Sabato
ventisette cittadini europei, in gran parte tedeschi e svizzeri, sono stati
bloccati dalle autorità aeroportuali tedesche a Dusseldorf. È stato loro
consegnato un divieto di espatrio di trenta giorni. Negli stessi istanti altre
trenta persone di diverse nazionalità europee venivano bloccate all’aeroporto
di Erbil in Iraq (luogo cui i passeggeri di Dusseldorf erano diretti) e
vedevano avviarsi le procedure di respingimento dal paese. Esistono quindi
casi, anche se rarissimi, in cui sono europei – benché, ovviamente, viaggiatori
“regolari” – a vedersi espulsi e respinti da un paese da cui di norma partono
carovane di profughi che l’Europa tenta in ogni modo di respingere. Come in
quei casi, ma in modo capovolto, in queste ore il governo del paese d’arrivo
(l’Iraq, o più precisamente il Governo regionale del Kurdistan) è riuscito ad
ottenere il blocco di almeno una parte dei potenziali viaggiatori nei paesi di
partenza (Germania).
Gli europei
in questione non sono naturalmente né profughi né migranti economici, e non è
per la loro indigenza o per il loro numero che vengono rifiutati. L’opposizione
istituzionale a questi viaggi dall’Europa al Medio oriente è direttamente, e
non solo indirettamente, politica. Si tratta infatti della Delegazione per la
pace e la libertà composta da politici, accademici, giornalisti, operatori
umanitari e attivisti che intendono denunciare al mondo la condizione di guerra
che vive il Kurdistan iracheno nel totale silenzio dei media internazionali. I
bombardamenti turchi su quella regione proseguono dal 2015, ma negli ultimi
tempi è stata avviata anche una vasta, letale offensiva di terra. Obiettivo
dichiarato della Turchia è debellare il movimento di liberazione curdo, il
Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk). Già nel 2016 truppe turche si erano
stanziate a Bashiqa con questo obiettivo, nella provincia di Mosul. Da allora
anno dopo anno, e nonostante le proteste del governo iracheno, le statali e le
vallate della catena montuosa Zagros si sono riempite di truppe e addirittura
di fortificazioni turche.
Queste
operazioni hanno prodotto la morte in questi anni di migliaia di cittadini
iracheni di lingua curda, combattenti della resistenza come civili. Pochi
giorni fa è stato colpito per l’ennesima volta un campo profughi a Maxmur (tre
vittime). L’ennesima guerra turca di cui non si parla e contro cui nessuno
muove un dito (si pensi ai paralleli interventi unilaterali in Siria, Libia,
Armenia) iniziò nei mesi in cui l’Isis faceva centinaia di morti alle
manifestazioni di sinistra in Turchia e le unità curdo-siriane Ypg-Ypj
liberavano Kobane e la strategica Tell Abyad in Siria. Il Pkk ha pagato in quei
mesi un prezzo altissimo per proteggere i profughi ezidi in fuga dall’irachena
Shingal, dove nel 2014 il gruppo fondamentalista ha trucidato cinquemila maschi
adulti e deportato come schiave almeno altrettante donne e bambini. L’azione
solitaria del Pkk contro l’Isis, mentre lo stato iracheno e le milizie
“Peshmerga” della destra curda erano pressoché incapaci o indisponibili ad
agire, ha collocato il movimento a un livello diverso dal passato nello
scenario mediorientale e globale, producendo interlocuzioni diplomatiche o
collaborazioni militari con i governi regionali, con la Russia, con gli Stati
Uniti e i paesi dell’Ue.
L’espansione
politica e militare di un movimento regionale d’impronta socialista, accanto
alla tendenziale sconfitta delle formazioni islamiste sunnite siriane e
irachene (che tra il 2012 e il 2014 Erdogan aveva appoggiato con tutti i mezzi)
ha portato a una corsa ai ripari della politica regionale turca nel suo “estero
vicino”, volta in modo più classico e “modesto” a reprimere i partiti curdi
meno disponibili alla cooptazione. Questo ha condotto anche a forme di
controllo territoriale esterno su cui sperimentare processi di ingegneria
demografica, ossia di pulizia etnica e politico-culturale, che risolvessero per
sempre “l’anomalia curda”.
Sarebbe
sbagliato concepire questo scontro come meramente nazionale: gran parte della
sinistra democratica turca (12% degli elettori) è contraria a queste guerre e
guarda al Pkk come a una fonte d’ispirazione, così come esiste un partito di
destra curdo che Erdogan può usare come testa di ponte in Iraq. È il Partito
democratico del Kurdistan fondato sul clan conservatore e tradizionalista dei
Barzani, che in nome di una sorta di anticomunismo clientelare-mafioso pratica
una politica di appoggio alla Turchia in funzione anti-Pkk fin dal 1992. La
comune difesa di interessi economici e di una concezione della società tradizionalista
e patriarcale non sono per la prima volta elementi in grado di produrre
alleanze oltre i sentimenti nazionali e i confini.
Il clan
Barzani, nonostante il nome del suo partito, controlla parte del Kurdistan
iracheno grazie a forzature giuridiche, a pestaggi di parlamentari
dell’opposizione e a continui e pretestuosi rinvii delle elezioni. Gode però
dell’appoggio della Nato – Italia in testa – fin dalle guerre anti-Saddam e
successivamente per ragioni commerciali, essendo l’area ricchissima di petrolio.
Gli altri partiti del Kurdistan iracheno si oppongono però al Pdk: è il caso
dell’Unione patriottica del Kurdistan o Upk (una sorta di centro) e di Gorran,
la novità “populista” degli ultimi anni. Questa opposizione curda al Pdk è
aumentata in queste settimane a causa dell’inedita scelta del partito dei
Barzani di accompagnare non solo politicamente, ma anche militarmente le
incursioni turche in Iraq contro il Pkk.
Il clan
Barzani basa il suo potere in Kurdistan su strutture clientelari e, nel caso
dell’Iraq, anche su una delle due principali confraternite Sufi dell’area: i
Naqshbandi, raggruppamento religioso di cui anche Erdogan, sul versante turco,
fa parte. Lo scopo della Delegazione europea in partenza per l’Iraq era
promuovere un dialogo tra tutti i partiti curdo- iracheni, dal Pdk al Pkk,
sperando che i partiti di centro potessero svolgere una mediazione ed evitare
una guerra civile di cui la popolazione, già sfinita dagli eventi dello scorso
decennio e dalla crisi pandemica, non sente alcun bisogno. Ne sente però il
bisogno il governo turco che, ancora una volta, investe sulla violenza per
distrarre la sua opinione pubblica dai crescenti problemi interni.
Mentre il
primo ministro del Kurdistan iracheno Masrour Barzani, del Pdk (fidatissimo di
Erdogan) era in viaggio in Europa, una nota del suo ministero della difesa
accusava (10 giugno) l’annunciata Delegazione europea di essere uno «strumento
per distruggere la stabilità nella regione». Di quale stabilità si tratti, tra
auto di civili colpite da droni, incursioni militari e bombardamenti di campi
profughi, non è dato sapere; ma sabato, due giorni dopo, la Germania ha scelto
per la prima volta di impedire con la forza a suoi cittadini e non solo di
abbandonare lo spazio di Schengen per recarsi in una zona extra-Ue per scopi
politici, umanitari e d’informazione. Mentre Erdogan era a Bruxelles per il
summit Nato i delegati europei giunti in Iraq (tra cui rappresentanti eletti
nelle istituzioni tedesche) venivano circondati da uomini armati del Pdk e sequestrati
in un hotel di Erbil affinché non potessero raggiungere la sede Onu della
città, e il giornalista italiano Federico Venturini veniva espulso dal paese
senza tanti complimenti.
L’unica
interazione umana e politica rimasta tra noi e chi vive in quelle regioni è
legata alle migrazioni economiche ed umanitarie verso l’Europa. Se i nostri
governi non si mettessero puntualmente di traverso, per giunta in combutta con
le forze più reazionarie del mondo musulmano, potremmo costruire anche forme di
collaborazione e confronto differenti, che darebbero ai mediorientali un’idea
diversa, e meno fosca e uniforme, degli europei. In Europa c’è chi pensa che
gli sbarchi sulle nostre coste da quei territori siano “un’invasione”. Non si
rendono conto di quale effetto abbia fatto in questi decenni sui mediorientali,
semmai, non veder mai arrivare un europeo che non fosse nel migliore dei casi
un turista e nel peggiore il pilota di un bombardiere. Arrivare per conoscersi,
fare politica insieme e collaborare: pur di impedirlo le istituzioni dei paesi
della Nato e dell’Ue sono disposte ad agire in modo arbitrario e lesivo delle
libertà politiche e di movimento degli europei stessi. Non sia mai che qualcuno
inizi a colmare il fossato che, tra i due lati del Mediterraneo, quelle stesse
istituzioni hanno scavato nella storia.
Nessun commento:
Posta un commento