Un’onda di indignazione ha percorso il nostro paese
quando sono emerse le terribili circostanze in cui si è consumata ‒ come appare
ormai certo ‒ l’uccisione della giovanissima Saman Abbas da parte dei suoi
familiari. Ha scritto Corradino Mineo: «Una ragazza è stata strangolata, il suo
corpo nascosto, perché voleva vivere e amare. Trovo imperdonabile tacere […]
Bestie spietate l’hanno uccisa. Bestie con un attributo maschile tra le gambe,
che invocano tradizione e religione per affermare il loro potere. Scovarle e
arrestarle».
Non c’è dubbio che i campioni di ferocia e di viltà
che hanno spento per sempre il sorriso di questa ragazza che chiedeva solo di
vivere e amare come tutte le sue coetanee, debbano essere scovati e sottoposti
ai rigori della legge. Però, per quanto siano vituperabili i parenti assassini,
questo delitto è tanto più inquietante perché non è frutto soltanto di devianza
individuale, cioè della malvagità dei suoi autori, ma è maturato in un contesto
culturale che ha legittimato, giustificato e incoraggiato la furia omicida. Non
a caso il Gip parla di uccisione «per punirla dell’allontanamento dai precetti
dell’Islam e per la ribellione alla volontà familiare».
È la stessa sorte che è capitata prima di lei alla
ventenne Hina Saleem sgozzata dal padre e dai cognati, e seppellita nel
giardino di casa, l’11 agosto del 2006, perché – come riferì la madre ai
Carabinieri – «non si comportava da brava mussulmana». Hina non solo aveva
rifiutato ogni proposta di matrimonio forzato, ma aveva gettato il
disonore sulla sua famiglia iniziando a convivere con un giovane
italiano. Per questo doveva essere punita.
In entrambi i casi i familiari assassini hanno agito
con la convinzione di adempiere un dovere imposto da una norma religiosa, cioè
dalla loro cultura. Qui si pone un problema grave. Mentre i singoli che
delinquono possono essere intercettati e fermati nel loro percorso criminoso,
non si può arrestare una cultura. Quello che è successo in queste due famiglie
pachistane può verificarsi di nuovo se migliaia di persone condividono la
stesse paranoie. D’altro canto la convivenza di nuclei etnici portatori di
tradizioni radicate e ancestrali con una società aperta è destinata a produrre
delle turbolenze nei nuclei stessi perché i giovani sono portati a non
accettare più quelle tradizioni che ostacolano la loro libertà di
autodeterminazione e ciò porta a una crescita delle violenze nelle famiglie.
Viviamo in una società necessariamente multiculturale
e il rispetto del pluralismo spesso viene tacciato di relativismo etico dai
sovranisti che vivono come una sciagura la convivenza di differenti culture,
frutto della presenza di differenti gruppi etnici nel nostro paese. In realtà
la compresenza di differenti religioni e di differenti culture può essere un
valore e fonte di arricchimento della società nel suo complesso, ma le
differenze non sono conviviali di per sé.
Sono la politica e il diritto che rendono le
differenze virtuose o conflittuali. A questo riguardo dobbiamo osservare che la
Costituzione italiana ci ha fornito il criterio per accordare le differenze: la
laicità. La laicità, principio supremo della Repubblica, si fonda su un valore
non negoziabile, impermeabile a ogni relativismo culturale: la dignità
inviolabile di ogni persona. Ogni persona concreta, in carne e ossa è un valore
insormontabile: nel nostro ordinamento, tutte le religioni e tutte le culture
sono libere ma nessuna può incidere sulla libertà e sui diritti fondamentali di
ciascun uomo e di ciascuna donna. Questo significa che la Costituzione italiana
ha tagliato le unghie a tutti i fondamentalismi e ha scardinato l’onnipotenza
delle religioni che non possono più sovrapporre i loro precetti ai diritti e
alla dignità di ciascuno. C’è bisogno di una pedagogia della Costituzione e c’è
bisogno che le differenti culture siano sempre più esposte a un processo di
contaminazione. Bisogna evitare che si creino dei ghetti in cui alcuni gruppi
sociali vivono chiusi nelle loro tradizioni senza dialogare con il mondo
esterno e la laicità è il passpartout che consente di rompere il
muro dell’incomunicabilità. Se vogliamo evitare che si ripetano le tragedie di
Saman e di Hina.
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