100 ANNI FA IL MASSACRO RAZZIALE DI TULSA - Claudio Geymonat
Fra il 31 maggio e il 1° giugno 1921, cento
anni fa, nella città di Tulsa in Oklahoma, si compì
uno dei peggiori episodi di violenza razziale nella storia degli Stati Uniti, a
lungo poco conosciuto visti i grandi sforzi messi in atto per mettere a tacere
le voci che intendevano raccontare un massacro costato la vita a centinaia di
persone e la distruzione di migliaia di abitazioni.
Tulsa aveva all’epoca centomila abitanti,
diecimila dei quali afroamericani confinati nel prospero quartiere di
Greenwood. Il 30 maggio in città si diffonde la notizia di una presunta
violenza sessuale perpetrata da un ragazzo di colore a una giovane bianca,
violenza mai provata. Al calar della sera una folla inferocita si riunisce
all’esterno del carcere cittadino in cui il ragazzo è stato relegato, con la
volontà di linciarlo. L’isteria collettiva cresce e si scatena una violenza
inaudita, una caccia all’uomo degna del far west. Secondo una
stima successiva furono bruciate 1256 abitazioni di afroamericani, altre 215
furono saccheggiate. Vennero distrutti un ospedale, una scuola, due giornali,
varie chiese, negozi e molte altre attività. Il governatore Robertson istituì
la legge marziale e venne inviata in Oklahoma la Guardia Nazionale.
Nelle ore successive tutte le accuse contro il
giovane furono ritirate.
L’Oklahoma Bureau of Vital Statistics ha
registrato ufficialmente 36 morti. Tuttavia, vari storici stimano che il
bilancio delle vittime potrebbe essere stato di molto superiore, di 300 unità,
mai denunciate o mai registrate.
Negli anni a venire, mentre i Black
Tulsans lavoravano per ricostruire le loro case e attività
commerciali in rovina, la segregazione in città aumentò e il nuovo ramo del
KKK, il Ku Klux Klan dell’Oklahoma crebbe in forza. Per decenni, non ci furono
cerimonie pubbliche, memoriali per i morti o qualsiasi tentativo di commemorare
gli eventi del 31 maggio-1 giugno 1921. Invece, ci fu uno sforzo deliberato per
insabbiarli.
Il Tulsa Tribune, il principale
giornale locale, ha rimosso dai suoi volumi rilegati la prima pagina del 31
maggio che aveva contribuito in maniera determinante a scatenare il caos in
città, cavalcando con forza la notizia dello stupro, e gli studiosi hanno
scoperto che mancano anche notizie negli archivi della polizia e della milizia
statale. Di conseguenza, fino a poco tempo fa il Tulsa Race Massacre è
stato raramente menzionato nei libri di storia, insegnato nelle scuole (compare
nei testi dei libri di testo solo dal 2009) o addirittura ricordato.
Gli studiosi iniziarono ad approfondire la
storia della rivolta negli anni ’70, dopo che era trascorso il 50° anniversario.
Nel 1996, in occasione del 75° anniversario della rivolta, si tenne una
funzione presso la Mount Zion Baptist Church, che i rivoltosi avevano raso al
suolo, e fu collocato un memoriale di fronte al Greenwood Cultural Center.
L’anno successivo, dopo la nomina di una commissione ufficiale del governo
statale per indagare su quei fatti, scienziati e storici hanno iniziato a
esaminare le vicende, comprese l’analisi delle numerose vittime sepolte in
tombe senza nome.
Nel 2001, il rapporto della Race Riot
Commission ha concluso che tra 100 e 300 persone sono state uccise e
più di 8.000 persone sono rimaste senza casa in quelle 18 ore di follia
collettiva.
La commissione ha raccomandato che lo stato
e la città di Tulsa risarcissero i sopravvissuti al massacro e i loro
discendenti. Una campagna per la giustizia legale costituita nell’aprile dello
stesso anno, la Tulsa Reparations Coalition, iniziò a guadagnare
risalto nazionale. Nel 2003, un team legale composto da eminenti leader dei
diritti civili ha intentato una causa civile, Alexander v. Oklahoma, contro la
città di Tulsa, il dipartimento di polizia di Tulsa e lo stato dell’Oklahoma
per conto di oltre 200 sopravvissuti e discendenti di vittime del massacro. Il
distretto federale e le corti d’appello dell’Oklahoma hanno respinto le
richieste perché i reati erano caduti in prescrizione.
La chiesa metodista afroamericana Vernon di
Tulsa è uno degli attori che hanno presentato una querela per chiedere alla
città e ad altri imputati federali di risarcire i parenti delle vittime.
La Vernon, fondata nel 1905, è l’unica chiesa
rimasta parzialmente in piedi durante la caccia all’uomo.
Il pastore della chiesa Vernon, Robert
Turner, arrivato in città nel 2017 , è d’accordo con tutte le
raccomandazioni della commissione e spera in un’indagine penale completa. La
sua petizione per le riparazioni è stata firmata da più di 26.000 persone.
Robert Givens è pastore della Christ Temple Christian Methodist Episcopal
Church, una congregazione fondata a Greenwood ma che dopo i fatti del 1921 si è
trasferita. La sua costruzione originaria era ancora nuova quando fu distrutta
nel massacro.
«Non è mai stato fatto nulla per le vittime e
i loro parenti», ha detto alla stampa in questi giorni.
Alcuni di coloro le cui famiglie sono
sopravvissute al massacro sono diventati figure chiave nella storia nera della
città. Il defunto John Hope Franklin, il famoso storico, era un membro di
Christ Temple, e suo padre, l’avvocato B.C. Franklin, ha contribuito a
estinguere l’ipoteca della chiesa sull’edificio in mattoni costruito dopo il
massacro.
Jim Winkler, presidente e segretario generale del Consiglio
nazionale di chiese cristiane negli Stati Uniti ha ricordato:
«Sono nato in Oklahoma e ho ancora una famiglia lì. I miei nonni hanno vissuto
appena fuori Tulsa dagli anni ’50 agli anni ’80. Ma non ho mai sentito una
parola sugli eventi del 1921. Tuttavia, appena due anni prima c’è stato un
altro massacro di neri intorno a Elaine, Arkansas nel 1919. A quel tempo, mio
nonno, allora adolescente, viveva a circa 40 miglia di distanza, a DeWitt. È
facile per i bianchi pensare a tali eventi come a una storia antica a cui non
hanno alcun collegamento, ma a volte se ci si ferma a considerare vari fattori:
dov’era la mia famiglia a quel tempo? Quali atteggiamenti razziali avevano?
Potrebbero aver sentito parlare di questi terribili incidenti? Ne hanno
discusso con la famiglia e gli amici? Come li ha formati e cosa hanno
raccontato ai loro figli di quei giorni? Sono abbastanza certo che mio nonno,
un devoto razzista, non abbia raccontato ai suoi figli di quei massacri. Dubito
che fosse infastidito da quello che è successo, ma grazie a mia nonna e
all’influenza della sua fede e del suo coinvolgimento nelle United Methodist
Women, i suoi figli sono diventati tutti devotamente antirazzisti e hanno
trasmesso quell’eredità a me, ai miei fratelli e ai nostri figli. Spero che in
ogni casa si possa parlare di simili tragedie per dirsi “Mai Più”».
(*) ripreso da riforma.it
TULSA 1921. REALIZZAZIONE E MASSACRO D’UN SOGNO (AMERICANO) - Andrea Sartori
Esattamente un secolo fa, un intero quartiere
(Greenwood) abitato da circa 10.000 afroamericani nella città di Tulsa, in
Oklahoma, venne dato alle fiamme, causando morti e devastazione. Gli aggressori
erano una folla inferocita di uomini bianchi, risentiti e insofferenti del
fatto che una popolazione di colore avesse raggiunto, tramite l’impegno e il
lavoro, un livello di prosperità economica e sociale superiore al loro. A neanche
sessant’anni dall’abolizione della schiavitù (1865), Greenwood era infatti
conosciuta come l’America’s Black Wall Street.
In un lungo reportage interattivo e a
più mani del 24 maggio 2021,[1] il
New York Times sottolinea come, per la white mob di Tulsa, il
colore scuro della pelle non potesse combinarsi con una condizione di
benessere. La violenza dei bianchi infuriò per due giorni, dal 30 maggio all’1
giugno, diede alle fiamme 35 isolati e più di 1.250 abitazioni, uccise 300
persone poi sepolte in fosse comuni, distrusse chiese, negozi, banche e altre
fiorenti attività commerciali. La dinamite lanciata dagli aerei in volo,
secondo gli storici, rappresenta il primo attacco dal cielo sul suolo
statunitense, il precedente – per mano americana – di Pearl Harbor e dell’11
settembre. All’atroce danno si sommò la beffa, quando i residenti di colore,
accusati d’aver incitato le sommosse, vennero detenuti in campi di prigionia.
Dopo che per 80 anni il massacro di Tulsa ha
galleggiato in una zona grigia della coscienza tra memoria,
inconsapevolezza e rimozione, lo State Commission Report del 2001 ha
quantificato in 27 miliardi di dollari odierni i danni economici di un massacro
che ha alterato per sempre le storie famigliari d’una intera città.
Nel 1921, gli Stati Uniti persero l’occasione di
sviluppare una storia possibile. Una storia che, anzi, era già la realizzazione
dell’American dream: la messa in opera, perfettamente riuscita, d’un
sogno d’integrazione e successo personale e imprenditoriale, da parte di ex schiavi
e di loro discendenti, nel cuore del Nord America.
Nella sua inchiesta, il New York Times insiste nel
mettere l’accento non sulla questione identitaria della blackness di
per sé, ma sul successo economico del quartiere di Greenwood. In questo modo il
giornale mostra che quella del massacro non era una comunità incline a
vittimizzarsi, a identificarsi con un passato d’oppressione e sfruttamento e ad
appiattirsi su di esso. Tutt’altro: i neri di Greenwood incarnavano i tratti
migliori del sogno americano, quelli dell’iniziativa e dell’entusiasmo. Questi
tratti non erano più accompagnati, nel caso degli anni d’oro di Greenwood, da
violenza, schiavitù e segregazione razziale, ovvero da ciò che, in linea con il
genocidio delle popolazioni indigene, costituisce l’origine stessa degli Stati
Uniti (Roxanne Dunbar-Ortiz, An Indigenous Peoples’ History of the
United States, Beacon Press, Boston, 2015). Nell’analisi di Dumbar-Oritz,
infatti, la vera fondazione degli USA entra in dissonanza con le retoriche
della scoperta e della conquista di terre ‘selvagge’, ma anche con la narrativa
dell’indipendenza dei coloni e della loro presunta missione civilizzatrice.
Quelle retoriche e quella narrativa hanno definito e definiscono il
racconto mainstream riguardo alla genesi degli USA e al ruolo
che essi hanno poi avuto a livello internazionale.
Ebbene, all’inizio del ‘900, la comunità afroamericana
fiorita intorno a Greenwood Avenue nella città di Tulsa aveva efficacemente
sfatato, per almeno due decenni, un destino che la voleva vittima delle
circostanze della propria origine. Questo non ha impedito che, l’1 giugno 1921,
quella comunità dovesse piegarsi a una violenza e a un razzismo i quali, da
tratto originario della fondazione d’uno Stato, sono divenuti elemento strutturale d’una
forma di vita.
Il New York Times ha intervistato i famigliari delle
vittime di Tulsa e Star Williams, 40 anni, nipote di Otis Grandville Clark, 18
anni all’epoca del massacro, sottolinea che suo nonno “spesso parlava di come
ci si potesse godere la vita a Greenwood, e di come tutto quello di cui si
aveva bisogno fosse presente nel quartiere […]. Il nonno diceva che il successo
dei neri era visibile e che il senso della sua stessa identità e il suo
orgoglio provenivano proprio da Greenwood”.
Quel che è sorprendente, in racconti come questo, è
che l’identità dei neri non viene radicata dalle
stesse persone di colore innanzitutto in un passato ancestrale, nel mito d’una
terra e d’una cultura da difendere, ma in un presente operoso. Il presente, per
Grandville Otis, era quello di un luogo nel quale i suoi avi erano stati
deportati, ma che a quel punto, nel 1921, era vissuto come accogliente, come
serbatoio di opportunità. Il massacro di Tulsa andò pertanto ad attaccare
proprio questa modalità positiva e aperta del pensare, ormai estranea alla
mitologizzazione reattiva del passato e dell’origine, e quindi
autenticamente progressiva.
La storia di Tulsa ci dice qualcosa d’importante per
l’oggi, perché mette in evidenza come la fuoriuscita dalla povertà sia il
principale mezzo di contrasto alla subalternità, molto più di campagne
identitarie astratte, che spesso se lasciate a sé stesse trascurano i problemi
reali e non divisivi. Questi ultimi sono comuni a interi gruppi d’individui e
sono indipendenti dall’origine etnica, dal sesso, dall’identità di genere e
culturale: il lavoro, la sanità, l’istruzione sono tutti aspetti della vita
ordinaria ai quali dà accesso uno status economico-sociale
decente, come quello degli abitanti di Greenwood prima del massacro.
Da tale punto di vista, l’elezione e l’insediamento di
Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti hanno fornito segnali ambivalenti.
Le perplessità riguardano, come spesso accade nelle società televised,
la modalità spettacolare della comunicazione politica, che sembra concentrarsi
sugli effetti sensazionali dei messaggi e meno sui contenuti reali.
Il 20 gennaio 2021, venti giorni dopo i tragici fatti
di Capitol Hill, sul lato ovest della stessa Capitol Hill s’è
svolta infatti la cerimonia per l’incarico del nuovo presidente. Questi ha
invitato l’afroamericana di Los Angeles Amanda Gorman a leggere una propria
poesia, The Hill We Climb. Con questo gesto, in una cornice non
poco hollywoodiana, Biden ha inteso ribaltare, in una sede istituzionale, le
dinamiche escludenti del razzismo. Gorman non solo è di colore, ma è anche la
più giovane poetessa e attivista di sempre scelta per questo ruolo. I lavori di
Gorman, inoltre, trattano di oppressione, femminismo, razzismo, emarginazione e
il loro venire ora in primo piano è – almeno nelle intenzioni manifeste e pubblicizzate –
un segnale di rottura rispetto a un tipo di mentalità che per cento anni ha
relegato un fatto come quello di Tulsa in un punto cieco della coscienza a
stelle e strisce.
Alcune polemiche sono però sorte quando, a seguito del
successo ottenuto da Gorman a Capitol Hill e quindi in tutti gli Stati Uniti,
la casa editrice e la poetessa hanno ritirato i diritti di traduzione in Europa
di The Hill We Cilmb, inizialmente concessi a una traduttrice per
l’olandese e a un traduttore per il catalano. Le motivazioni addotte per il
ritiro dei diritti sono state che la traduttrice non era una donna di colore e
che il traduttore era un uomo bianco, non più giovane. L’assunto implicito alla
base di queste decisioni, è che solo una giovane donna di colore può tradurre
il testo d’una giovane donna di colore, in virtù d’una immediata similarità
delle rispettive esperienze di vita, in virtù, cioè, della loro reciproca identificazione.
La traduzione, si potrebbe tuttavia replicare, esiste perché è un tentativo
di commensurare l’incommensurabile, di trovare un’altra lingua
che getti dei ponti tra le culture anziché ribadire la medesimezza dell’identità.
Naturalmente, per quanto riguarda gli Stati Uniti, il ritiro dei diritti di
traduzione è più che comprensibile se si considera quanto è accaduto a seguito
delle ricorrenti violenze perpetrate dalla polizia a danno degli afroamericani,
sino all’evento simbolo dell’uccisione di George Floyd il 25 maggio 2020 a
Minneapolis.
Ci si deve quindi esonerare dal pensare criticamente
il nesso tra identità e politica, e tra politica e spettacolarizzazione dei
messaggi istituzionali?
Forse no. Va allora notato che, sull’onda del significato politico-sociale che
la figura di Gorman ha rapidamente assunto dopo la cerimonia a Capitol Hill,
Vogue Magazine ha deciso di dedicare a Gorman la sua copertina del numero di
maggio 2021. La foto è stata scattata da Annie Leibovitz ed è titolata: The
rise and rise of Amanda Gorman. Poet, activist, phenomenon.
La parola phenomenon fa riflettere, poiché è coerente con il
tratto spettacolarizzato e hollywoodiano della stessa cerimonia d’insediamento.
Nella fotografia multicolore di Leibovitz, in cui il colore della pelle di
Gorman risalta tra quelli accuratamente scelti e sgargianti dei suoi vestiti e
dello sfondo esotizzante, è infatti la dimensione manifestativa (fenomenica)
della percezione a essere valorizzata. Il mondo fashion lancia
cioè il messaggio che la molteplicità dei colori che s’offrono alla percezione,
è quel che rende bella la multiculturalità americana, la quale è presentata
innanzitutto come una questione di sollecitazione percettiva, una
sollecitazione che per di più evoca, con il tratto esotico della cover di
Vogue, l’origine africana di Gorman. La copertina, tramite il colore verde
brillante dell’abito immortalato da Leibovitz, sembra anche alludere a una
svolta green o eco della nuova
amministrazione. In tutto ciò non v’è ovviamente spazio per soffermarsi sul
gesto paternalistico e fors’anche patriarcale di Biden (la scelta strategica
d’una giovane afroamericana per il reading dell’insediamento),
men che meno per i dubbi sul rapporto tra politiche identitarie e traduzione.
La percezione d’un evento sensazionale (‘fenomenale’), infatti, sostenuta da
una solida cultura dell’immagine e dall’inclinazione per le narrazioni edificanti,
è più immediata, più d’impatto, più eloquente d’ogni altra cosa.
La sensazionalità d’una cerimonia e della copertina d’un magazine prestigioso
non è però sufficiente ad andare incontro alle esigenze d’una popolazione
strutturalmente sottoprivilegiata. Quella sensazionalità non è abbastanza
per fondare nella realtà le speranze di cambiamento di molti
americani, i quali cercano rassicurazioni sul piano del lavoro, della salute,
dell’istruzione, un tipo di rassicurazioni che gli abitanti di Greenwood erano
riusciti a ottenere tramite condizioni favorevoli di prosperità e tramite il
proprio lavoro.
La politica di Biden per fortuna non è tutta nell’evento di Capitol Hill, ed è
proprio questo fatto a far ben sperare, molto più della spettacolarizzazione,
di per sé, del colore della pelle, una spettacolarizzazione che rimane
confinata al piano ineffettuale della percezione.
L’American Rescue Plan Act è d’altra natura e Simon
Kuper sul Financial Times (15 aprile 2021) ha osservato che i
suoi duemila miliardi di dollari servono non tanto alle battaglie identitarie,
ma a frenare davvero il cambiamento climatico e soprattutto a sostenere
l’economia e il lavoro, con inevitabili vantaggi anche riguardo alla diversity etnica.
Quindi: Forget Idenity Politics: Economics Is What Matters Now.
Kuper, d’altra parte, evidenzia che il motivo per cui gli afroamericani vivono
in media sei anni in meno dei loro compatrioti, non è l’orribile violenza di
cui la polizia ha dato troppe volte prova, ma la povertà. Questa
richiede una spesa pubblica funzionale a tagliarla, come nella proposta di
legge di Biden.
Lavoro e lotta alla povertà sono temi che non hanno il
potenziale divisivo e identitario della mera percezione dell’altro.
Al di là di come percepiamo qualcuno, v’è chi quel qualcuno è.
Una politica comune e davvero non razzista dovrebbe attingere
questo chi, ovvero una dimensione dell’esperienza in cui ognuno può
vedere anche tratti di sé stesso a dispetto delle proprie, soggettive,
percezioni e delle proprie origini culturali: a dispetto, cioè, della
propria identità – la quale, come ogni identità, è
irriducibile e in fondo apolitica.
Se così non fosse, il bel sogno di Amanda Gorman
pubblicizzato da Vogue e subito amplificato su Instagram, non sarebbe tale
anche per chi non è stato invitato a Capitol Hill il 20 gennaio di quest’anno –
inclusi tutti gli altri afroamericani, i discendenti delle popolazioni
indigene, gli asiatici, i latinos, le minorities di
diversa provenienza, i bianchi poveri.
[1]https://www.nytimes.com/interactive/2021/05/24/us/tulsa-race-massacre.html?utm_source=pocket-newtab
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