma e trasferito lì gran parte delle loro pubbliche attività.Non
si può dire che questa migrazione, avvenuta in ordine sparso, sia stata
accompagnata da una riflessione critica e matura. Al contrario la penetrazione
delle imprese digitali planetarie è stata ingenuamente accolta come una gradita
ventata di progresso e all’invito a trasferirsi “online” si è obbedito senza aver contezza di
ciò che ne sarebbe conseguito. Confondendo il progresso tecnologico con il
progresso sociale, sia lo Stato, sia un gran numero di cittadini hanno in tal
modo attivamente contribuito al declino e alla degradazione degli spazi
pubblici in lande virtuali dove la vita di relazione viene sempre più confusa
con le pratiche di connessione. In poco meno di vent’anni, questo sdoppiamento
digitale, infine, è riuscito a consolidare un nuovo contesto societario
colonizzato dai padroni delle piattaforme entro cui gli attori mentre si
illudono di agire vengono invece agiti. Dicendolo con un paradosso: ha generato
un simil-spazio pubblico radicalmente privatizzato.
Le simulazioni del privato in
veste pubblica
Naturalmente, in questa deriva del pubblico
sulle piattaforme private, anche i cittadini hanno fatto la loro parte. La
nascita e la crescita della politica digitalizzata e lo sconfortante conteggio
dei “Mi piace” e degli “indici di gradimento” hanno ormai preso il sopravvento.
Ai leader che lanciano slogan, proclami e anatemi dai balconcini virtuali, i
militanti degradati a “follower”, ammiratori, rispondono riprendendo,
ritwittando e moltiplicando pedissequamente i “meme” sui loro profili. Così, se
per un verso ci capita di assistere allo scatenarsi di infuocate battaglie
“virali”, per un altro dobbiamo constatare la chiusura progressiva dei luoghi
d’incontro in presenza. Senza neppure rendersene conto l’attività politica
pubblica, così vivace nel secondo Novecento, armi e bagagli si è infatti
trasferita sulle piattaforme private delle Big Tech statunitensi e, sfidando il
ridicolo, perfino sulla “Rousseau” di un’azienda nostrana. E tutto ciò ha dato
vita a un curioso e grottesco paradosso: il travestimento del privato in veste
pubblica. Prendendo atto di questa deriva, e certo per spingerla ancora più in
basso, alcuni commentatori hanno poi cominciato a sostenere che le piattaforme
private come Facebook, Twitter, TikTok e via elencando svolgono, bontà loro, un
vero e proprio servizio pubblico. Basterà al riguardo una sola citazione: “I
social network americani sono servizi divenuti pubblici e globali che hanno
ottenuto un successo straordinario senza precedenti. Aziende fondate e gestite
da privati che rispondono agli azionisti: non appartengono né a chi le
frequenta né ad organi statali. Una condizione peculiare con la quale bisogna
fare i conti. È questa la differenza fra l’Internet decentralizzato dei primi
tempi e il web dei social network” [NOTA 1] Ora, che una piattaforma privata
non sia uno spazio pubblico dovrebbe essere di per sé lapalissiano. Ma ci sono
voluti il clamoroso scontro tra il presidente in carica al tempo dei fatti,
Donald Trump, e Twitter e quello non meno significativo tra Facebook &
Google e il Parlamento australiano per far lievitare almeno qualche dubbio.
Vediamo dunque cosa possiamo apprendere da questi avvenimenti.
Da Capitol Hill all’Australia
La prima storia si è svolta a cavallo tra il
2020 e il 2021 negli Stati Uniti d’America. Riassumo anzitutto l’antefatto.
Dopo un’infuocata campagna elettorale per il rinnovo della carica di Presidente
degli Stati Uniti, gli organi di controllo istituzionali e le istanze
competenti del Partito Democratico e del Partito Repubblicano hanno
riconosciuto infine la vittoria a Joe Biden. Donald Trump, campione dei
repubblicani e presidente ancora in carica degli Stati Uniti, tuttavia,
contesta il risultato e, anzi, in modo esplicito accusa con veemenza il Partito
Democratico di aver compiuto dei “brogli”. In seguito a queste accuse – non
meglio documentate ma negli ultimi mesi della campagna elettorale già cucinate
con insistenza e a fuoco lento come una probabile eventualità – egli si rifiuta
di “concedere” al Partito Democratico la vittoria e di cooperare al passaggio
rituale delle funzioni presidenziali e dei suoi segreti. La ritrosia di Trump
inaugura così un “tempo sospeso” in cui il presidente sconfitto rimane in
carica temporeggiando e Biden, pur essendo stato confermato vincitore dal Congresso
USA, non ottiene, come stabilito dalla tradizione, il riconoscimento dal suo
avversario. In questo tempo irrituale, il 6 gennaio 2021 gli eventi precipitano
e un consistente numero di sostenitori di Donald Trump accerchia Capitol Hill,
la sede del Congresso degli USA, e si spinge al suo interno occupandone per
alcune ore uffici e locali. Questa irruzione avviene sotto gli occhi di mezzo
mondo poiché in quel momento cruciale erano sul luogo giornalisti e televisioni
di tutti i continenti. A sgombero avvenuto si contano sei morti e un certo
numero di feriti – anche tra le forze di polizia – sull’identità dei quali
tuttavia viene mantenuto un imbarazzato per non dire curioso e perdurante
silenzio istituzionale. Veniamo dunque a ciò che ci interessa. Sulla soglia
dell’irruzione, all’acme della tensione, in un messaggio inviato ai
manifestanti, ai 75 milioni di elettori che lo avevano votato e agli 89 milioni
di follower dichiarati sulla piattaforma di Twitter, Donald Trump (
@realDonaldTrump ) ribadisce le sue posizioni sulla “vittoria rubata” dai
democratici, inneggia apertamente alle buone ragioni dell’adunata in suo
sostegno ed esprime tutto il suo “amore” per i manifestanti. Più blandamente,
tuttavia, invita anche gli attivisti a tornarsene a casa per poter proseguire
nei giorni a venire la loro sacrosanta iniziativa di lotta. In risposta a
questo suo tweet, sostenendo che le parole del presidente avevano violato la
“policy” del servizio, Mark Zuckerberg per la piattaforma di Facebook decide di
bloccare temporaneamente il profilo di Trump e dichiara: “Il rischio di
consentire al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo
momento è semplicemente troppo grande. Per questo estendiamo il blocco che
abbiamo deciso sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e
per almeno le prossime due settimane, fino a quando una pacifica transizione di
potere sarà completata”. [NOTA 2]. Quasi in contemporanea una analoga decisione
viene presa dalla piattaforma Twitter che, in quel momento, sospende il profilo
personale di Trump per 12 ore. Donald Trump, ancora formalmente presidente
degli Stati Uniti, risponde a questa mossa spostando i suoi messaggi
sull’account presidenziale #POTUS, ospitato anch’esso sulla piattaforma
Twitter. Ma Jack Dorsey, CEO di Twitter, con una ulteriore progressione, decide
a quel punto di bannare “a tempo indeterminato” anche #POTUS adducendo come
motivazione “il rischio concreto che (Trump) inciti alla violenza anche il
prossimo 27 gennaio”; data in cui rumor insistenti,
soprattutto sui “social”, annunciavano una nuova manifestazione pubblica dei
sostenitori di Trump. Ecco, ho riportato le prese di posizione di Facebook e di
Twitter perché in qualche modo esse fanno emergere, oltre allo scontro tra
repubblicani e democratici, tra seguaci di Trump e istituzioni politiche, anche
una tensione la cui qualità specifica sembra destinata a proiettarsi ben oltre
gli Stati Uniti. L’aperto conflitto tra l’esponente in carica di uno Stato e la
coalizione di un certo numero di piattaforme digitali della Silicon Valley che
si stringe in alleanza per togliergli visibilità e parola nel continente
digitale ci offre infatti l’anteprima di uno scontro di potere che da allora
abbiamo già visto riprodursi sempre più velocemente e in più varianti in molte
altre parti del mondo: in Australia, in Uganda [NOTA 3], nel Myanmar [NOTA 4];
e i cui sintomi già si erano mostrati perfino in Europa [NOTA 5].
Vediamo ora la seconda storia. Nel febbraio
del 2021 il Governo australiano mette in discussione una proposta di legge
intesa a obbligare le grandi piattaforme digitali a pagare i diritti agli
editori per i link che conducono agli articoli pubblicati dai media
australiani. In risposta a ciò, prima ancora che il Parlamento sia giunto a una
decisione, Facebook e Google rendono invisibili i link di collegamento alle
pagine dei giornali australiani bloccando in tal modo l’accesso degli utenti.
In questo blocco restano ovviamente coinvolte anche un gran numero di
“informazioni essenziali sui servizi sanitari e di emergenza” [NOTA 6] che di
quel motore di ricerca e di quella piattaforma abitualmente si servono. E
questo, in tempo di Covid, rafforza la potenza del ricatto. A questo punto,
commentando la vicenda, il premier australiano Scott Morrison, si fa portavoce
delle “preoccupazioni che sempre più Paesi esprimono sul comportamento delle
aziende Big Tech, società che pensano di essere più grandi e influenti dei
governi e ritengono di essere al di sopra delle regole”. Al conflitto tra Big
Tech e governi, già ben delineato nella prima storia, si affianca qui quello
tra settori diversi del capitalismo e tra monopoli e imprese minori. Più
precisamente: tra il capitalismo digitale emergente e i grandi (e piccoli)
gruppi dell’editoria cartacea. Una contraddizione che ha in palio la marea di
miliardi che vengono ogni giorno spesi in pubblicità. Contraddizione, tuttavia,
che non ha faticato a trovare soluzione con gli accordi stipulati sia da Google
che da Facebook con News Corp di Rupert Murdoch, il gruppo monopolistico più
forte della carta stampata australiana (controlla il 70% delle testate) e con
Seven West Media, a totale scapito naturalmente dei piccoli editori [NOTA 7].
Le poche scene in cui ho riassunto i passaggi
salienti della contraddizione in corso tra il dominio digitale delle grandi
piattaforme e il potere politico degli Stati e di altri governi ci offre
l’occasione di mettere meglio a fuoco anche la metamorfosi in atto nello spazio
pubblico locale oggetto di questo scritto poiché non riguardano soltanto o
principalmente ciò che è avvenuto negli USA, in Australia, in Uganda, nel
Myanmar o in Spagna in un momento particolare della loro storia interna, ma
proiettano il loro significato sull’intero continente digitale. Ci riguardano
nella misura in cui gli account, le pagine e i profili che vengono aperti in
qualsiasi parte del mondo su quelle piattaforme sono da esse gestiti – tenuti
aperti, momentaneamente oscurati oppure chiusi – in piena autonomia o comunque
in accordo coperto con questa o quella fazione politica del potere politico
locale che volta a volta maggiormente tutela i loro interessi economici e solo
quelli.
Tre domande fondamentali
Tornando alla deriva privatistica dello spazio
pubblico italiano cui ho fatto cenno nella prima parte di questo scritto e
tenendo conto dei fatti sopra riportati penso che tre domande ce le dovremmo
pur fare.
La prima: fino a che punto gli interessi
privati dell’oligarchia digitale possono già oggi condizionare quelli di uno
Stato?
La seconda: fino a che punto gli interessi di
uno Stato sono ancora in grado di tenere a freno le ambizioni strategiche di
Big Tech?
La terza: fino a che punto le piattaforme
private svolgono effettivamente la funzione di un vero e proprio spazio
pubblico?
Per bocca del suo portavoce Steffen Seiber, la
cancelliera tedesca Angela Merkel ha accennato una risposta definendo
“problematica” la chiusura degli account sui social network del presidente
americano. “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i
limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management
aziendale” [NOTA 8]. Il filosofo Massimo Cacciari, a sua volta, è entrato in
argomento stigmatizzando come “inaudito” che imprenditori privati quali Dorsey
e Zuckerberg, padroni delle reti, possano controllare e decidere se i messaggi
circolanti in rete siano o meno osceni. Anche per lui, insomma, “dovrebbe
esserci una forma di autorità politica che decide. Esattamente così come c’è
l’Autorità per la concorrenza, per la privacy, che decide ‘questi messaggi in
rete sono razzisti, sono sessisti, incitano alla violenza’ e così via.” [NOTA
9]. L’economista Luigi Zingales, dopo aver definito l’esclusione di Trump dalle
piattaforme di Facebook e di Twitter “una straordinaria limitazione della
libertà personale, che può essere imposta solo dalle autorità legittime in
seguito ad un giusto processo, non da compagnie private” ha ulteriormente
precisato che questo “colpo di stato silenzioso non sarebbe stato possibile
senza l’estrema concentrazione del settore digitale” [NOTA 10].
Potremmo fare altri esempi ma ci possiamo
accontentare perché i tre precedenti esprimono l’essenziale della discussione
in corso tanto ricca di buoni propositi quanto, credo di poter dire, “fuori
misura”. Posta su quel piano, infatti, la riflessione resta assai lontana dalla
radice più profonda del problema. Non mette in discussione l’essenziale. Che
non può essere ridotto all’arroganza monopolistica di queste imprese planetarie
senza chiamare in causa la loro sostanza capitalistica. L’antitrust o
l’Authority per la difesa della privacy non sono altro che pallidi palliativi,
peraltro impotenti vista la radicalità dell’espropriazione di dati sensibili
che aziende come Google, Microsoft, Facebook e Amazon da almeno vent’anni
portano avanti disdegnando platealmente le tiratine d’orecchie dei benevoli
Stati d’Occidente. Inoltre, se mai si potesse porre la museruola alla smisurata
ambizione di addentare dati e di incrementare le posizioni di dominio
dell’oligarchia digitale non per questo si riuscirebbe a incidere sul codice
sorgente del rapporto di produzione capitalistico. Questa è da sempre
l’illusione delle democrazie liberali e delle socialdemocrazie europee in tutte
le versioni storiche che negli ultimi cento anni hanno assunto. Ed è da sempre
anche una illusione sconfitta. Ma l’obiezione può essere spinta perfino più a
fondo. Essa non tiene conto, infatti, del mito originario su cui poggia il web.
Quel mito autorevolmente rilanciato di recente da Tim Berners-Lee – l’inventore
del WEB – quando, riferendosi alla legge poi approvata dal Parlamento
australiano per far pagare a Google e a Facebook i collegamenti che consentono
la visualizzazione delle notizie pubblicate dai media cartacei ha voluto
ribadire il principio fondamentale del suo credo: la libertà assoluta di
collegarsi senza alcun vincolo o pedaggio sul web; principio che se venisse
anche solo scalfito, egli ha detto, farebbe precipitare il web nel disastro.
Insomma, senza questa possibilità per chiunque di linkare liberamente “il web ne
uscirebbe minato alla radice” [NOTA 11]. Come si permettono dunque gli
staterelli locali del pianeta e i sostenitori a vario titolo delle museruole
d’insistere su questo punto? Secondo questa mitologia delle origini,
apparentemente libertaria, imporre vincoli ai link di condivisione delle news
comporterebbe una minaccia per i diritti degli avatar che popolano il
continente virtuale e per l’immensa rete delle reti costituirebbe una malattia
mortale. In effetti, come abbiamo visto in Australia il blocco dei link
colpisce un po’ tutti ma sono anzitutto e soprattutto i frequentatori singoli
delle piattaforme e i piccoli editori ad essere penalizzati perché i gruppi
monopolistici tra loro trovano quasi sempre il modo di venire a patti
stipulando accordi commerciali di reciproca convenienza. E, quando non li
trovano, il pesce grosso si mangia con piacere quello più piccolo. D’altra
parte, piaccia o non piaccia a Tim Berners-Lee, che i colonizzatori del web
abbiano creato i più grandi monopoli mai esistiti sul pianeta e proprio da
questa sua mitologia traggano gli argomenti per legittimare gli enormi profitti
ricavati è un dato di fatto. La malattia mortale del web in questa prospettiva
non è portata dai governi che cercano in modo dopo tutto assai delicato di regolamentare
in qualche modo lo strapotere delle piattaforme, bensì è la radice
capitalistica che fin dalla loro origine ne costituisce il codice sorgente. In
una tale cornice la risposta alla terza domanda cammina sulla corda dei
funamboli senza rete. Un solo passo falso e si va giù. La libertà di link e di
parola sotto il monitoraggio permanente di algoritmi censori – e perfino di
“moderatori di contenuti”, lavoratori umani a contratto precario – vista
l’incertezza degli attuali algoritmi nel saper distinguere con chiarezza
intenzioni e significati attribuiti alle parole dei post, ai messaggi e alle
immagini, dagli iscritti alle piattaforme e dagli inserzionisti, ricorda molto
la condizione carceraria dove per far fronte alla censura i detenuti più
presenti a sé stessi nel migliore dei casi finiscono per imporsi
consapevolmente l’autocensura permanente. In entrambi i casi, del resto, la
comunicazione avviene in un contesto obbligante e, francamente, sottoporre la
propria parola al carceriere, agli algoritmi censori di Google-Facebook-Twitter
o ai loro “moderatori di contenuti”, non fa proprio alcuna differenza. Ciò che
agli uni o agli altri non nuocerà verrà lasciato libero di circolare, ciò che
invece in qualche modo verrà ritenuto nocivo genererà conseguenze. Ma rispetto
al carcere la sorveglianza delle piattaforme è anche peggiore. Esse, infatti,
si approprieranno comunque di tutti i dati in esse riversati. D’altra parte, è
anche vero che attualmente la quasi totalità della comunicazione politica
avviene ormai proprio su quelle piattaforme ovvero all’interno di quella che
potremmo chiamare l’area di sorveglianza e di tolleranza della “grande élite”
digitale. Il che ci chiede di spendere ancora due parole sull’Intelligenza
artificiale.
Intermezzo: dalle grandi élite
alla Intelligenza Artificiale
Nel 1956, Charles Wright Mills, in un saggio
sociologico molto acuto [NOTA 12] cercò di mettere in evidenza il modo in cui
le forze motrici del capitalismo industriale – oligarchie digitali,
finanziarie, militari e politiche – intrecciavano le loro relazioni strategiche
in luoghi non dichiarati e sovranazionali. In quei luoghi le “grandi élite del
potere” maturavano i loro confronti e le loro decisioni invisibili; i contenuti
forti della loro azione egemonica. Inutile dire che quel metalivello di
ingegnerizzazione delle dinamiche sociali restava coperto allo sguardo dei
cittadini e per chi poteva avere accesso a quei confronti non era conveniente
farne parola altrove.
Anche ai nostri giorni le “grandi élite” del
capitalismo digitale planetario continuano a intrecciare relazioni indicibili
tra sé e con governi o Stati ma, a differenza degli anni in cui scriveva Mills,
la catena di comando trova oggi nuove linee di occultamento e si disperde in
quel complesso sistema che l’etichetta Intelligenza Artificiale indica e
nasconde. Tanto per evitare equivoci di ascendenza heideggeriana va chiarito
allora che di quel complesso l’oligarchia digitale ha saldamente in pugno i
brevetti e il monopolio delle intenzioni oggettivate nei dispositivi.
L’Intelligenza Artificiale, debole o forte che sia, in altri termini, non
manifesta un “dominio della tecnica” ma trasmette, come sempre è stato nelle
società capitalistiche, gli interessi e le intenzioni dei magnati di Big Tech e
dei loro azionisti. I dispositivi sistemici dell’Intelligenza artificiale,
intendo dire, non stanno affatto rendendosi autonomi dalla gestione umana.
All’origine della loro operatività troviamo ancora, come sempre, matematici,
informatici, ingegneri sociali e, prima ancora, consigli di amministrazione,
azionisti e padroni (parola abbandonata ma più che mai attuale). Detto questo,
è anche vero però che il grado di autonomia relativa dei sistemi di
Intelligenza artificiale oggettivati sta guadagnando giorno dopo giorno
terreno; e che la loro operatività ordinaria tende a eliminare via via un
numero crescente di intermediazioni umane. Quando ci rechiamo a un bancomat,
chiediamo consigli a un navigatore, scegliamo un film su Netflix, clicchiamo
like, lanciamo tweet, scriviamo mail, poniamo “query” a Google, tra noi e la
risposta gli umani sono assenti. Oggi, per farla breve, le “grandi élite” si
stanno oggettivando nei nostri dispositivi personali, negli smartphone e negli
iPhone che maneggiamo compulsivamente e, sotto forma di algoritmi, dal loro
interno, mentre amichevolmente ci assecondano o ci consigliano, inoculano nelle
nostre identità di connessione un quid di quell’intenzionalità
capitalistica di cui sono espressione. Ecco, questa gestione disciplinare degli
umani digitalizzati mediante l’intelligenza artificiale disseminata, come ha scritto
Miguel Benasayag, mentre annuncia il ritorno del totalitarismo [NOTA 13] ma in
una veste nuova, procede alla distruzione sistematica di un grande numero di
ambiti relazionali. E, nel quadro della nostra riflessione, questa distruzione
ha di mira anzitutto proprio quello che un tempo veniva percepito come “spazio
pubblico”. Si tratta infatti di una distruzione per annessione: per acquisirne
i luoghi, sussumerli nella dimensione digitale riproposta in una nuova versione
scorporata, de-umanizzata e virtuale, per seminare gli standard di una nuova e
automatica obbedienza. Con tutto ciò la nostra ormai esangue libertà di
decisione – quello spazio di libertà che Hannah Arendt ha messo a fondamento
della nozione stessa di libertà – dovrà ora sempre più confrontarsi.
Contro la colonizzazione dello
spazio pubblico
La colonizzazione dello spazio pubblico da
parte delle aziende digitali private, se solo rivolgiamo lo sguardo ai luoghi
d’incontro effettivi, si mostra ai nostri occhi sia come mancanza di luoghi reali
garantiti dalle istituzioni e utilizzabili dai cittadini reali per
socializzare, agire il confronto politico, far musica, teatro, cultura e
quant’altro possa contribuire a produrre intreccio, discussione, coinvolgimento
e costruzione collettiva del tessuto sociale; sia come sublimazione digitale di
questi luoghi, attrezzata con piattaforme private specializzate nella rapina di
ogni genere di dati e nella loro vendita ai mercanti del marketing commerciale
o politico. Una doppia espropriazione in seguito alla quale i nostri corpi e le
relazioni di cui si nutrono per soddisfare i loro desideri sociali vengono
radicalmente disconfermati per lasciare spazio all’incorporea leggerezza delle
identità di connessione. Identità, lo ribadisco, oggetto e mira di azioni e di
intenzioni intrinsecamente alienanti. Va detto anche però che un ruolo
rilevante in questa devitalizzazione dello spazio pubblico e del suo
stravolgimento digitale l’hanno assunta quelle figure politiche che in questa
direzione si sono spinte in prima linea. Leader di partiti politici, primi
ministri, capi di Stato. Su Twitter, ad esempio, Donald Trump, prima di essere
bannato “nei quattro anni della sua pre-sidenza ha postato 26.557 tweet, in
media 18 al giorno” [NOTA 14]. Giuseppe Conte, nella sua veste di Presidente
del Consiglio, ha ripetutamente dato i suoi appuntamenti pubblici con i
cittadini dal balconcino di Facebook. Come se per ascoltare le motivazioni dei
suoi DPCM fosse necessario aprirsi un profilo sulla piattaforma americana.
Intendo dire che queste, come molte altre figure pubbliche di primo piano, per
accreditare sé stesse hanno scelto di eleggere le piattaforme digitali private
come spazi pubblici. Non interessano qui le considerazioni personali o
politiche che li hanno spinti a fare questo passo. Quello di cui va preso atto
è che l’hanno fatto e, così facendo, hanno degradato e umiliato la
comunicazione istituzionale e lo spazio pubblico alla condizione di account su
una piattaforma digitale privata.
Certo, in quest’ultimo anno, la chiusura per
decreto di una gran parte dei luoghi pubblici residuali – circoli culturali,
spazi d’incontro, centri sociali, musei, teatri – peraltro bollati come “non
essenziali” o “non vitali”, ha contribuito a rafforzare questa tendenza. Ma
sarebbe un errore ritenere che l’assalto alle piattaforme digitali sia di
questa “emergenza” soltanto una conseguenza. Sappiamo tutti per esperienza
diretta che lo spazio pubblico si va dissolvendo anche per scelta di quei
cittadini che trovano più comodo scambiare messaggi infuocati in un gruppo
WhatsApp, oppure post al vetriolo sulla piattaforma di Facebook o ancora
immagini dissacranti su Instagram, piuttosto che calarsi in carne e ossa nei
luoghi vivi e faticosi del consorzio umano dove la tensione dialogica deve fare
i conti con gli interlocutori in presenza. Come pure sappiamo che post,
messaggi e videoconferenze sulle piattaforme non smuovono di un micron i
rapporti di proprietà, ovvero i rapporti di produzione materiale della vita.
Anzi, li riconfermano come i ricavi e i profitti di Facebook, Twitter, Google,
Microsoft e altri ancora, impietosamente e in modo ostentato sono lì a
dimostrare.
In difesa dello spazio pubblico
La difesa dello spazio pubblico e dei luoghi
pubblici aperti a tutti cittadini e finalizzati all’esercizio del loro
benessere relazionale e del loro diritto di coltivare incontri, confronti,
atti-tudini e progetti, oggi pesantemente minacciato dall’abbandono delle
istituzioni e dal processo di colonizzazione aggressiva trainato
dell’oligarchia digitale chiede ad un tempo una disposizione antropologica e un
immaginario istituente. La prima riguarda la difesa del primato delle relazioni
sociali e interpersonali sulle connessioni digitali; una battaglia contro il
proprio personale e acritico sdoppiamento. Va da sé che in quest’epoca sono gli
stessi contesti istituzionali che ci inducono, quando non ci obbligano, a
operare in prevalenza con le nostre identità di connessione nei luoghi
digitali: lavoro a distanza, didattica a distanza, esami a distanza, conferenze
a distanza e così via. Non è però egualmente scontato che questi luoghi abbiano
la stessa valenza di quelli in cui si affermano e si cimentano le nostre
identità relazionali. La disposizione antropologica di cui parlo è allora
quella che, pur non rinunciando ad operare in connessione, si batte per non
subordinare o perdere il proprio ancoraggio relazionale; perché lì e soltanto
lì la specificità dell’umano vive o muore. L’immaginario istituente, invece, ci
è richiesto dalla presa d’atto del sempre più profondo malessere personale e
dall’accrescersi esponenziale delle disuguaglianze sociali verso cui il modo di
produzione capitalistico, ancor più nella sua fase digitale, ci sta conducendo
e precipitando. Non è vero che l’innovazione digitale porta a maturazione
l’anima progressista del capitalismo. Il progresso dell’Intelligenza
Artificiale, degli algoritmi predittivi, e così via è direttamente
proporzionale al conseguimento delle intenzionalità di profitto e di dominio in
essi oggettivato. Altra cosa è la prospettiva del progresso sociale che oggi si
misura sulla nostra capacità di acquisire coscienza delle istituzioni, degli
ambienti e dei contesti che ci attraversano e dai quali dipendiamo, così come
dal nostro impegno in prima persona nell’azione di gruppo per trovare insieme
vie di fuga e di emancipazione dall’atomizzazione digitale e burocratica che ci
paralizza.
NOTE
1 Sreenath Sreenivasan intervistato da Jaime D’A-lessandro; Repubblica,
10/01/21
3 All’inizio di gennaio il governo ugandese ha bloccato l’accesso a
Facebook e ad altre piattaforme accusandole di consentite la manipolazione del
processo elettorale in corso. A elezioni avvenute le piattaforme oscurate sono
state riaperte, ma non quella di Facebook.
4 Nel Myanmar, Facebook ha disattivato profili e pagine dei
sostenitori dei generali che il 1 febbraio avevano assunto con un atto di forza
il potere dello Stato. E questi, pochi giorni dopo, hanno limitato a loro volta
gli accessi a Facebook
5 Spagna: il 16 dicembre 2014 Google aveva indirizzato agli utenti
spagnoli questo messaggio: “Google News ha chiuso in Spagna (…), in seguito ai
recenti cambiamenti nella legislazione spagnola, le pubblicazioni degli editori
spagnoli non compaiono più in ‘Google noticias’”.
7 Kewin Carboni, Wired, 16/03/21: https://www.wi-red.it/attualita/media/2021/03/16/facebook-austra-lia-murdoch-news-corp-notizie/?refresh_ce=
8 Repubblica, 1/11/21
9 Massimo Cacciari, Agenzia Adnkronos, 8/01/21
10 http://vocidallestero.blogspot.com/2021/01/zin-gales-il-colpo-di-stato-silenzioso.html
11 https://www.theguardian.com/media/2021/jan/20/australias-proposed-media-code-could-break-the-world-wide-web-says-the-man-who-invented-it;
Carlo Bonini (a cura di), La guerra mondiale delle News, Longform,
Rep, 7/03/21
12 Charles Wright Mills, The Power Elite, Oxford, University
Press, New York, 1956.
13 Miguel Benasayag, La tirannia dell’algoritmo, Vita e
pensiero, 2020
14 Enrico Pedemonte, Trump e i social asociali; in Limes 1-2001
(*) testo ripreso da “Su la testa” di
maggio.
da qui
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