Da neo-nonno a volte ho il grande piacere di prendermi
cura per qualche ora della mia nipotina di due anni Tia. Ma, come si sa,
tutte le cose belle devono finire. Mia figlia, la madre di Tia, stava
aspettando che il nonno riportasse la bambina a casa. Ho messo il seggiolino
in macchina, ce l’ho assicurata e ho guidato da Beit Safafa dov’è la mia casa
verso Sheikh Jarrah, dove vivono mia figlia e suo marito.
All’ingresso del quartiere
di Gerusalemme Est, sono arrivato a un posto di blocco. Mi sono fermato e ho abbassato
il finestrino. Un agente di polizia si è avvicinato a noi. Non appena
si è avvicinato alla finestra, Tia ha iniziato a gridare: “Nonno, chiudi la
finestra”. Ha urlato come se un mostro si fosse avvicinato a lei. Ho parlato
con il poliziotto, sicuro che lui fosse in grado, come qualsiasi altra persona,
di sentire e riconoscere l’intera gamma delle emozioni umane. Gli ho spiegato
che stavo riportando mia nipote a sua madre.Tia continuava a chiedermi di
chiudere la finestra.
Il poliziotto ha risposto con la freddezza e
l’arroganza di chi è abituato a controllare la vita degli altri, e mi ha detto
che dovevo tornare indietro, che non mi era permesso entrare nel quartiere, che
non mi avrebbe lasciato passare.
Ho cercato di fare appello alla sua umanità, ma non si
è mosso. Ha voltato le spalle e ha cominciato a parlare al
telefono. Durante l’ora in cui sono stato lì ad aspettare, i coloni ebrei
entravano e uscivano dal quartiere senza alcun problema. Non appena
arrivavano al posto di blocco, venvano lasciati passare. Solo
loro. Signori della terra e del quartiere.
Ho aspettato in macchina. C’erano diversi agenti
armati della polizia di frontiera in giro. Dopo che il poliziotto ha terminato
la sua telefonata, ho ripetuto la mia richiesta, ma lui ha continuato a
insistere, con lo stesso tono freddo e arrogante, che non mi era permesso di
passare. Quando ho alzato la voce, chiedendo il mio diritto di passare e
di restituire la bambina a sua madre che l’aspettava a casa, uno dei poliziotti
mi ha puntato contro la sua arma. Tutti quelli che erano al posto di
blocco, circa otto agenti di polizia e personale della polizia di frontiera,
uomini e donne, sembravano pronti a tirarmi fuori dall’auto in qualsiasi
momento, ad attaccarmi e ad arrestarmi. E intanto, la paura e il pianto di
Tia non si sono fermati un momento.
Tia voleva tornare in braccio a sua madre, continuava
a chiedere di sua madre, e io ho provato di nuovo a chiedere di lasciarmi il
diritto di passare attraverso il checkpoint e riportarla a casa. Ma gli
agenti di polizia mi hanno avvertito, tra urla e minacce, che se non me ne
fossi andato, avrebbero dovuto usare la forza contro di me. A questo punto
uno dei poliziotti mi ha ricordato che avevo con me una bambina, quindi era
meglio se mi allontanavo da lì. L’ho ringraziato per la sorprendente
dimostrazione di compassione e gli ho chiesto, in nome di questa stessa
compassione, di lasciare che Tia tornasse da sua madre. Mi è venuta in
mente la storia del cacciatore che aveva catturato una coppia di
uccelli. Mentre stava per ucciderli, un granello di polvere gli entrò
nell’occhio e una lacrima gli scese lungo la guancia. Allora un uccello
disse all’altro: Com’è nobile, piange su di noi dal profondo del suo
cuore. Piangeva mentre affilava il coltello.
Preoccupato per mia nipote, sono stato costretto a
tornare indietro. Ho sentito tutta la rabbia del mondo crescere dentro di
me. Mi sentivo soffocare, facevo fatica a respirare. Ho sentito l’oppressione
e il controllo che milioni di persone soffrono ogni singolo giorno. Ho
sentito cosa significa vivere sotto un regime di apartheid: proprio davanti ai
miei occhi, gli Ebrei continuavano ad entrare nel quartiere, senza
domande. Le porte si aprivano per loro, e solo per loro.
I Palestinesi che vivono a Gerusalemme
vivono ogni giorno con questa realtà. Devono passare la loro vita sotto
l’occupazione e l’apartheid. Pagano un prezzo alto per la loro resistenza,
ma è un prezzo basso rispetto al quotidiano arrendersi alla violenza ufficiale.
Molti Israeliani si comportano come se non lo
capissero, ma non c’è potere al mondo, indipendentemente dal livello di
violenza usato, che possa cancellare un popolo, fargli dimenticare la sua
storia o smettere di difendere la sua esistenza.
Mia nipote sta appena imparando a parlare, ma ha
capito il significato più profondo del checkpoint che le ha impedito di
arrivare a casa sua. Tia ha ricevuto una lezione e ha fatto conoscere i
suoi sentimenti nel modo più chiaro possibile: ha rifiutato che gli altri
controllassero il suo futuro. Sì, controllavano i suoi nonni e controllano
ancora i suoi genitori, ma non controlleranno lei.
Kareem Jubran è direttore di ricerca sul campo presso B’tselem
e portavoce in lingua araba dell’organizzazione.
Traduzione di Donato Cioli –
AssopacePalestina
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