Uno Stato-care che
ci proteggerà da tutto
Abbiamo
calcolato adeguatamente i pericoli politici indotti da questo precedente (il
modo con cui lo Stato in Francia ha risposto alla pandemia, ndr),
al cospetto, stavolta, dell’emergere di un eventuale bio-potere? Non si capisce
infatti perché la premessa secondo la quale la vita è il supremo valore, non ci
condurrebbe passo passo a sacrificare durevolmente (e non più
provvisoriamente) certe libertà sull’altare di uno Stato
sanitario che ci curerà da tutto.
Del resto,
la prima legge votata nella primavera del 2020 è stata la legge Avia,
introdotta per combattere in Internet l’incitamento all’odio, misura di salute
pubblica poi lasciata al “discernimento” e alla discrezione dei gestori delle
piattaforme, da cui il suo carattere a giusto titolo controverso. A seguire, e
sullo sfondo delle manifestazioni contro la violenza della polizia, la
“comunità degli sviluppatori”, altra istanza misteriosa, faceva grottescamente
sapere che intendeva “bannare” dalla Rete certe espressioni (come “lista
nera”), troppo… “razzializzate”, dunque razziste per il palato di tale
comunità. Tra Stato care, vampate messianiche (proteggere i
viventi), masse terrorizzate e sviluppatori virtuosi trasformatisi in
purificatori lessicali allo scopo di vegliare al perfetto igiene del
linguaggio, il nostro avvenire tecnologico è in buone mani.
Per renderci
conto dei pericoli, ci si rivolga ancora una volta alla lezione dei dissidenti.
Eretici isolati, appestati, perseguitati, trincerati nelle loro città parallele
o gettati in prigione nell’indifferenza generale, sapevano molto bene con quale
velocità la paura e la supremazia del viscerale possono
impadronirsi di masse (comuniste o democratiche) animate soprattutto dalla
passione per la sicurezza, l’auto-conservazione e il benessere. Nell’Europa
dell’Est, meglio istruita dalle catastrofi del XX° secolo, i dissidenti avevano
compreso che è sempre in questa passione che le “isterie collettive”, passate
al setaccio dall’ungherese Istvan Bibo, maestro nell’analisi dei populismi,
hanno trovato il loro più fertile terreno1. Se la vita è tutto, la paura e con essa la reattività,
l’incapacità di fare un passo indietro e l’impulso irriflesso, trionfano
fatalmente. Da tali derive possono sottrarsi solo gli animi che decidono di
prendersi “cura” di sé, nel senso indicato da Potočka, ovvero quello di una
resistenza al divorante imperialismo della vita e dei suoi diktat. Ma Bibo, nel
programma dell’incultura tecnocratica trionfante e comunicante, non deve
comparire più de La Barbarie di Michel Henry. Pertanto, in
virtù di quali miracolose salvaguardie lo sviluppo di un partito dell’ordine
sanitario, l’espansione di un neo-igienismo e l’istituzione di una sorveglianza
generalizzata sarebbero da escludere?
Dopotutto, la
fragilità della salute umana rappresenta un’urgenza perpetua suscettibile di
fornire allo Stato l’alibi permanente per un infinito stato
d’eccezione. Bisognerà giusto accettare come evidenze il tracciamento
virtuale e le diaboliche telecamere di sorveglianza a riconoscimento facciale
venute dalla Cina e già sperimentate, qui e là, in Francia. A nome della pace
civile o del bene comune, ovviamente. E ammettere, come abbiamo fatto durante
la pandemia, che il bio-potere esercitato sulla vita dei corpi e delle
popolazioni, possa insinuarsi fin nell’intimità. Non sarà poi così difficile.
[…]
Affidare la
nostra salvezza terrestre a degli algoritmi
Non c’è solo
la questione delle “mani in cui cade la tecnologia” o del grado di consenso,
più o meno informato, della popolazione. Affidare le nostre vite e la nostra
salvezza terrestre alle cure dell’Intelligenza artificiale significherà esporsi
a una più grande minaccia antropologica, finora meno sottolineata. Come non
pensare agli effetti corrosivi degli algoritmi, a lungo termine, su libertà e
responsabilità, due pilastri del mondo democratico in quanto facoltà
propriamente umane? Lasciandoci assistere in tutto e per tutto da
intelligenze artificiali, non rischiamo niente di meno che il deperimento
progressivo del senso di responsabilità e il cedimento di ogni aspirazione alla
libertà.
Dando
priorità ai criteri di prevenzione, precauzione e benessere, probabilmente non
ne ricaveremo che i vantaggi propri della “massimizzazione” del bene collettivo.
Il nostro sistema sanitario potrebbe così appoggiarsi ad algoritmi disponibili
su cellulari e applicazioni, come nei paesi asiatici. E dal momento che in
molti ambiti si riveleranno più performanti dei nostri dottori, non ci sarà
motivo per privarsene a lungo. Con questo sistema integrato, si avrà allo
stesso tempo prevenzione (l’applicazione si farà carico di ricordarci che
dobbiamo sottoporci a esami clinici o check-up), la sintesi dell’insieme dei
nostri risultati e analisi, ma anche una capacità diagnostica e di prognosi mai
raggiunta nella storia della medicina. Questo dispositivo, associato alle
biotecnologie, avrebbe vantaggi immensi. E una volta su una così buona strada,
perché non ispirarsi anche al “credito sociale” in vigore in Cina,
dove tre miliardi di umani si vedono attribuire un punteggio positivo o
negativo in funzione del loro comportamento individuale, giudicato più o meno
virtuoso dallo Stato, anche sul piano sanitario. Almeno, sapremo con chi avremo
a che fare. Quando incroceremo un non-virtuoso, la nostra applicazione ci
avviserà: «Stop-cattivo».
Ne va
dell’esercizio della libertà e del senso di responsabilità, come due organi che
a forza di oziare, finirebbero per indebolirsi, rattrappirsi e poi morire. Lo si vede già con il senso di orientamento.
Ogni giorno, miliardi di umani si affidano ormai a delle applicazioni per
orientarsi nello spazio. Ora, l’uso smodato dei dispositivi di navigazione è
sul punto di generare un’umanità differente; tale abitudine ha già iniziato a
modificare i nostri circuiti cerebrali, precisamente quelli dove hanno origine
i sogni e che pilotano il senso d’orientamento. Quanto al potere devastante di
Internet sull’intelligenza dei digital natives, ogni giorno abbiamo
motivo di dispiacercene.
Molti di
questi giovani procedono ormai in un mondo appiattito dove la
cronologia, la geografia e gli indicatori storici scompaiono. La narrazione
non si svolge più, si pilucca e si disperde, portando con sé la coscienza di
essere depositaria di un’eredità da trasmettere. Perché sovraccaricarsi
di conoscenze, quando si rendono immediatamente disponibili grazie a un
dispositivo portatile? Il cervello delega e, a poco a poco, si svuota. La
sensibilità prende allora il sopravvento sul raziocinio, a cui conseguono l’incapacità
di elaborare un pensiero riflessivo e di padroneggiare la parola,
intolleranza, manicheismo, ignoranza dei contesti e delle sfumature. In questa
desolazione, presto non resteranno altro che tre ideali insormontabili: il
culto delle minoranze, la causa animalista e la salvaguardia del pianeta. Una
perdita di punti di riferimento che non rischia di proteggerci dal crollo
politico incombente.
Al di là, e
nell’ottica di quello che Zygmunt Bauman chiama modernità liquida, dove tutto
ciò che ci precede dev’essere idealmente liquidato per
sgomberare la strada a ogni commercio e offrirsi all’immediatezza dei nostri
desideri, non sapremo più cosa farcene delle biblioteche (inutili
e ingombranti), di solidi sistemi cognitivi (invalidanti), della
memoria (avvilente), degli impegni durevoli e dei legami di
lealtà fra umani (incompatibili con l’impero del management). Il
privilegio accordato alla leggerezza, allo zapping, alla
flessibilità, all’usa-e-getta, al volatile e al revocabile, li renderà handicap
o fardelli di cui bisogna sbarazzarci. Se a questa liquidazione si aggiunge
la tirannia del benessere, non è più chiaro in nome di cosa la pratica della
responsabilità e della libertà – al cuore di tutte le grandi utopie politiche
emancipatrici – potrebbe non uscire “influenzata” dall’epidemia.
Mobilitarsi
per lottare contro un virus, quando si presenta, sì. Ma farne il nostro solo e
unico orizzonte e pensare di poter salvaguardare la nostra dignità senza
accettare di correre il benché minimo rischio è aberrante. È forse cosi difficile agire con
calma, sangue freddo, responsabilità e fermo impegno, non trascurando la
salute, ma preservando l’economia, che è vita essa stessa, e senza rinunciare
alle nostre libertà? Come se fosse fuori dalla portata della nostra sensibilità
post-tragica capire che solo la disponibilità a mettere un poco in
gioco la propria vita per preservarne il senso può conferire a una
società democratica la sua colonna vertebrale, la sua “sacralità”, la sua
comunità, e la garanzia ultima che i suoi valori terranno perché verranno
difesi. Senza questa disponibilità, che presuppone che la vita “bruta” non
possa essere eretta affatto a bene supremo, il collettivo si svuota, quantomeno
se si ammette che solo ciò per cui saremmo pronti a sacrificare qualcosa,
riveste un carattere veramente sacro ai nostri occhi di Moderni laici.
Il criterio
sconvolto che ci ha fatto da stella polare nei giorni del coronavirus è agli
antipodi di questo atteggiamento mentale. E come scrive Olivier Rey ne L’Idôlatrie
de la vie (Gallimard), «quando non si può più sacrificare la vita, non
resta che tenersela». Niente di eroico o di glorioso in questo. Ci saremo
comunque raccontati molte menzogne durante questa pandemia, la banalità della
vita non essendo altro che una vita di servitù, esattamente quella
a cui ci espone il fatto di erigere la vita biologica a bene supremo, e di
situarne il sacro nella conservazione piuttosto che nel superamento. Una folle
caduta su scala storica. E allora no, la scelta di vita sotto il Covid non
costituisce necessariamente la notizia migliore di questo inizio secolo.
1 Istvan
Bibo, Misère des petits États de l’Est, Paris, Albin Michel, 2000.
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