Sommario-commento di qualche articolo riportato, ma non solo,
di Francesco Masala
Albert Einstein, che capiva molte cose, usava la parola criminali per chi stava per fondare lo stato di Israele (ma, si sa, Einstein era un antisionista, e un antisemita).
Ebrei israeliani estremisti amano i nazisti, strani i salti mortali (per i palestinesi) della storia.
Borges, se avesse saputo dell’esistenza delle ragazze che coltivano nella Striscia di Gaza avrebbe scritto che "Queste persone, che noi ignoriamo, stanno salvando il mondo”.
Israele e territori occupati, un ossimoro, ben prima del 1967.
Ricordo di Mohammed Saeed Hamayel, l’ennesima vittima innocente del Golia israeliano.
I piloti israeliani cantano in coro la loro missione, distruggere, distruggere, distruggere.
Scrive Basman Derawi: Che tipo di resistenza/faresti/se la tua casa fosse stata rubata/se la tua vita fosse solo argilla/nelle mani di qualcun altro?/Qualcuno che dice che il suo dio/gli ha promesso la tua terra?
I rabbini riscrivono la Bibbia, Abramo e Mosè forse non esistono, Dio non pervenuto, chi glielo dice al governo israeliano? (anche se lo sapevano dall'inizio).
Cambio di mandante al governo in Israele, Golia sostituisce Golia: "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi".
Ritrovati i rotoli della Costituzione dello Stato d'Israele, l'articolo 1 recita: "La proprietà è un furto".
Se sparisce la Palestina, rimarremo tutti orfani*.
La caduta “finale” di Israele era stata predetta da Einstein – Yvonne Ridley
Lo scienziato ebreo più famoso della
storia sapeva fin dalla sanguinosa fondazione di Israele che uno stato creato e
gestito da zeloti di destra armati non era praticabile. Non ci voleva un
genio per dircelo, ma così è successo.
La
lettera di Einstein
Non ci vuole un genio per vedere che il fallito progetto
sionista chiamato Israele sta andando in pezzi. Fu un genio, tuttavia, che
predisse la fine del nascente stato, quando gli fu chiesto di aiutare a
raccogliere fondi per le sue cellule terroristiche.
Dieci anni prima che lo stato dichiarasse nel 1948 la sua
“indipendenza” su una terra rubata al popolo palestinese, Albert Einstein
descrisse la proposta creazione di Israele come qualcosa che era in conflitto
con “la natura essenziale dell’ebraismo”. Essendo fuggito dalla Germania
di Hitler e alla fine diventato cittadino americano, Einstein non aveva bisogno
di lezioni su cosa fosse il fascismo.
Uno dei più grandi fisici della storia, supportato da altri
intellettuali ebrei di alto profilo, Einstein individuò i difetti e le linee di
faglia di Israele nel 1946 quando si rivolse al Comitato d’Inchiesta
anglo-americano sulla questione palestinese. Non riusciva a capire perché lo
stato di Israele fosse necessario. “Credo che sia un male”, disse.
Due anni dopo, nel 1948, lui e un certo numero di
accademici ebrei inviarono una lettera al New York Times per protestare contro una visita in America di
Menachem Begin. Nella lettera ben documentata, denunciavano il
partito Herut (Libertà) di Begin, paragonandolo a “un
partito politico strettamente affine per organizzazione, metodi, filosofia politica
e richiamo sociale ai partiti nazista e fascista”.
Herut era un partito
nazionalista di destra che divenne il Likud guidato
da Benjamin Netanyahu. Come leader del gruppo terroristico sionista Irgun, nato da una scissione della più grande
organizzazione paramilitare ebraica, l’Haganah, Begin era
ricercato per attività terroristiche contro le autorità del Mandato
Britannico. Anche quando divenne primo ministro di Israele (1997-1983) non
osò mai visitare la Gran Bretagna, dove era ancora nella lista dei ricercati.
Fu la violenza nel periodo precedente la nascita di Israele
a ripugnare particolarmente ad Einstein, e senza dubbio questo era il suo primo
pensiero quando rifiutò l’offerta di diventare presidente di
Israele. L’offerta gli fu fatta nel 1952 dal primo ministro fondatore
dello stato, David Ben-Gurion. Per quanto gentile fosse il suo rifiuto,
Einstein credeva che quel ruolo sarebbe stato in conflitto con la sua coscienza
di pacifista, oltre al fatto che avrebbe dovuto trasferirsi in Medio Oriente
dalla sua casa di Princeton, nel New Jersey, dove si era stabilito come
rifugiato tedesco.
Durante la mia ricerca sulle opinioni di Einstein mi sono
imbattuta in un’altra delle sue lettere, meno conosciuta ma probabilmente molto
più rivelatrice di qualsiasi altra da lui scritta sull’argomento della
Palestina. Per quanto breve – solo 50 parole – contiene il suo
avvertimento sulla “catastrofe finale” che stava per affrontare la Palestina
nelle mani dei gruppi terroristici sionisti.
Questa particolare lettera è stata scritta meno di 24 ore
dopo che erano filtrate le notizie sul massacro di Deir Yassin a
Gerusalemme Ovest nell’aprile 1948. Circa 120 terroristi dell’Irgun di Begin e della banda Stern (guidati da un altro terrorista che è poi
diventato primo ministro di Israele, Yitzhak Shamir), entrarono nel villaggio
palestinese e massacrarono tra 100 e 250 uomini, donne e bambini. Alcuni
morirono per i colpi delle armi da fuoco, altri per le bombe a mano lanciate
nelle loro case. Altri abitanti del pacifico villaggio furono uccisi dopo
essere stati portati in una grottesca parata attraverso Gerusalemme
Ovest. Ci furono anche segnalazioni di stupri, torture e mutilazioni.
Un mese dopo, gli Inglesi terminarono il loro Mandato di
governo in Palestina e nacque Israele. La legittimità rivendicata dai suoi
fondatori era la Risoluzione di Spartizione delle Nazioni Unite del novembre
1947, che proponeva la divisione della Palestina in due stati, uno ebraico e
uno arabo, con Gerusalemme amministrata indipendentemente da entrambe le parti.
La lettera dattiloscritta di
Einstein era indirizzata a Shepard Rifkin, il direttore esecutivo di American Friends of the Fighters for the Freedom of Israel,
con sede a New York. Questo gruppo era stato originariamente lanciato per
promuovere le idee anti-britanniche della banda Stern e raccogliere fondi in America per
acquistare armi per cacciare gli inglesi dalla Palestina. Rifkin era stato
nominato direttore esecutivo, anche se in seguito si definì “il capro
espiatorio”. Gli era stato detto da Benjamin Gepner, un comandante ebraico
in visita negli Stati Uniti, di rivolgersi a Einstein per chiedere il suo
aiuto. Rifkin obbedì, ma sulla scia del massacro di Deir Yassin ricevette
una risposta feroce dal fisico, contenuta in sole 50 parole:
Caro Signore,
Quando una catastrofe reale e definitiva dovesse capitarci
in Palestina, il primo responsabile sarebbe la Gran Bretagna e il secondo
responsabile sarebbero le organizzazioni terroristiche sviluppatesi [l’autrice
dell’articolo aggiunge qui un “sic” perché Einstein fa un piccolo errore di
inglese e scrive ‘build up’ invece che ‘built up’ NdT.] nei nostri stessi
ranghi. Non sono disposto a incontrare nessuno che sia associato a quelle
persone fuorviate e criminali.
Sinceramente suo,
Albert Einstein.
La lettera è stata autenticata e venduta all’asta quando
è riemersa e da allora è stata descritta come uno dei documenti antisionisti
più schiaccianti attribuiti al genio.
Questa lettera non potrebbe essere più diversa nel tono e
nel contenuto dalla lettera che aveva scritto al Manchester Guardian nel 1929, in cui lodava i “giovani pionieri, uomini e
donne di magnifico calibro intellettuale e morale, che spaccano pietre e
costruiscono strade sotto i raggi ardenti” del sole palestinese” e “i fiorenti
insediamenti agricoli che spuntano dal suolo da tempo deserto… lo sviluppo
dell’energia idrica… [e] l’industria… e, soprattutto, la crescita di un sistema
educativo… Quale osservatore… può non essere afferrato dalla magia di un
risultato così straordinario e di una dedizione quasi sovrumana?”
Einstein basava le sue opinioni sulla sua visita di 12
giorni in Palestina nel 1923, in cui aveva tenuto lezioni all’Università Ebraica
di Gerusalemme. Quella finì per essere la sua sola e unica visita in Terra
Santa.
Essendo stato un pacifista per tutta la vita, si rese caro
ai movimenti per la pace di tutto il mondo quando scrisse il “Manifesto agli
Europei” per chiedere la pace in Europa attraverso l’unione politica di tutti
gli stati del continente. Non c’è da stupirsi che non abbia mai visitato
lo stato di Israele, che s’era formato dalle canne di fucile, dalla dinamite e
dal sangue dei Palestinesi.
Ci sono stati molti “Deir Yassin” da quando il premio Nobel
Einstein ha condannato apertamente quello che vedeva come terrorismo
ebraico. Oggi, con Gaza ancora fumante per l’ultima brutale offensiva
militare di Benjamin Netanyahu contro la popolazione civile in gran parte
disarmata, il futuro dello stato sionista non è mai stato più precario.
Ci viene detto che tutte le carriere politiche finiscono
con un fallimento, e quella di Netanyahu è solo un esempio. Ci viene anche
detto che il collasso della società è inevitabile con la continua caduta dei
governi e con l’aumento della violenza spesso causata da guerre e catastrofi.
In poco più di due anni, Israele ha tenuto quattro elezioni
generali che non sono state in grado di produrre un governo stabile. Il
modo usato da Netanyahu per mantenere la sua presa sul potere è stato
dimostrare di essere l’uomo forte di cui il Paese ha bisogno per “difendersi”
dai “terroristi” palestinesi.
Inoltre, è sotto il suo controllo che è stata approvata la
Legge sullo Stato Nazione Ebraico, legge che contraddice l’affermazione che
Israele è una democrazia liberale.
Non c’è da stupirsi, quindi, che un numero crescente di
Ebrei di tutto il mondo –nel cui nome Israele afferma di esistere e agire–
siano, come lo era Einstein, respinti dalla filosofia politica “nazista e
fascista” di Herut che sembra essersi
reincarnata sotto il Likud e i
partiti che sono ancora più a destra nello spettro politico. In effetti,
le persone oneste di tutte le fedi, o di nessuna, sono sconvolte dal fatto che
l’estremismo di destra sembra essere sul punto di inghiottire tutta insieme la
società israeliana.
https://www.middleeastmonitor.com/20210604-the-final-downfall-of-israel-was-predicted-by-einstein/
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Gisha: video delle Green Girls tra bombardamenti, interruzione
di energia elettrica, meloni e carote . Non si arrendono
“Durante i
bombardamenti israeliani, ero pervaso da una paura profonda e intensa. Avevo
paura per la mia incolumità, per la mia vita, per la distruzione degli
appezzamenti di meloni e carote che avevamo piantato con grande fatica, per le
enormi perdite che avremmo subito, per il fatto di non avere più nulla per cui
vivere una volta che tutto fosse finito”.
Ghaidaa Qudaih,
una delle tre fondatrici di Green Girls, un'impresa agricola indipendente
nell'est della Striscia, ha ricostruito alcuni dei momenti di terrore
vissuti durante l'ultimo attacco israeliano a Gaza: “I carri armati
israeliani hanno bombardato un'area proprio accanto al perimetro della
recinzione, vicino ai terreni agricoli. Il quinto giorno dell'attacco, lì è
scoppiato un incendio. Io abito lì vicino. Continuavo a sbirciare dalla
finestra verso il nostro terreno , mi si stringeva il cuore". Qudaih
, Aseel Alnajjar e Nadin Rock, non sono stati in grado di accedere alla terra durante
gli undici giorni di ostilità per innaffiare le carote. I genitori di Qudaih, e
quelli di Rock hanno approfittato dei momenti in cui i bombardamenti
sembravano essere più lontani, una volta ogni due o tre giorni circa, per
innaffiare almeno i meloni.
Un video
prodotto da Gisha diversi mesi fa, con le ragazze dell'impresa agricola
mostra come la chiusura di Israele, le sue continue restrizioni all'ingresso
dei materiali necessari, l'irrorazione aerea di erbicidi vicino alla
recinzione e le sue incursioni militari, ostacolino la piccola impresa
avviata da Aseel, Ghaidaa e Nadin.
Ora devono
fare i conti con i gravi danni causati dai bombardamenti israeliani alle
infrastrutture idriche ed elettriche di Gaza, nonché con le continue
restrizioni israeliane all'ingresso di carburante per la centrale elettrica di
Gaza, in vigore dall'11 maggio. Quando abbiamo parlato con Qudaih, i residenti
ricevevano corrente per non più di 4 ore consecutive, seguita da
un'interruzione di 16 ore. Ad oggi i residenti ricevono tra le 6-8 ore di
alimentazione seguite da interruzioni di 8 ore. "Molti giovani a Gaza
hanno perso del tutto i loro affari, quindi ci sentiamo fortunati", ci ha
detto. "Ora stiamo cercando di innaffiare i raccolti ogni giorno, ma
non possiamo pompare acqua quando non c'è elettricità".
“Oggi siamo noi i nazisti,” afferma il membro di un
gruppo israeliano di ebrei estremisti - Ali Abunimah e Tamara Nassar
Ebrei israeliani estremisti hanno utilizzato servizi di
messaggistica istantanea per organizzare milizie armate con lo scopo di
attaccare palestinesi di cittadinanza israeliana.
Messaggi vocali, sms e altro indicano che hanno coordinato
attacchi in città dove i palestinesi vivono in stretta vicinanza con gli ebrei
– quali Haifa, Bat Yam e Tiberiade a nord, Ramla e Lydd – Lod in ebraico – al
centro fino a Beersheba [Be’er Sheva in ebraico, ndtr] nel sud di Israele.
Agli attacchi coordinati si sono uniti anche coloni di
insediamenti coloniali ebraici in Cisgiordania, sembra con la conoscenza e
collusione di funzionari israeliani.
La comunicazione è avvenuta tramite WhatsApp e Telegram, oltre a
gruppi Facebook.
In molti casi gli estremisti organizzatori hanno detto di avere
contato sul sostegno attivo o passivo delle autorità israeliane.
Gli organismi di ricerca israeliani Fake Reporter e HaBloc hanno
intercettato dei messaggi di alcuni gruppi e hanno riferito le loro scoperte
alla polizia israeliana definendole una “bomba ad orologeria.”
“E’ triste sapere che nonostante i nostri sforzi, si sia fatto
concretamente pochissimo,”, ha dichiarato Fake Reporter.
“Nessuna autorità competente potrebbe sostenere di non avere
saputo,”, ha dichiarato HaBloc.
“Siamo noi i nazisti”
Fake Reporter ha pubblicato schermate dove membri di quei gruppi
discutevano quali armi usare e decidevano dove incontrarsi per attaccare
palestinesi e bruciare moschee. Animati da violento razzismo, impegnati nelle
provocazioni contro i palestinesi.
Tali messaggi venivano diffusi contestualmente a recenti attacchi
di estremisti ebrei israeliani contro i palestinesi, le loro case e imprese, e
mentre Israele nell’ultima settimana intensificava gli attacchi contro Gaza e
la Cisgiordania occupata.
“Non siamo più ebrei oggi,” scriveva un utente di un gruppo
Telegram che si definisce “Il popolo di Holon, Bat Yam e Rishon Lezion scende
in guerra.”
“Oggi siamo nazisti.”
Questi paesi si trovano nella cintura meridionale di Tel Aviv.
I video postati da HaBloc, che sembra siano stati girati il 12 e
13 maggio, mostrano persone già presenti a Bat Yam o che lo stanno
raggiungendo, ed alcuni di loro scandiscono “morte agli arabi.”
Il 12 maggio una gran folla di ebrei israeliani ha trascinato fuori
dalla macchina un palestinese e lo ha brutalmente percosso mentre l’aggressione
veniva trasmessa dal vivo in televisione.
La vittima, Said Musa, è rimasto gravemente ferito prima di venire
trasportato in ospedale.
“Mi hanno chiesto se fossi arabo, credevo che avessero bisogno di
aiuto e ho detto: sì, posso aiutarvi?” ha raccontato Musa ad un giornalista
israeliano.
In un gruppo WhatsApp che si chiama “Gruppo di combattimento –
Morte agli arabi di Haifa”, i partecipanti avevano ricevuto istruzioni di
portare bandiere israeliane e di trovarsi mascherati all’ingresso della città
vecchia di Acri.
In un altro gruppo WhatsApp denominato “Fanculo gli arabi, sede di
Afula, morte agli arabi” che conta 165 membri, uno ha postato la foto di una
fiocina.
Sempre lo stesso ha scritto, “bottiglie molotov, ecco l’arma per
oggi.”
Un video postato nello stesso gruppo mostra due uomini mascherati,
uno dei quali impugna due grandi coltelli e dice, “coltellate in testa, oggi
terrore.”
In un altro messaggio per i membri del gruppo La Familia, una
persona incita a dar fuoco ad una moschea a Lydd.
La Familia è il famigerato gruppo di ultrà del Beitar Jerusalem,
la squadra di calcio che dall’anno scorso è proprietà congiunta di un membro
della famiglia reale di Abu Dhabi.
I tifosi del club sono tristemente noti per le violenze ai danni
dei palestinesi, generalmente accompagnate da cori di “morte agli arabi.”
La polizia “ci darà man forte”
Adalah, gruppo che sostiene i diritti dei palestinesi in Israele,
è venuto in possesso di messaggi vocali e comunicazioni interne fra estremisti
ebrei che concertavano aggressioni contro i palestinesi.
Tutti i messaggi vocali pubblicati da Adalah sono del 13 maggio,
serata che numerosi osservatori hanno paragonato ad un pogrom.
“La polizia non ci farà nulla, ci darà man forte e farà finta di
niente,” dice un israeliano in un messaggio vocale ad altri attivisti ebrei di
estrema destra.
“Le regole non valgono più. Tutto brucia,” dice una persona.
“In marcia con le armi, in marcia con quello che ti pare,” dice un
altro.
“I tizi di Yitzhar, loro sono già arrivati, arrivati con sei
pullman,” dice un altro in un diverso messaggio vocale.
Yitzhar è una colonia costruita su centinaia di acri di terra
rubati ad Urif e ad altri villaggi palestinesi nella Cisgiordania occupata.
E’ abitata da coloni estremamente violenti, che attaccano sovente
sia i palestinesi sia le loro greggi, frutteti e proprietà.
“Sei pullman vuol dire 380 persone, 380 persone tutte armate,
raga. Tutti mascherati,” aggiunge.
“Ognuno di loro, raga, non vede l’ora di ammazzare gli arabi,
raga. Vogliono ammazzare gli arabi.”
L’Alto Comitato di Controllo per i Cittadini Arabi di Israele
(High Follow-Up Committee for Arab Citizens of Israel) ha dichiarato che “le
autorità di polizia conoscono bene questi gruppi” e “risulta che proteggano i
giustizieri ebrei israeliani e i gruppi dei coloni.”
L’Alto Comitato di Controllo, formato da rappresentanti eletti,
dirigenti di partito e rappresentanti della comunità, è l’organismo
rappresentante de facto dei palestinesi di cittadinanza israeliana.
Con l’approvazione delle autorità
Ci sono ulteriori prove che le autorità israeliane non solo ne
fossero al corrente, ma che addirittura abbiano sostenuto le premeditate
violenze di massa.
Un video diffuso il 12 maggio da alcuni giornalisti israeliani
mostra Yossi Harush, vicesindaco di Lydd, mentre dice a diversi parlamentari di
primo piano che centinaia di coloni stavano arrivando dalla Cisgiordania per
“proteggere” le case degli ebrei.
“Il consiglio che darei a tutti i cittadini arabi è di non
lasciare le proprie case,” dice Harush.
Ha poi detto che i coloni si erano “offerti volontari” per
“incrementare la sicurezza.”
Un video in possesso di Adalah mostra una dozzina di auto in sosta
con diverse persone intorno e un uomo che parla in ebraico.
“Questa è gente della Giudea e Samaria,” dice, usando i nomi con
cui Israele chiama la Cisgiordania occupata.
“Fucili a canna corta M-16, chiunque voglia venire a proteggere lo
Stato è il benvenuto,” dice.
“Oggi gli spacchiamo le ossa.”
Adalah ha annunciato che avrebbe proceduto per vie legali contro
le autorità israeliane per non avere impedito le aggressioni contro i
palestinesi da parte di queste bande di ultranazionalisti.
In diverse schermate di messaggi Telegram e WhatsApp postate da
israeliani e utenti di social media si vedono tattiche e istigazioni simili.
Il gruppo israeliano di diritti umani B’Tselem ha rivelato che
gruppi di coloni, quali l’organizzazione di estrema destra Regavim e un’altra
chiamata My Israel, stavano costituendo milizie armate per recarsi in città
miste all’interno di Israele il 13 maggio.
My Israel ha chiamato a raccolta “veterani militari armati”,
“proprietari di mezzi corazzati” e “diplomati a corsi per ufficiali di
combattimento” perché si coalizzassero.
Le bande ultranazionaliste sono state di parola: la scorsa
settimana hanno devastato città, distrutto imprese commerciali palestinesi,
marchiato case di palestinesi e aggredito cittadini palestinesi nelle strade.
Morti e feriti
I palestinesi di cittadinanza israeliana hanno protestato nelle
strade in solidarietà con i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania occupata.
Sono stati segnalati i casi di una sinagoga di Lydd data alle
fiamme e di aggressioni ad israeliani, poliziotti e militari compresi.
Lunedì scorso Yigal Yehoshua, un ebreo di 56 anni, è deceduto per
una ferita alla testa che sembra sia stata causata da un mattone scagliato
contro la sua macchina durante una rivolta palestinese avvenuta a Lydd il
martedì precedente.
Secondo quanto riferito da Sheikh Yusef al-Bazz, l’imam locale,
Yehoshua sarebbe stato aggredito da ebrei israeliani che lo avevano scambiato
per un arabo.
La causa della ferita mortale di Yehoshua non è stata ancora
chiarita.
La sera prima che Yehoshua rimanesse ucciso, Moussa Hassouna,
palestinese con cittadinanza israeliana, era stato colpito a morte da abitanti
ebrei di Lydd, che avevano invocato la “legittima difesa”, secondo il Times of
Israel.
Secondo quanto scritto dal giornale, l’inchiesta iniziale aveva
evidenziato che “Hassouna si trovava a decine di metri dagli ebrei indiziati
quando è stato colpito dallo sparo.”
Le autorità israeliane hanno arrestato per poi rilasciarli quattro
ebrei sospettati del crimine.
E a Giaffa un dodicenne palestinese ha riportato gravi ustioni
dopo che la sua casa è stata attaccata con bombe incendiarie. Anche la
sorellina di dieci anni ha riportato ferite, seppur meno gravi, nel corso
dell’attacco.
Sembra che le videocamere di sorveglianza abbiano ripreso prima
dell’attacco due uomini incappucciati in un vicolo contiguo.
La polizia ha arrestato un sospetto arabo. Ma secondo Haaretz, il
padre dei bambini “stenta a credere che chi ha aggredito la sua famiglia fosse
un arabo, e che la polizia abbia fatto un errore di identificazione.”
Infatti la sua casa era decorata con mezzelune per il Ramadan –
anche se le luci delle decorazioni non funzionavano.
In un discorso del 15 maggio, il primo ministro israeliano Benjamin
Netanyahu ha esortato i cittadini ebrei e palestinesi di Israele ad astenersi
dall’uso della violenza. Il suo linguaggio, però, rifletteva il razzismo
sistemico dello Stato di Israele.
“Non lasceremo che i nostri cittadini ebrei vengano linciati o
minacciati da bande di arabi assassini,” ha dichiarato Netanyahu, che
contestualmente si è limitato ad ammonire i cittadini ebrei a non “farsi
giustizia da soli e aggredire arabi innocenti, o linciare un arabo innocente.”
Minimizzando la portata della violenza degli ebrei israeliani,
Netanyahu ha dichiarato che “si era in effetti verificato un caso simile.”
Adalah ha affermato che Netanyahu “continua a rimarcare che la
polizia israeliana, che agisce con brutale violenza nei confronti dei cittadini
palestinesi, otterrà il pieno sostegno politico alle sue azioni.”
I palestinesi con cittadinanza israeliana sono i sopravvissuti e
discendenti della Nakba, la pulizia etnica della Palestina perpetrata dalle
milizie sioniste prima e dopo la creazione dello Stato di Israele nel 1948.
A differenza dei milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania
e nella Striscia di Gaza, essi godono di qualche diritto civile, quale il
diritto di voto. Sono però soggetti a radicate forme di discriminazione sancite
da decine di leggi.
“La certezza del diritto non vale quando si tratta di palestinesi”
e questo riguarda l’intera Palestina storica, aggiunge Adalah. Come affermato
all’inizio dell’anno da B’Tselem, la “supremazia ebraica” è “l’unico principio
guida” di Israele.
“I cittadini palestinesi, a livello collettivo, temono per la
propria vita,” ha dichiarato domenica l’Alto Comitato di Controllo per i
Cittadini Arabi di Israele, appellandosi alla comunità internazionale perché
intervenga per aiutare a proteggerli “sia dallo Stato sia dai privati.”
Tamara Nassar è direttore associato e Ali Abunimah è direttore
esecutivo di The Electronic Intifada.
traduzione dall’inglese di Stefania Fusero
Israele ha affermato che le sue
conquiste di terre del 1967 non erano state pianificate. I documenti
declassificati rivelano altrimenti - Adam Raz
Per anni, la maggior parte
della storiografia israeliana ha sostenuto che i politici del paese sono
stati colti di sorpresa dai frutti della vittoria, raccolti alla velocità
della luce nel giugno 1967. "La guerra", ha detto il
ministro della Difesa Moshe Dayan, tre giorni dopo la sua conclusione, "
si è sviluppata su fronti che non erano previsti e
non erano stati pianificati da nessuno, in ciò includo anche me”. Sulla
base di queste e altre affermazioni si è radicata l'opinione che la
conquista dei territori fosse una nuova realtà che nessuno voleva.
Tuttavia, la
documentazione storica conservata negli Archivi di Stato israeliani , negli
archivi delle forze di difesa israeliane e dell'establishment della difesa
negli ultimi anni richiede di mettere in dubbio la credibilità di tale visione. Le
informazioni qui citate costituiscono solo una piccola parte di un'ampia
documentazione presente negli archivi governativi relativa alla conquista dei
territori che rimane riservata. È stata necessaria un'ostinata
perseveranza a lungo termine per effettuare la declassificazione di alcuni dei
documenti sui quali si basa questo articolo.
I documenti descrivono i
dettagliati preparativi, fatti nelle forze armate negli anni precedenti
al 1967, per organizzare in anticipo il controllo di territori
che l'establishment della difesa valutava – con grande certezza – sarebbero
stati conquistati nella prossima guerra. Un'analisi delle
informazioni indica che l'acquisizione e il mantenimento di queste aree - la
Cisgiordania dalla Giordania, la penisola del Sinai e la Striscia di Gaza
dall'Egitto, le alture del Golan dalla Siria - non erano un sottoprodotto dei
combattimenti, ma la manifestazione di un approccio strategico e di
preparativi preliminari.
I meticolosi preparativi
dell'IDF per conquistare i territori erano già iniziati all'inizio degli anni
'60. Erano, in parte il prodotto della breve e amara esperienza
israeliana della conquista – e successiva evacuazione – della penisola
del Sinai e della Striscia di Gaza nella guerra del Sinai del 1956. È in questo
contesto che va inteso il documento intitolato "Proposta per
organizzare il governo militare”, scritta dal capo delle
operazioni, il colonnello Elad Peled, nel giugno 1961, e
presentata al capo di stato maggiore Tzvi Tzur. Sei anni prima della
Guerra dei Sei Giorni, la proposta consisteva in una dettagliata
pianificazione iniziale delle forze necessarie per governare quelli che
sarebbero diventati i territori occupati.
Due anni dopo, nell'agosto
del 1963, lo Stato Maggiore Generale dell'IDF ,allora guidato da Yitzhak Rabin,
elaborò una direttiva ampiamente diffusa sull'organizzazione del governo
militare nei territori. Questo ordine getta luce, nelle sue parole, sulle
"previste direzioni di espansione" di Israele, che, nella
valutazione del personale di sicurezza ,sarebbero state al centro della
prossima guerra. Questi territori includevano la Cisgiordania, il Sinai,
le alture siriane ,Damasco e il Libano meridionale fino al fiume Litani.
L'ordine dell'agosto 1963
fu preparato a seguito di una valutazione, due mesi prima, da parte dell'unità del
governo militare che controllava la vita degli arabi in Israele . Nella
corrispondenza interna suggeriva che la futura organizzazione del
governo nei territori sarebbe stata eseguita "in fretta" e "non
soddisfa completamente tutte le esigenze".
Il documento, chiamato"
Governo militare in stato di emergenza", affermava che "la
spinta dell'IDF a trasferire la guerra nei territori del nemico avrebbe portato
necessariamente all'espansione [in] e alla conquista di aree oltre i
confini dello stato". Basandosi sull'esperienza israeliana
nel periodo successivo alla campagna del Sinai, sottolineava che
sarebbe stato necessario installare rapidamente un governo militare, perché
“queste conquiste potrebbero durare solo poco tempo e dovremo evacuare i
territori a seguito delle pressioni internazionali o a un accordo”. La
parte successiva invece, era destinata a coloro che sarebbero stati
incaricati di amministrare il governo militare nella futura area occupata .Lo
sfruttamento di quella “conveniente situazione” rendeva infatti necessaria la
meticolosa organizzazione delle modalità di governo militare nei territori
occupati. Di conseguenza l'IDF ha dedicato attenzione
all'addestramento e alla preparazione delle unità e degli organi amministrativi
che avrebbero governato la popolazione palestinese. Avevano ampie
responsabilità: dalle questioni legali relative all'occupazione dei territori,
alla raccolta di informazioni sulla popolazione e alle infrastrutture in
Cisgiordania.
Nessuno all'interno
dell'establishment della difesa ha contestato il potere superiore dell'IDF e la
sua capacità di conquistare rapidamente i territori dell’ Egitto, della
Giordania e della Siria . Prima del 1967 gli ufficiali del
governo militare ,che esisteva all'interno di Israele ,erano preoccupati per la
preparazione delle unità che avrebbero governato nei territori. Insieme
alla dottrina militare che prevedeva lo spostamento dei combattimenti in
territorio nemico, esisteva una dottrina relativa al governo dei
civili, basata sul riconoscimento che in seguito a tale acquisizione, Israele
avrebbe controllato una popolazione civile occupata e ciò avrebbe richiesto
l'istituzione di una burocrazia governativa militare.
Il colonnello
Yehoshua Verbin, nella sua qualità di comandante del governo militare
in Israele fino al 1966, con una vasta esperienza nell'operare i meccanismi di
supervisione e controllo sui palestinesi di Israele, ha svolto un ruolo
centrale nei preparativi per istituire un governo militare in i territori
conquistati. In un momento di franchezza, nel dicembre 1958, ammise in
un comitato ministeriale che si era riunito per discutere il futuro del
governo militare all'interno di Israele: "Non ho nemmeno deciso
se stiamo facendo loro più male o bene". Tuttavia, in qualità
di alto ufficiale comandante, nel giugno 1965, avvertì il suo superiore, Haim
Bar-Lev, che le strutture di comando dell'amministrazione per governare i
territori occupati non erano sufficientemente qualificate per svolgere la loro
futura missione. "Sono stati fatti pochissimi progressi su
questo argomento". Ha aggiunto: "Sembra che i comandi
dell'amministrazione nei territori occupati non saranno adatti a svolgere i
loro compiti". Il governo militare ,imposto ai palestinesi
di Israele dal 1948 costituiva il modello per governare i territori che
sarebbero stati conquistati in guerra. Nel 1963, le unità del governo
militare avevano già 15 anni di esperienza nell'imporre “ordine” e supervisione
su cittadini palestinesi, attraverso un rigido regime di permessi.
Tuttavia, dopo la
guerra del 1967, il ministro della Difesa Dayan respinse la proposta del capo
dei servizi di sicurezza dello Shin Bet ,Yosef Harmelin, di replicare nei
territori le forme di controllo del governo militare israeliano (posizione
che per anni fu citata per dimostrare la presunta visione illuminata di Dayan
). Sebbene Dayan si sia generalmente astenuto dal nominare ex
governatori militari all'interno di Israele come governatori dei territori
conquistati, la normalizzazione dell'"occupazione illuminata"
aveva un carattere simile a quello del governo militare imposto all'interno
di Israele. Di conseguenza, quanto più vaga era la temporaneità
dell'occupazione, tanto più cruda e violenta diventava.
Per illustrare la linea
diretta che collegava il governo militare esistente in Israele (fino al
dicembre 1966) a quello operante nei territori dopo la guerra del giugno 1967,
è sufficiente guardare alla metamorfosi che subirono i suoi rami
ufficiali. Nei mesi successivi alla guerra, l'unità che aveva gestito
il governo militare in Israele fu ribattezzata "dipartimento dell'amministrazione
militare e della sicurezza territoriale". Oggi è conosciuto con un
nome diverso e più accattivante: "Coordinatore delle attività di governo
nei territori".
Adam Raz è un ricercatore
presso l'Akevot Institute for Israel-Palestinian Conflict Resea
da qui
UNA FONTE D'ACQUA, DUE MILIONI DI
PERSONE: GAZA DEVE ESSERE LIBERATA DALLA SUA COSTRIZIONE - AMIRA HASS
La Valle di Jezreel misura 350 chilometri quadrati,
poco meno dell'area della Striscia di Gaza. Jezreel ospita 40.000 israeliani. I
365 chilometri quadrati di Gaza ospitano due milioni di palestinesi. Molti
discendono da persone nate ad Ashkelon (Majdal) e Ashdod (Isdud), città appena
a nord di Gaza, e nei villaggi che divennero le comunità ebraiche vicino al
confine di Gaza.
Facciamo un confronto con Israele. Ha una
popolazione di 9,3 milioni di abitanti, compresi i coloni in Cisgiordania,
Gerusalemme Est e sulle alture del Golan. Compreso il Golan e Gerusalemme Est,
conquistati nel 1967, Israele ha una superficie di 22.000 chilometri quadrati.
A ciò si aggiunge circa la metà della Cisgiordania occupata dai coloni e dalle
loro milizie (l'IDF e la gioventù delle colline), e arriva a 25.000 chilometri.
Quindi, una popolazione palestinese equivalente a un
quinto della popolazione israeliana vive in un'area grande appena l'uno e mezzo
per cento.
Un'altra statistica relativa alla densità della
popolazione dimostra quanto sia instabile questa situazione. Gli israeliani
vivono in un territorio con una densità di popolazione di 372 persone per
chilometro. A Gaza, la densità è di 5.479 persone per chilometro quadrato, che
è 15 volte superiore. Questo, come il deliberato sovraffollamento nelle città
palestinesi in Israele, non ha il potenziale per relazioni di buon vicinato.
Parliamo ora dell'acqua. Nel 1947, circa 80.000
palestinesi vivevano nelle città e nei villaggi che divennero la Striscia di
Gaza. Avevano a disposizione una falda acquifera, che produceva 60 milioni di
metri cubi di acqua all'anno. Questo è bastato anche per gli ulteriori 200.000
palestinesi che furono espulsi a Gaza nel 1948 e divennero rifugiati.
Oggi,
questa unica falda acquifera, con la stessa capacità, dovrebbe fornire acqua a
due milioni di persone. Il pompaggio
eccessivo è iniziato 35 anni fa, quando non c'era altra scelta. Perché? Perché
Israele si rifiuta di includere la Striscia di Gaza nell'economia idrica del
Paese e le impone di accontentarsi di ciò che produce il segmento della falda
acquifera costiera che ricade nel suo territorio, indipendentemente dalle
dimensioni della popolazione. Il risultato: più del 95% dell'acqua di Gaza non
è potabile e deve essere depurata dalle acque reflue e dall'acqua di
mare che vi penetrano.
Più di 800.000 abitanti di Gaza, il 43% della
popolazione, hanno meno di 14 anni. La fascia di età 15-24 anni rappresenta il
21% della popolazione.
I
quindicenni hanno attraversato quattro guerre, ma la maggior parte non sa che
aspetto abbia una collina. Israele non gli permette di uscire dall'enclave per
visitare le colline della Cisgiordania, figuriamoci le montagne della Galilea. Non sanno cosa significhi bere l'acqua
direttamente dal rubinetto. Per loro l'acqua potabile è quella nei contenitori
che il padre porta a casa.
Il 75% degli abitanti di Gaza sono rifugiati
originari di villaggi e città che ora si trovano all'interno di Israele. Israele può
inasprire le restrizioni alla loro mobilità, ma il loro legame con il resto
della loro patria non diminuisce. Più
dure e severe sono le condizioni della loro prigionia, più l'abilità e la
volontà di vivere degli abitanti di Gaza sorprendono e ispirano.
Israele è riuscito a far pensare alla maggior parte
degli israeliani alla Striscia di Gaza come un'enclave politica separata. Anche
il sito web della CIA la mostra come un "paese" separato. I governi
di Hamas e dell'Autorità Palestinese hanno talvolta dato una mano a creare
questa illusione.
Ma
i confini artificiali di Gaza inevitabilmente imploderanno. Lo vediamo nelle
acque reflue che fluiscono non trattate da Gaza direttamente nel mare, perché
Israele non lascia entrare a Gaza carburante o materie prime, senza le quali
gli impianti di depurazione non possono funzionare. Il liquame tuttavia non distingue
il confine marittimo e raggiunge le spiagge di Ashkelon.
Anche
la memoria collettiva va oltre i confini. E anche Hamas, soprattutto quando
opera come uno stato separato, attraversa il confine con i suoi audaci razzi.
Se non apriamo questa stretta gabbia e liberiamo le persone imprigionate lì a
vita, il terribile divario tra le
condizioni disumane per i palestinesi e la loro voglia di vivere continuerà a
esploderci contro proprio come una raffica di razzi.
da qui
Umberto De Giovannangeli In memoria di
Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di Palestina di Gideon Levy
Aveva 15 anni Mohammed Saeed Hamayel. Quindici anni e
una vita davanti a sé. Una vita che è stata spezzata oggi, Mohammed Saeed
Hamayel, quindicenne palestinese è rimasto ucciso in scontri da militari
israeliani nel villaggio di Beita, a Sud-Est di Nablus, in Cisgiordania.
Lo ha riportato l'agenzia di stampa palestinese Wafa, citando la Mezzaluna Rossa palestinese. Il ministero
della Salute palestinese ha confermato il decesso dell'adolescente. Negli
stessi scontri sono rimasti feriti altri sei palestinesi dopo che i militari
hanno iniziato a sparare; tutti e sei sono stati ricoverati presso l'ospedale
di Nablus mentre decine di altri protestanti sono stati intossicati dai
lacrimogeni. Gli scontri sono scoppiati mentre i palestinesi protestavano
contro la creazione del nuovo avamposto non autorizzato di Evyatar vicino Nablus.
Cosa
pensereste di un regime che permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel
sonno, che distrugge le loro scuole? E come può spacciarsi come “l’unica
democrazia del Medio Oriente” quel Paese che permette di tenere un minorenne
spogliato nudo, rinchiuso per 22 giorni in una cella umida e piena di topi. O
che obbliga i bambini arrestati a stare per lunghi periodi in piedi, senza
vestiti?
Questo
Paese è Israele. Che ha dichiarato guerra ai bambini palestinesi.
Il
racconto di un giornalista coraggioso
Per chi
ha ancora dei dubbi, Globalist offre il
reportage dell’icona del giornalismo israeliano, firma storica di Haaretz: Gideon
Levy. Un reportage di un anno fa, ma che mantiene una stringente, tragica
attualità. “La settimana scorsa – scrive - eravamo nel campo profughi di
Al-Arroub, alla ricerca di uno spazio aperto in cui sedersi, per paura del
coronavirus. Non ce n'era uno. In un campo in cui la casa tocca la casa, i cui
vicoli sono larghi quanto un uomo e disseminati di spazzatura, non c'è nessun
posto dove sedersi fuori. Si può solo sognare un giardino o una panchina, non
c'è nemmeno un marciapiede. Qui è dove vive Basel al-Badawi. Un anno fa i
soldati hanno sparato a suo fratello, davanti ai suoi occhi, senza motivo. Due
settimane fa, Basil è stato strappato dal suo letto in una notte fredda e
portato via, a piedi nudi, per essere interrogato. Ci siamo seduti nella casa
angusta della sua famiglia e ci siamo resi conto che non c'era nessun
"fuori" da cui andare. Mentre eravamo lì, i soldati israeliani hanno
bloccato l'ingresso del campo, come fanno di tanto in tanto, in modo
arbitrario, e il senso di soffocamento non ha fatto che crescere. Questo è il
mondo di Basil e questa è la sua realtà. Ha 16 anni, un fratello in lutto, che
è stato rapito dal suo letto nel buio della notte dai soldati. Non ha nessun
posto dove andare, tranne la scuola, che è chiusa per una parte della settimana
a causa di Covid-19. Basilea è libera ora, più fortunata di certi altri bambini
e adolescenti. Circa 170 di loro sono attualmente detenuti in Israele. Altri
bambini vengono fucilati dai soldati, feriti e talvolta uccisi, senza
distinzione tra bambini e adulti - un palestinese è un palestinese - o tra una
situazione di pericolo di vita e un ‘disturbo pubblico’.
Venerdì
hanno ucciso Ali Abu Alia, un ragazzo di 15 anni. È stato un colpo letale
all'addome. Nessuno poteva rimanere indifferente alla vista del suo volto
innocente nelle fotografie, e della sua ultima foto - in un sudario, con il
volto esposto, gli occhi chiusi, mentre veniva portato alla sepoltura nel suo
villaggio. Ali, come ogni settimana, andava con i suoi amici a manifestare
contro gli avamposti selvaggi e violenti che spuntavano dall'insediamento di
Kokhav Hashahar, impadronendosi della restante terra del suo villaggio, al-Mughayir.
Non c'è niente di più giusto della lotta di questo villaggio, non c'è niente di
più atroce dell'uso della forza letale contro i manifestanti e non c'è alcuna
possibilità che sparare ad Ali nell'addome possa essere giustificato. In
Israele, naturalmente, nessuno ha mostrato interesse nel fine settimana per la
morte di un bambino, un altro bambino. Fino all'anno scolastico in corso, circa
50 bambini della comunità di pastori di Ras a-Tin hanno studiato nella scuola
di al-Mughayir, il villaggio del ragazzo deceduto. Dovevano camminare per circa
15 chilometri al giorno, andata e ritorno, per partecipare. Quest'anno i loro
genitori, con l'aiuto di un'organizzazione umanitaria della Commissione Europea
con sede in Italia, hanno costruito per loro una scuola modesta e affascinante
nel villaggio. L'amministrazione civile israeliana minaccia di demolirla, e nel
frattempo tormenta gli alunni e gli insegnanti con visite a sorpresa per
verificare se i servizi igienici sono stati, Dio non voglia, collegati a un tubo
dell'acqua - in un villaggio che non è mai stato collegato alla rete elettrica
o alla rete idrica. I bambini di Ras a-Tin devono aver conosciuto Ali, il loro
ex compagno di classe, ora morto. I bambini non conoscevano Malek Issa, di
Isawiyah, a Gerusalemme Est. Il bambino di 9 anni ha perso un occhio dopo
essere stato colpito da un proiettile con la punta di spugna sparato da un
agente di polizia israeliano. Giovedì il dipartimento del Ministero della
Giustizia che esamina le accuse di cattiva condotta della polizia ha annunciato
che nessuno sarebbe stato accusato della sparatoria, dopo 10 mesi di intense
indagini. È bastato che i poliziotti coinvolti dichiarassero che erano state
scagliate loro delle pietre, forse una di esse ha colpito il ragazzo. Ma nessun
video mostra che siano state lanciate pietre, né ci sono altre prove di questo.
Anche gli assassini di Ali possono dormire in pace: Nessuno li perseguirà.
Tutto quello che hanno fatto è stato uccidere un bambino palestinese. Questi e
molti altri incidenti si verificano in un periodo tra i più tranquilli della
Cisgiordania. Questo è il terrore che si sta verificando, commesso dallo Stato.
Quando sentiamo parlare di questi incidenti in dittature feroci - bambini che
vengono strappati dal loro letto nel cuore della notte, un ragazzo a cui hanno
sparato in un occhio, un altro a cui hanno sparato e ucciso - ci fa venire i
brividi. Sparare ai dimostranti? Ai bambini? Dove accadono queste cose? Non in
qualche terra lontana, ma a un'ora di macchina da casa tua; non in qualche
oscuro regime, ma nell'unica democrazia. Cosa penserebbe di un regime che
permette di sparare ai bambini, che li rapisce nel sonno e distrugge le loro
scuole? Questo è esattamente ciò che si deve pensare del regime qui nel nostro
Paese”.
La denuncia
di Save the Children
160
bambini palestinesi stanno vivendo una
situazione drammatica, si trovano in prigione in attesa di
interrogatorio. Soli, inascoltati, esposti ad enormi rischi a cui ora si
aggiunge anche il coronavirus – documenta Save The Children in un recente
Rapporto -Ancora oggi circa 500-700 bambini Palestinesi della Cisgiordania
vengono processati e detenuti secondo la legge militare israeliana, ogni anno.
Sono gli unici bambini al mondo ad essere sistematicamente
processati da tribunali militari, con processi
iniqui, arresti violenti, spesso notturni e interrogatori coercitivi.
L'accusa più comune è il lancio di pietre, per cui si può arrivare ad
una pena di 20 anni.
In prigione sono sottoposti ad abusi emotivi e fisici, l’assistenza
sanitaria e il sostegno psicosociale sono per loro molto limitati e con
l’emergenza coronavirus la
loro situazione si è ulteriormente aggravata. Al momento, quasi 160
bambini si trovano nelle carceri militari israeliane, in attesa di processo o
condanna.
Da marzo 2020, con l’inizio della pandemia, a questi bambini è impedito di
ricevere visite dai propri genitori e parenti. Non possono
neanche incontrare i loro avvocati e quindi anche il supporto legale
è minimo.
Questa
situazione crea ulteriori difficoltà e sofferenze per i bambini e li rende
vulnerabili a possibili violazioni, inclusa la pressione ad autoincriminarsi.
Senza dimenticare il concreto rischio di contrarre il Covid19 a causa
della mancanza di spazio nelle celle e dell'accesso minimo che hanno ai
servizi igienici.
Il coronavirus infatti ha già raggiunto le carceri israeliane dove sono
detenuti i bambini, dove sono stati registrati diversi casi.
Abusati,
le testimonianze
Ala è
stato arrestato mentre andava a scuola durante degli scontri. Colpito da
proiettili di gomma e ferito al piede e alla testa ha subito prima un
interrogatorio di 5 giorni e solo dopo è stato visitato da un medico. Dopo aver
trascorso alcuni giorni in ospedale per le ferite riportate è stato trasferito
in prigione. Ha dovuto dividere una cella di circa 20 metri quadri con altri 9
ragazzi, alcuni anche molto più piccoli di lui. La paura del Coronavirus era
tanta e i ragazzi provavano a mantenere pulito questo spazio angusto in cui
erano costretti, ma senza disinfettanti e con le guardie che entravano
continuamente nelle celle, spesso con i cani, era praticamente impossibile. Ora
Ala è stato per fortuna rilasciato ma teme fortemente per gli altri ragazzi che
sono ancora in carcere. Lui ha vissuto fino a poco temo fa in quella situazione
e sa che il pericolo di ammalarsi è reale.
Un altro minore (Ubay Mohammad Odeh, minore dei territori occupati di
Gerusalemme) è stato arrestato mentre andava a scuola con taxi, è stato fermato
per un controllo di documenti. I soldati gli hanno detto che la carta di
identità non andava bene, e lo hanno portato via coprendogli la testa con un
cappuccio, in un campo di detenzione. É stato spogliato nudo e messo in
isolamento, dopo essere stato interrogato, nella sezione degli adulti. È
rimasto così per 22 gg. in una cella umida e piena di topi. Durante i
trasferimenti per gli interrogatori ha subito continue aggressioni da parte dei
militari che lo accusavano di avere picchiato un giudice.
Abdul-Salam Abu Al-Hayjah (16 anni del campo profughi di Jenin)
è stato esposto a gravi torture, per costringerlo a dire dove è nascosto suo
padre. Nel suo interrogatorio hanno minacciato di uccidere il padre e di
deportare la sua famiglia. É obbligato a stare per lunghi periodi in piedi,
senza vestiti. Gli è impedito di fare una doccia, e chi lo interroga lominaccia
che non rivedrà più la luce del sole finchè non avrà dato tutte le informazioni
che gli sono richieste.
Altri minori hanno denunciato una guardia che aveva tentato in
più occasioni di violentare qualcuno di loro. La guardia è stata arrestata e
condannata a tre anni di prigione. I minori, sono stati brutalmente percossi
mentre venivano portati dalla prigione al Tribunale, e si trovavano nelle mani
delle guardie.
In
memoria di Mohammed Saeed Hamayel, un ragazzo di
Palestina.
Il REGIME RELIGIOSO SIONISTA DI BENNET
STA ARRIVANDO - Gideon Levy
L'investitura anticipata del primo Primo
Ministro religioso-sionista di Israele potrebbe anche inaugurare un nuovo tipo
di linguaggio nazionale, di condiscendenza, sdolcinatezza
religioso-patriottica, stucchevole e patetica. Non è esattamente una novità: Questo
tipo di discorsi si sono sentiti sulle colline della Cisgiordania per mezzo
secolo, con lo sguardo ipocrita completamente rivolto verso il cielo. Da lì si
è diffuso nell'esercito, nei media e in tutti gli altri snodi di potere che i
sionisti religiosi hanno conquistato negli ultimi anni. D'ora in poi avrà un
ruolo molto più centrale.
Lo Stato Ebraico diventerà lo Stato
Yiddishkeit (esclusivamente ebraico). Con il Parlamentare Nir Orbach di Yamina
nel ruolo di portavoce. Il post che ha scritto spiegando la sua decisione di
sostenere il governo di Naftali Bennett è un documento illuminante: Mille
sublimi parole sul nulla. Una decisione politica personale presentata come se
avesse un'importanza mondiale sconvolgente. Un accordo politico di qualcuno che
ha cambiato partito un paio di volte, confezionato come un cambiamento
nell'ordine della creazione.
Scegliere uno dei due possibili governi
di destra, come se fosse una questione di "principio. "Quando Mosè
scese dal monte Sinai, sembrava meno sontuoso. D'ora in poi, qualsiasi modifica
alle leggi che regolano la sosta urbana sarà presentata come se fosse un ordine
divino. Tanto vale iniziare ad abituarcisi.
Il buon vecchio Hapoel Hamizrachi,
partito politico e movimento di insediamento, i cui capi si opponevano alla
campagna della Guerra dei Sei Giorni, è stato da tempo sostituito da messia fai
da te. Orbach esemplifica al meglio il cambiamento: Ai suoi occhi egli è il
vice del Messia. Cosa non ha incluso nell'elegante spiegazione della sua
decisione; loro, tra l'altro, sono sempre gli unici ad avere dei dubbi. Hanno
anche l'esclusività su valori e principi.
I termini chiave del suo post sono i
seguenti: Valori eterni e popolo eterno (che non ha paura); gli Amoraim
(divulgatori) e i Tannaim (portavoce/interpreti); la visione sionista e il
musicista Aviv Geffen; il popolare musicista Haredi Avraham Fried e 2000 anni
di esilio; non volontariamente (con loro, nulla è fatto volontariamente).
Lo stile fa parte dell'uomo, e va bene,
ma attenzione al contenuto: Il ritorno della retorica ripugnante, arrogante,
ultranazionalista di "una società modello" e "un faro per il
mondo". In un momento in cui Israele ha smesso da tempo di essere un
faro, una torcia tascabile o anche una parvenza di moralità per il mondo, ma è
piuttosto una specie di Stato Paria*, per molte buone ragioni, i sostenitori
della destra religiosa continuano a ingannare con i loro parlare di una società
esemplare. Anche Orbach pensa che non lo siamo più, se non altro da due
anni e solo perché non abbiamo un governo stabile. Fino ad allora, e presto
saremo di nuovo: un faro per il mondo, grazie alla sua decisione di sostenere
Bennett.
[* Il termine "Stato Paria "è
usato per descrivere una nazione che non è accettata o riconosciuta dalla
maggioranza dei governi di tutto il mondo.]
Questa mentalità deve essere presa sul
serio. È penetrata in profondità nella società israeliana, ben oltre la base di
Bennett. Molti israeliani, troppi, credono ancora nella storia assurda del popolo
eletto e del nostro diritto divino su questa terra. Apparentemente, non c'è
niente di sbagliato in questo; cosa c'è di male in un popolo soddisfatto di sé
fino allo stordimento? Ma come in ogni perdita di contatto con la realtà, anche
qui c'è una sindrome suicida pericolosa per i credenti e per chi li circonda.
Di che tipo di società modello sta
parlando Orbach? Quella che espelle i richiedenti asilo? Che caccia le persone
dalle loro case a causa della loro appartenenza nazionale? Quella che
imprigiona centinaia di persone senza processo? Che spara ai manifestanti? Un
faro per il mondo? Seriamente? Basterebbe che Israele fosse come tutte le altre
nazioni. In termini di moralità, è inferiore al più mediocre degli Stati. E
di quali valori eterni del sionismo religioso parla, come rappresentante di un
movimento che adora l'espropriazione di massa, che crede nella supremazia di
una nazione su un'altra in questa terra, che crede che una promessa divina
equivalga alla registrazione della proprietà, che sicuramente non c'è nessun
altro oltre a lui e che traduce le sue condiscendenti convinzioni in dottrina
politica?
Accondiscendono ai non ebrei e agli
ebrei laici. Sono uomini di principio, con i carri pieni schierati contro tutti
i carri vuoti. Sono più pionieri e più sionisti di chiunque altro. Non si
occupano di sciocchezze, ma solo del destino del popolo ebraico. Orbach non
è importante, il suo pensiero e il suo stile d'ora in poi saranno più
importanti. Fate attenzione alla luce accecante della religione, dell'ultranazionalismo
e della condiscendenza che egli rappresenta.
Gideon Levy è editorialista di Haaretz e
membro del comitato editoriale del giornale. Levy è entrato in Haaretz nel 1982
e ha trascorso quattro anni come vicedirettore del giornale. Ha ricevuto il
premio giornalistico Euro-Med per il 2008; il premio libertà di Lipsia nel
2001; il premio dell'Unione dei giornalisti israeliani nel 1997; e il premio
dell’Associazione dei Diritti Umani in Israele per il 1996. Il suo nuovo libro,
La punizione di Gaza, è stato pubblicato da Verso.
Traduzione di Beniamino Benjio Rocchetto
Israele lascia Gaza senza energia
elettrica - Amira Hass
Dieci
giorni dopo il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, le forniture di corrente
elettrica nella Striscia di Gaza erano ancora limitate, proprio come durante la
settimana e mezzo di ostilità. Fino alla sera di domenica 30 maggio
l’elettricità c’era solo tre o quattro ore al giorno. Dal giorno dopo c’è per
sei ore, seguite da dodici senza.
Questi
numeri vanno confrontati con quelli precedenti all’inizio del conflitto, quando
l’elettricità di solito era disponibile per otto ore consecutive. All’inizio
della settimana la Striscia di Gaza ha ricevuto appena 116 megawatt da Israele
e dalla locale centrale elettrica palestinese, rispetto ai circa 190 megawatt
di prima della guerra (una quantità comunque non sufficiente a soddisfare la
domanda locale di 500 megawatt).
La
drammatica riduzione di energia a Gaza è dovuta soprattutto alla decisione del
governo israeliano di sospendere le consegne di carburante alla centrale
elettrica palestinese a Gaza, nel tentativo di aumentare la pressione su Hamas.
In Israele cinque linee dell’alta tensione che fornivano elettricità a Gaza
sono state danneggiate durante questi combattimenti. Le riparazioni sono state
completate il pomeriggio del 30 maggio. Una fonte che lavora alla centrale
elettrica di Gaza ha dichiarato al Centro per i diritti umani al-Mezan della
Striscia di Gaza che come in passato è il Qatar a pagare il carburante usato
dalla centrale, che normalmente arriva da Israele tramite il valico di Kerem
Shalom, chiuso dal governo israeliano.
La
guerra dei giorni scorsi ha causato alla rete elettrica del territorio di Gaza
danni per circa 22 milioni di dollari
In
seguito alle interruzioni di corrente e alla carenza di carburante, anche gli
impianti per la depurazione delle acque reflue non stanno funzionando. Almeno
centomila metri cubi di rifiuti non filtrati provenienti dalle fogne sono stati
riversati ogni giorno nel Mediterraneo. Per lo stesso motivo anche gli impianti
di purificazione dell’acqua e quelli di desalinizzazione funzionano solo
parzialmente. Significa che centinaia di migliaia di abitanti di Gaza non hanno
accesso all’acqua potabile.
La
centrale elettrica locale sta erogando 45 megawatt invece dei suoi soliti 70.
La paura è che, nei prossimi giorni, la produzione cali ulteriormente o si
fermi del tutto. I generatori privati di quartiere, che di solito coprono i
blackout, funzionano solo alcune ore al giorno, e a volte neanche quelle, visto
che manca il gasolio. La situazione potrebbe peggiorare ancora se Israele non
abbandonerà la sua attuale politica.
I
tagli all’elettricità colpiscono anche gli ospedali di Gaza, che a loro volta
dipendono dai generatori. Questo mette in pericolo i pazienti, tra cui ci sono
le persone ferite nelle recenti ostilità e i casi più gravi tra i malati di
covid-19. A Gaza l’uso di pannelli solari è aumentato, ma è destinato
soprattutto al consumo domestico.
La
guerra dei giorni scorsi ha causato alla rete elettrica del territorio di Gaza
danni per circa 22 milioni di dollari (più o meno 18 milioni di euro). Nei
giorni scorsi l’azienda palestinese incaricata della fornitura elettrica ha
riparato le parti delle linee elettriche provenienti da Israele, sul lato del
confine di Gaza. Ma l’azienda ha detto all’associazione umanitaria israeliana
Gisha che, anche se dovesse trovare i soldi per i pezzi di ricambio necessari a
fare le riparazioni, non sa quando saranno consegnati questi pezzi, perché
Israele ha deciso di limitare il trasporto di beni diretti a Gaza solo alle
merci necessarie per scopi “umanitari”.
La
Israel electric corporation (Iec, la società elettrica israeliana) ha
completato le riparazioni alla linee elettriche israeliane che riforniscono
Gaza nel pomeriggio del 30 maggio. La Iec fornisce a Gaza 120 megawatt
d’elettricità attraverso dieci linee elettriche. Cinque sono state danneggiate
durante la guerra.
Le
riparazioni sono cominciate il 23 maggio, due giorni dopo l’entrata in vigore
del cessate il fuoco. Il lavoro è stato portato avanti anche se i dipendenti
della Iec avevano minacciato di non completarlo fino a quando due civili
israeliani dispersi e le spoglie di due soldati non fossero stati restituiti a
Israele da Gaza. “La Iec tratta tutti i suoi clienti nello stesso modo.
L’elettricità è un prodotto essenziale, non legato al conflitto”, ha risposto
la compagnia elettrica quando le è stato chiesto se le riparazioni erano state
sospese.
La
Iec ha aggiunto che i danni erano notevoli e che ogni linea è stata colpita in
vari punti. Per questo ci è voluto tanto tempo per individuarli e ripararli.
L’azienda ha dovuto chiamare anche altri operai. E infatti, a partire dalla
mattina del 31 maggio gli abitanti di Gaza hanno ricevuto sei ore di
elettricità continua, seguite da dodici ore senza corrente, con un aumento
delle forniture fino a 165 megawatt.
(Traduzione
di Federico Ferrone)
Come questi palestinesi hanno ostacolato
i coloni nel nord della Cisgiordania. La resistenza popolare a Beita - Ahmad
Melhem
Muhammad Hamayel, un quindicenne della città di Beita,
a sud-est di Nablus, nel nord della Cisgiordania, è stato ucciso dall'esercito
israeliano durante gli scontri avvenuti nella città l'11 giugno. contro
l'avamposto creato sulle terre di Jabal Sbeih nella città. La
città di Beita si è trasformata in un acceso punto di scontro tra i residenti
palestinesi , l'esercito e i coloni israeliani, che vogliono
stabilire un avamposto ,chiamato Avitar ,in cima a Jabal Sbeih (Monte Sbeih).
Dal 3 maggio la gente di Beita è impegnata in scontri quotidiani
che sembrano intensificarsi ogni venerdì, con la partecipazione dei residenti
delle due vicine città di Yatma e Qablan, per contrastare l'occupazione
da parte dei coloni. Gli scontri hanno portato alla morte di quattro
giovani: Muhammad Hamayel; Issa Barham, un medico di Beita ucciso il 14 maggio;
Tariq Sanubar, un giovane di Yatma ucciso il 16 maggio; e Zakaria Hamayel , un
insegnante di Beita ucciso il 28 maggio, mentre centinaia di altri
sono rimasti feriti .L'ultimo tentativo dei coloni di occupare Jabal Sbeih
è avvenuto dopo che un colono è stato ucciso al checkpoint di Zaatara da
Mutassim al-Shalabi il 2 maggio.
Moussa Hamayel, vicesindaco di Beita, ha
detto ad Al-Monitor che
i coloni avevano preso di mira Jabal Sbeih diverse volte, ma il loro recente
tentativo è stato il più pericoloso, poiché in pochi giorni hanno installato
più di 40 unità abitative mobili in un'area di 5 dunam (1 acro) su un'area
totale di 840 dunam (207 acri). Hanno anche pavimentato la strada sulla cima
della montagna, in un primo passo che consente loro di espanderla e
controllarla successivamente.
Ha sottolineato che Jabal Sbeih è una
posizione strategica vitale, poiché si affaccia sulla strada
principale tra le città di Nablus e Ramallah e corre adiacente alla strada che
porta a Gerico e alla Valle del Giordano. Inoltre dista solo 1 chilometro (0,6
miglia) dal checkpoint di Zaatara, il più importante checkpoint militare in
Cisgiordania. Hamayel ha spiegato che, ottenendo Jabal Sbeih, il checkpoint
e la montagna saranno collegati alla regione orientale della West Bank (la
Valle del Giordano), trasformando così il checkpoint in una grande e unica
porta d'accesso alla West Bank settentrionale, separandola completamente
dalla Cisgiordania centrale e meridionale. A causa della sua
posizione, Jabal Sbeih è stata soggetta negli anni passati a diversi
tentativi per stabilire un avamposto , ma i residenti hanno affrontato
questi tentativi ogni volta e hanno costretto i coloni ad andarsene.
Il primo tentativo è stato nel
2013, dopo
un attacco al checkpoint di Zaatara un colono, di nome Avitar, è stato ucciso.
I coloni hanno fondato l'avamposto con il suo nome . Tuttavia, dopo che
i residenti hanno organizzato marce popolari, l'esercito ha dovuto smantellare
l'avamposto.
Nel 2018, i coloni hanno cercato ancora
una volta di stabilire un avamposto dopo l'uccisione di un rabbino vicino
all'insediamento di Ariel, a nord di Salfit. Hanno installato case mobili e
fornito loro elettricità e acqua, ma i residenti li hanno affrontati, il che ha
spinto l'esercito a smantellare nuovamente l'avamposto .Il terzo tentativo è
stato nel 2020, quando i coloni hanno cercato di stabilire tre
avamposti nella città di Beita, ma senza successo. Il tentativo
più recente è stato a maggio e i residenti sembrano essere riusciti
anche questa volta ad affrontare i coloni. Il 7 giugno l'esercito
israeliano ha emesso un ordine militare che vieta la continuazione della
costruzione nell'avamposto di Jabal Sbeih, dichiarando l'area zona militare e
impedendo l'ingresso di materiali da costruzione. La proprietà deve essere
evacuata entro otto giorni. Hamayel ha dichiarato : “Finché
la decisione non viene attuata , rimane solo inchiostro su carta. Temiamo che
la decisione sia una manovra per guadagnare tempo per . Non abbiamo ancora
ricevuto alcun comunicato ufficiale". Ha aggiunto che il
consiglio comunale può esentare i cittadini dalle tasse finanziarie per la
fornitura di elettricità e acqua , ma non può fare altro a causa delle sue
limitate capacità finanziarie. "Ecco perché abbiamo invitato
tutte le istituzioni ufficiali e civili a sostenere i residenti, a sostenere la
loro fermezza e a incoraggiarli a rimanere nella zona".
Hudhayfa Badir, un residente di Beita
che possiede 5 dunam a Jabal Sbeih, ha detto ad Al-Monitor che la costruzione
dell' avamposto è fallita a causa della resistenza e della fermezza dei
residenti che si rifiutano di vendere un pollice della montagna ai coloni.Ha
sottolineato che i coloni hanno approfittato dell'interesse locale e
internazionale per quanto sta accadendo nel quartiere di Sheikh Jarrah e per la
guerra nella Striscia di Gaza, per installare tende e unità abitative mobili su
Jabal Sbeih .
Badir ha osservato che i residenti
adotteranno tutte le misure necessarie per contrastare eventuali futuri
tentativi , come intraprendere azioni legali per stabilire la proprietà della
terra e organizzare più attività a livello nazionale. Ha
sottolineato che, secondo quanto appreso dai residenti, i coloni hanno
cercato di eludere l'ordine militare dell'esercito di evacuare e smantellare
l'avamposto dell'insediamento a Jabal Sbeih, due volte, ma l'esercito si è
rifiutato di ritirare la decisione, E' importante che la comunità locale
e le istituzioni civili e ufficiali aiutino i residenti di Beita a
fermare le ambizioni sioniste, sia fornendo servizi di base, fornitura di
elettricità e acqua, sia pavimentando strade, per incoraggiare le persone
a rimanere nella zona sia portando avanti progetti come la bonifica di terreni
incolti e costruzione di strade. I
giovani della città continuano a organizzare varie attività, inclusa
quella nota come "confusione notturna", simile a quanto
avveniva vicino alla recinzione di Gaza nel 2019
Stella di David;Terra del mito - Stanley
L. Cohen
“Difendiamo
la giustizia, la verità e il valore di un singolo essere umano”. Con queste
parole semplici ma fortemente ispiratrici, una vita fa, il mondo ha sostenuto
la speranza che finalmente il diritto internazionale e la responsabilità
sarebbero passati da un principio astratto ed esoterico a un’applicazione
vincolante epocale. I tribunali di Norimberga hanno parlato direttamente al
dolore e alla sofferenza di decine di milioni di esseri umani trascinati nelle
camere geopolitiche dell’odio e della violenza suprematisti, vittime di una
furia senza precedenti dei pochi responsabili che hanno commesso una calcolata
e raccapricciante violazione dei diritti umani. Eppure, prima ancora che
l’inchiostro si fosse asciugato su ideali esaltati e parole imponenti, l’Europa
era ancora una volta, con l’impianto forzato di una generazione di vittime
sopravvissute nella secolare Palestina, indifferente a quante nuove vittime
furono schiacciate dal suo ultimo progetto coloniale, che continua sfacciato,
incontrollato e mortale a distanza di tutti questi decenni.
Cosa
c’è nel nostro viaggio condiviso che ci permette, con facilità, di accecarci
consapevolmente al dolore degli altri perché fa troppo male vedere l’ovvio? Ciò
smuove echi di dolore mentre le urla arrivano in ondate insopportabili che non
lasciano dubbi sulla sua orribile fonte di crimini, in corso, di famiglie
distrutte e sogni irrealizzabili? Cosa trova scampo nella negazione artificiosa
che non accetta alcun confronto da ondate di realtà poiché gestire la verità è,
apparentemente, ben oltre la nostra capacità collettiva? È la storia dei nostri
giorni. Stella di David, terra del mito.
Viviamo
in tempi in cui il metro della realtà è una misura che va oltre la portata
cosciente e solerte di molti, mentre per altri è solo uno sguardo passeggero e
indifferente, troppo intorpidito dalla rotazione della vita quotidiana per
fermarsi e sentire il dolore e la sofferenza di coloro che sono considerati
poco più di una momentanea istantanea di un altro mondo lontano. È all’interno
di questo degrado che la Stella di David ha trovato conforto, anzi rafforzamento
poiché ha ribaltato un sistema di valori ritenuto da tempo la via universale
della giustizia internazionale per tutti.
Per
generazioni, il mondo è stato in gran parte testimone silenzioso di un’impresa
occidentale sfrenata che ha cancellato milioni di palestinesi dalla loro
ininterrotta patria ancestrale in nome di un diabolico progetto di
reinsediamento costruito da inquilini con contratti di locazione duraturi
altrove che risalgono a quando l’Occidente è stato fondato. Sì, l’Antico
Testamento (e altre narrazioni storiche religiose) come provvidenziale progetto
biblico, parla del popolo ebraico e della Terra Santa come se non fossero solo
inesorabilmente intrecciati, ma apparentemente, è rivendicato ad esclusione di
tutti gli altri. Tuttavia, non dimentichiamo come la bellezza riposa
nell’occhio del proverbiale detentore, altrove nel testo sacro apprendiamo che
l’universo ha poco più di 6000 anni; Giosuè fermò il sole che si muoveva
attraverso il cielo; Lot, l’unico uomo giusto di Sodoma ha offerto le sue
figlie vergini per essere stuprate da una folla; un essere umano ha assistito a
una conversazione tra Dio e Satana; che una coppia di ogni animale stavano su
una barca per quaranta giorni mentre un’alluvione distruggeva il mondo; che
l’umanità era fatta di argilla; che il dio ebreo, YHYH, ha combattuto un mostro
chiamato Leviathan, o Rahab o Sir Sea; che il serpente nell’Eden parlava ad
Eva; che l’arpa di Davide veniva suonata di notte dal vento; e che Sansone
abbatté 1.000 Filistei con la mascella di un asino. Stella di David, terra del
mito.
Questo
non vuol dire che gli ebrei, come i musulmani, i cristiani e i non credenti
allo stesso modo, non abbiano alcuna pretesa di vivere in Terra Santa, in pace,
con l’uguaglianza e la giustizia fianco a fianco, ma semplicemente per fornire
un contesto alla predicazione del furto di terra di sionisti messianici
desiderosi e autorizzati a commettere il crimine più atroce perché parlano al
loro Dio e, dopo aver ricevuto risposta, hanno ricevuto il via libera secolare
per abusare, rubare, immobilizzare, uccidere in nome del loro fantasioso
“diritto al ritorno” biblico. Se questo è il decreto divino di YHYH, io per
primo non voglio far parte di un tale micidiale tempio teocratico di eresia. Ma
che dire degli altri, quelli che tengono gli occhi chiusi e il cuore gelido,
spogliati di principi e voce, silenziosi mentre l’orgia palpabile e indicibile
della storia si ripete giorno dopo giorno, prendendo di mira i palestinesi, in
particolare i suoi giovanissimi e molto fragili. Comunità antichissime che non
cercano altro che il diritto di essere lasciate in pace, con la famiglia e gli
amici, di occuparsi dei loro campi, di perseguire la loro istruzione, libere di
viaggiare dove desiderano, con chi vogliono, di inseguire i loro sogni e le
loro speranze, non semplicemente con il dogma deviante di “dignità e rispetto”,
ma in uno Stato di loro scelta con valori e aspirazioni di loro scelta. Stella
di David, terra del mito.
Tragicamente,
è fin troppo facile compartimentare il nostro mondo in carnefice e vittima,
donatore e ricevente. È definito chiaramente segnato da una linea, o dovrei
dire martoriato da una scia apparentemente infinita di saccheggi e dolore. In
nessun luogo è più evidente che nei Territori Occupati in nessun luogo più
prevedibile e senza scopo di quanto lo sia nei campi di sterminio di Gaza. Ho
scritto su Gaza per anni. C’è poco che posso dire, ora, che non sia stato detto
da me e da innumerevoli altri più e più volte. È una visione di estrema
crudeltà e criminalità a lungo memorizzata da tutto il mondo da leggere e
vedere, se solo la sete di conoscenza li porta oltre il pretesto vuoto e vile
di coloro che vorrebbero prendere di mira e uccidere i civili, lasciandosi
dietro il lamento costante del lutto e una scia di infrastrutture essenziali a
brandelli e cuori spezzati. Stella di David, terra del mito.
Ma
che dire dello stesso Israele, lo “Stato-Nazione” che esalta l’ideale
democratico ma tiene vicina e cara una teologia oscura e suprematista che
promuove l’ebraismo e gli ebrei con l’esclusione di tutti gli altri e le fedi
divergenti? Il 20% di Israele vero e proprio (se mai un termine improprio) è,
nelle parole di una pulizia etnica fondamentale, “48” arabi, non palestinesi,
come se si rifiutasse di fuggire dal grande massacro sionista del 1948,
reinventato da un atto politico di una cultura e una tradizione millenarie per
adattarsi alla nuova narrativa europea imposta e preconfezionata. Continua
imperterrita e imperturbabile oggi con la promozione di una realtà politica in
gran parte europea ashkenazita sfidata da una verità umana inconfondibile e
lampante. No, i “48” palestinesi non sono uguali in alcun modo, di conseguenza,
in qualsiasi momento di significato, quando vengono valutati contro lo Stato
Ebraico e il suo programma sionista che riduce tutti gli altri a soli
convenienti oggetti di scena rituali per i riverenti, coloro che non possono o
non vogliono discernere il travestimento del trucco retorico che copre
l’ineguaglianza al suo peggio. Stella di David, terra del mito.
Dov’è
l’Israele di oggi? Nel 2018, il suo Parlamento, la Knesset, ha approvato un
nuovo atto fondamentale denominato legge dello Stato Nazione che canonizzava la
supremazia ebraica su tutti i suoi cittadini palestinesi. In termini
inequivocabili, simili a un terremoto, la legge ha rimosso ogni pretesa sulla
natura di Israele, identificando lo Stato di Israele come lo Stato-Nazione del
solo popolo ebraico. La legge, che non promuove alcuna fedeltà a norme
democratiche o garanzie di uguaglianza, non menziona, per non parlare del
divieto, la discriminazione sulla base della razza, della nazionalità o
dell’etnia. Designando l’ebraico come unica lingua ufficiale di Israele, ha
privato l’arabo del suo precedente status giuridico legittimo. Riconosce solo
il popolo ebraico come titolare di un diritto nazionale all’autodeterminazione
e chiede la promozione di “insediamenti ebraici” all’interno di Israele con
l’esclusione di tutti gli altri gruppi, etnie e fedi. Costruita con
inconfondibili caratteristiche segregazioniste, la legge celebra atti
apertamente razzisti senza lasciare dubbi sullo status di seconda classe dei
cittadini palestinesi, definendo la sovranità e l’autogoverno democratico come
appartenenti esclusivamente al popolo ebraico del mondo, indipendentemente da
dove risieda. Nella parte rilevante, l’Atto 1 della legge afferma che “la Terra
d’Israele (“Eretz Israel”) è la storica casa nazionale del popolo ebraico, in
cui è stato costituito lo Stato di Israele, e in cui il popolo ebraico esercita
il suo naturale, diritto culturale e storico all’autodeterminazione che è
esclusivamente per il popolo ebraico”. L’Atto 2 limita i simboli di Stato, le
festività e le pratiche religiose riconosciute esclusivamente a quelli che sono
ebrei per storia e natura. Stella di David, terra del mito.
Secondo
la legge, centinaia di comitati di ammissione in tutto Israele hanno il potere
di respingere le richieste di cittadini palestinesi di vivere in comunità per
motivi di “incompatibilità culturale”, legittimando così le comunità in tutto
il paese designate per soli ebrei. Una recente sfida alle politiche di Stato
che cercano di controllare e purificare il paesaggio parla chiaro. Così, non
molto tempo fa, un tribunale dei magistrati alla periferia di Haifa ha negato la
richiesta per l’istituzione di una scuola araba o il finanziamento per i
palestinesi da portare in autobus verso le scuole vicine. Basandosi sullo
specifico obiettivo legislativo della legge dello Stato Nazione, la Corte ha
ritenuto che la presenza di cittadini / studenti palestinesi minerebbe il
“carattere ebraico” della città. In un altro tentativo riuscito da parte degli
israeliani di negare pari opportunità educative a tutti, non esiste una scuola
di lingua araba per una popolazione di circa 3.000 studenti palestinesi a Nof
Hagalil (un tempo Nazareth Ilit), una città in cui costituiscono il 26% dei
suoi residenti. Questa è la regola e non l’eccezione in Israele, dove i
cittadini / studenti palestinesi frequentano in gran parte scuole segregate a
cui sono stati negati uguali finanziamenti e risorse regolarmente distribuite
ai contemporanei ebrei emarginandoli e ponendoli in una situazione di
svantaggio educativo sistemico. In Israele, gli studenti palestinesi
economicamente svantaggiati non ricevono lo stesso livello di sostegno
finanziario degli studenti ebrei con le stesse esigenze finanziarie.
Altrove,
ai palestinesi vengono in genere negati appartamenti e case o terreni affittati
per uso commerciale designati solo per ebrei relegandoli in tal modo in quartieri
segregati e oppressi dalla povertà a causa della mancanza di servizi educativi
e religiosi o di pratiche abitative discriminatorie sancite dallo Stato. Questa
realtà è un risultato diretto e desiderato delle politiche di bilancio che
dirottano i fondi pubblici verso i consigli, le comunità e soggetti ebraici, e
non i palestinesi, allo scopo di garantire enclave ebraiche esclusive. Infatti,
le pratiche normative hanno ridotto significativamente le aree designate per i
consigli locali e le comunità palestinesi che ora hanno accesso a meno del 3%
del territorio israeliano. Di conseguenza, più del 90% di quella terra è sotto
il controllo statale e, quindi, soggetta alle normative dello Stato Nazione che
sono riuscite a limitare le nuove opportunità abitative e commerciali ai soli
ebrei. In un paese in cui i palestinesi costituiscono oltre il 20% della
popolazione totale e vivono in circa 139 città e villaggi, ricevono solo l’1,7%
del bilancio statale per i consigli locali. Niente affatto aberrante o involontario,
secondo il Centro Legale per i Diritti delle Minoranze Arabe in Israele Adalah,
Israele mantiene oltre 65 leggi che discriminano apertamente i palestinesi.
Per
esempio, i finanziamenti governativi sono negati alle istituzioni palestinesi
che commemorano la Nakba o sfidano, con la sola parola, l’esistenza di Israele
come “Stato Ebraico e democratico” o commemorando “il Giorno dell’Indipendenza
di Israele, o il giorno in cui è stato istituito lo Stato, come un giorno
di lutto”. Allo stesso modo, un’associazione o un partito politico non può
essere registrato se tra i suoi scopi vi è la negazione dell’esistenza dello
Stato di Israele o del carattere democratico dello Stato. La legge vieta la
candidatura di qualsiasi partito o individuo che neghi l’esistenza dello Stato
di Israele come Stato del popolo ebraico o il carattere democratico dello Stato
o che inciti al razzismo.
Inutile
dire che per disegno queste pratiche governative hanno inflitto gravi e
sproporzionati danni alla salute, alla sicurezza e al benessere dei cittadini
palestinesi in tutto Israele. Anno dopo anno la popolazione palestinese è
risultata essere molto indietro rispetto ai contemporanei ebrei in termini di
aspettativa di vita, mortalità infantile, morbilità, diabete e obesità. Esistono
lacune significative nella portata e nella qualità dei servizi sanitari forniti
ai residenti palestinesi del paese rispetto a quelli ebrei. In nessun luogo il
danno della legge dello Stato-Nazione è più concretamente visibile di quanto lo
sia per i cittadini beduini palestinesi che vivono sotto costante assedio da
parte di un esercito israeliano che regolarmente demolisce le loro case e i
loro villaggi, come non riconosciuti dallo stato. Diverse centinaia di migliaia
di beduini non hanno accesso ai servizi governativi, incluso nessun supporto
dalla rete elettrica israeliana o dal suo sistema di infrastrutture idriche.
Stella di David, terra del mito.
Israele,
e il suo coro, sono molto orgogliosi di esaltare e predicare i suoi ideali
democratici e le sue opportunità al resto del mondo, non importa quanto sia
chiaramente disperata e falsa la sua pretesa. Raramente passa giorno senza
un’apologia sionista per i suoi crimini contro l’umanità, i suoi crimini di
guerra, il suo Genocidio, affidandosi abilmente al consumato dogma che, in
quanto unica democrazia in Medio Oriente, ha il diritto di fare tutto il
necessario per proteggere il suo nobile appello a tutti i suoi cittadini. Per i
poveri, per gli oppressi, per i dissidenti, per quelli di diversa pelle, fede o
genere non c’è nulla di insolito o di unico in questo pretesto ormai senza
tempo. Israele non è il solo a gridare all’uguaglianza democratica che,
storicamente, ha significato poco più per molti della tirannia della
maggioranza.
Che
cos’è la democrazia? Non è stato un ideale democratico a devastare le comunità
indigene in tutto il Nord America; che ha aggredito l’Africa per rapire i
nativi come merce da vendere nei mercati degli schiavi nel sud; che ha negato
alle donne il diritto di voto e la piena uguaglianza in tutti gli Stati Uniti
riducendole a semplici oggetti di scambio per secoli? Chiedete a una musulmana
in Francia della democrazia che la spoglia del suo Hijab o del giovane
attivista tedesco imprigionato perché il suo linguaggio ha superato il limite
dell’accettabile. Eppure, la democrazia di Israele è un ineguagliabile sinistro
flagello sul corpo politico contemporaneo del mondo e lo è da più di 73 anni.
Un organismo mondiale che condivide la complicità e la colpa mentre è rimasto
in ozioso silenzio finanziando l’ininterrotta persecuzione di milioni di
persone la cui unica colpa è essere gli antichi proprietari della terra
consacrata che la Stella di David esige.
Quindi,
chi è questo David, questa stella usata per 73 anni per ravvivare lo stendardo
blu e bianco macchiato di sangue che ha contaminato sventolando l’antica brezza
sopra Jaffa, Haifa, Ashdod e dozzine di antiche città e villaggi palestinesi
strappando un dolore insopportabile da così tanti, per troppo tempo? Nel Libro
di Samuele, la leggenda vuole che David sia un giovane pastore che si guadagna
la fama uccidendo il gigante Golia, il titano dei Filistei che, come presagio
di tempi lontani a venire, arrivò in Terra Santa dall’Europa nel 12° secolo
prima di Cristo, come una sorta di precedente progetto coloniale, solo per
scomparire dalla storia circa 600 anni dopo. Oggi, David è quel gigante
bestiale e livido e il pastore sono i palestinesi.
Stanley
L. Cohen è avvocato e attivista a New York City.
Trad:
Beniamimo Rocchetto – Invictapalestina.org
La normalità israeliana che alimenta la guerra - Gideon Levy
Il 21 maggio a Tel Aviv hanno riaperto
la piscina comunale. L’amministrazione comunale era preoccupata che i nuotatori
potessero scivolare sul pavimento bagnato correndo verso i rifugi, perciò
l’hanno chiusa durante il recente conflitto tra Israele e Hamas. Gli abitanti
di Gaza possono sbellicarsi dalle risate oppure morire d’invidia, perché dalle
loro parti non ci sono né piscine né rifugi. Il 23 maggio, domenica, gli operai
palestinesi che stanno facendo i nuovi spogliatoi della piscina di Tel Aviv
sono tornati al lavoro.
La piscina è stata costruita sulle rovine
di una vasca d’irrigazione usata dal vecchio villaggio palestinese di Sheikh
Munis, ormai da tempo scomparso. I muratori hanno ripreso ad alzarsi alle tre
del mattino nelle loro case della Cisgiordania occupata per poter raggiungere i
checkpoint entro le cinque e il posto di lavoro entro le sei, per costruire
così agli ebrei degli spogliatoi come non se ne trovano nei loro villaggi.
Alle sei del mattino di sabato 22 maggio
il parco Hayarkon era pieno di persone che facevano jogging e andavano in bici,
felici di essere lì. Le conversazioni a tema militare (“Dove hanno preso i
missili Kornet?”) sono state gradualmente sostituite dalle normali chiacchiere
su velocità, distanze percorse e conteggio dei battiti. Ai campi da tennis
dall’altra parte della strada gli ultimi festaioli etiopi uscivano dallo sport
club “bianco” che il sabato notte si trasforma in discoteca “nera”. E da Gaza
continuavano ad arrivare le foto e i video: persone traumatizzate accanto alle
macerie, tendoni dove piangere i morti, l’edificio bombardato che ospitava il
ministero della sanità, e poi l’immagine struggente di un padre a piedi per
strada con in braccio il figlio neonato, che raccoglie fiori bianchi da un
cespuglio e li porge al bimbo.
K. T., la studente di medicina
all’università di Al Azhar a Gaza che ha realizzato quelle immagini, il 21
maggio ha esitato prima di uscire da casa per la prima volta dopo undici
giorni. “Sono stata molto titubante, ma poi ho pensato che era un momento
decisivo per la storia della Palestina, e che volevo vederlo con i miei occhi.
Voglio ricordare questi crimini e alimentare la mia rabbia”, ha scritto.
I posti di blocco sul confine di Gaza e a
Jaffa sono stati rimossi il 21 maggio, i rifugi a Tel Aviv sono stati chiusi il
23, e Galina, il cane scomparso mentre suonava la prima sirena, che i padroni
si sono messi a cercare appendendo un’infinità di poster nel parco, a quanto
pare non è ancora rientrato a casa: ti aspettiamo Galina, è tempo di tornare
alla normalità.
Questa routine causerà la prossima guerra.
Tutto quello che è stato e tutto quello che sarà fornirà il combustibile per la
prossima ondata di ostilità. Il blocco di Gaza continuerà, lo stivale
israeliano continuerà a schiacciare il collo della Cisgiordania, e nelle città
miste arabo-ebraiche continueranno le provocazioni contro ciò che resta della
comunità palestinese precedente al 1948, mentre il mondo continuerà a sostenere
Israele. Anche l’arroganza rimarrà la stessa: noi israeliani provocheremo e
tormenteremo, umilieremo e opprimeremo, restando convinti di poter continuare a
farlo senza ostacoli.
È difficile ammettere quanto Israele sia
disposto a investire nella guerra, senza investire niente per tentare di
evitarla. Come non si preoccupi affatto dei rischi di un’eventuale guerra, ma
tremi di paura di fronte a qualunque tentativo per impedirla. In Israele
parlare con Hamas è considerata un’opzione molto più pericolosa che
bombardarlo.
C’è almeno un israeliano con un piano per
la Striscia di Gaza? C’è un israeliano che sa cosa vuole Israele da Gaza, oltre
che la tranquillità per il proprio popolo? Dovrebbero forse lanciarci del riso
in onore dell’asfissia che gli stiamo imponendo? Gli abitanti della Striscia
dovrebbero accoglierci con entusiasmo per la devastazione che abbiamo seminato?
Dovrebbero perdonarci tutto quello che abbiamo fatto dal 1948 a oggi? Israele
ha mai usato nei confronti di Gaza un metodo diverso da quello unilaterale?
Poche ore dopo l’entrata in vigore del
cessate il fuoco Israele ha riposto una cieca fiducia in Hamas, aprendo strade
e scuole e chiudendo i rifugi. In altre parole, nella Striscia c’è un partner
di cui ci si può fidare, che mantiene le sue promesse. Forse dovremmo provare a
parlare con lui prima della prossima guerra, e non soltanto dopo. A Hamas non
mancano il coraggio o la disponibilità al sacrificio, molto più di quanto,
detto per inciso, ne abbiamo noi. Forse questo coraggio stavolta si tradurrà in
coraggio politico. Ci sono persone razionali anche a Gaza.
Ma queste sono parole vuote. Galina potrà
anche tornare a casa, ma Israele non imparerà nulla. Il generale in pensione
Israel Ziv tornerà negli studi televisivi a spiegare come dobbiamo colpire e
distruggere, accolto dagli applausi degli spettatori. Bentornati alla nostra
routine.
(Traduzione di Francesco De Lellis)
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Crescere
a Gaza è fonte di ispirazione per i poeti: la vita qui è poesia fatta a pezzi e
sparsa ovunque - Mohammed
Moussa
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I bambini
sfogliano avidamente i libri nella sezione bambini, i giovani esaminano le
copertine, gli studenti universitari cercano un posto tranquillo dove lavorare,
altri bevono il caffè mentre leggono. L’odore dell’incenso. Le pile
di libri. Lo striscione giallo con il nome Samir Mansour – la biblioteca e
libreria che ospitava i lettori più appassionati di Gaza.
Ero uno studente
di letteratura inglese – alla ricerca di romanzi, raccolte di poesie, libri da
tutto il mondo – quando l’ho trovato, indirizzato lì da amici che sapevano che
avrei trovato quello che stavo cercando.
La prima volta che
sono entrato, mi sono meravigliato delle sue decine di migliaia di libri e sono
uscito con una raccolta di poesie del defunto poeta palestinese Mahmoud Darwish
e un romanzo russo che era stato tradotto in arabo. Era la più grande
libreria di Gaza. Ora rimangono solo pochi libri – tra cui il romanzo di
Ghassan Kanafani Returning to Haifa – la storia di una coppia palestinese che
torna ad Haifa dopo la guerra del 1967 per cercare il loro bambino, che furono
costretti a lasciare nella guerra del 1948 ( Nakba). Come ha fatto quel
libro a sopravvivere a tutte le fiamme e a tutto il fumo per stimolare il
nostro desiderio ardente per la nostra patria scomparsa e la nostra Haifa
scomparsa?
Mi sono svegliato
alla notizia il 18 maggio. Quella mattina, alle 5:50 – le prime luci dell’alba
– la libreria era stata colpita da un missile israeliano. La mia memoria
si riempiva dei volti degli amici con cui ero stato lì, dei titoli e delle
copertine dei libri che avevo letto o comprato lì. I nostri libri
bruciavano, anche i nostri ricordi. I nostri luoghi più vitali venivano
spazzati via.
Ho scritto la mia
prima poesia nel 2014, mentre le bombe israeliane piovevano su Gaza, seduto in
un angolo della mia stanza durante le tre ore di elettricità che avevamo ogni
giorno, ascoltando la radio e il rumore di bombe, droni e ambulanze. Ho
digitato le parole: “Sono nato a Gaza”. Volevo parlare di quello che stavo
passando sulle note di un poeta o di un amante della poesia. Quando la
poesia è stata terminata, l’ho postata sui social media. Il giorno dopo ho
trovato un numero enorme di like e condivisioni; il mio messaggio era
stato consegnato.
Crescere a Gaza è
fonte di ispirazione per chiunque, ma soprattutto per i poeti: la vita qui è
poesia fatta a pezzi e sparsa ovunque. Nei matrimoni c’è poesia, in tempo
di guerra, negli occhi di un vecchio seduto davanti alla sua piccola bottega,
in lutto per la morte del figlio, nelle lacrime di un amante la cui fidanzata è
stata uccisa insieme a tutta la sua famiglia mentre dormiva nella sua casa,
nell’azzurro delle coste di Gaza, che mi porta dove voglio essere e mi riporta
a chi ero, tra le fiamme delle bombe che cadono sulle teste degli abitanti di
Gaza; commovente, questo posto può sicuramente farti diventare un poeta.
Nel 2018 ho creato
la prima comunità di parole recitate a Gaza, la Gaza Poets Society. È una
comunità di giovani aspiranti poeti – quasi 30 di noi in totale – che si
riuniscono per scambiare idee, condividere il nostro lavoro e connettersi con
altri poeti in altre parti del mondo. Una volta ci siamo riuniti sulla
spiaggia per condividere poesie e canzoni.
Per noi poeti,
vedere Israele prendere di mira Samir Mansour e altri centri culturali ed
educativi è stato penoso. Ho chiesto ad alcuni di loro di condividere i
loro sentimenti.
Quando ho
contattato Nadine – che è un membro della Gaza Poets Society – su Facebook per
chiederle come si sentiva, lei ha risposto “ancora viva”.
Per il diciottenne
del quartiere al-Nasr, nel centro di Gaza, scrivere poesie è una valvola di
sfogo in tempo di guerra.
“Due anni fa, ho
scoperto che mi piace molto la poesia”, spiega. “Dopo quella presa di
coscienza, tutto ciò che incontro nella mia vita lo documento su carta; le
mie lacrime e grida formano le mie poesie. Proprio così, scrivere poesie
diventa per me una via di fuga, un mondo tutto mio, lontano dal mondo in cui
vivo».
Scrive perfino
quando «divampano le fiamme della guerra».
Durante il più
recente assalto israeliano a Gaza, ha scritto questo:
“Là,
dall’altra parte,
il tempo
cambia, le ore passano e si fa più buio,
il cielo si
toglie la veste sbiadita, poi arriva il mattino,
ma qui dove
vivo e respiro, la vita indossa costantemente il suo vestito nero,
per piangere
la fatica della mia terra,
che ha
richiesto molto tempo.
Ecco,
l’orologio appeso, nella mia stanza è rotto,
non solo
questo, l’orologio di tutti è rotto qui,
mia madre
continua a dire:
tutti stanno
aspettando l’elisir,
l’abbiamo
avuto con il dolore e l’agonia,
in questa
terra santa dormiamo e ci svegliamo al suono dei bombardamenti e degli spari
così la prima
luce del giorno sorge la sera,
illuminando il
cielo con il sangue dei martiri,
qui la morte
dorme non lontano da noi,
tutti
camminiamo verso la libertà, verso la speranza,
camminiamo sui
vetri rotti delle nostre finestre rotte,
camminiamo su
pietre che un tempo erano una casa, portando storie e segreti,
camminiamo con
le urla dei bambini e i gemiti delle madri che pulsano ancora e ancora nelle
nostre orecchie”.
Nadine si descrive
come “una persona discreta, che trova difficile parlare di ciò che sente o
sperimenta a coloro che la circondano”. Si chiede se sia per questo che le
sue poesie sono “vibranti, realistiche e commoventi”.
Il suo poeta
preferito, dice, è Mahmoud Darwish, il poeta palestinese nato nel 1941 e morto
nel 2008 e che generazioni di palestinesi sono cresciute leggendo sui libri di
scuola e sui murales dipinti sui muri dei campi profughi, le cui parole fanno
parte della coscienza palestinese.
“Ogni volta che
leggo le sue poesie, mi ritrovo immerso nelle sue parole”, spiega
Nadine. “Ho sempre voluto scavare più a fondo quando scrivo le mie poesie
come ha fatto lui. Inoltre, mi piace come ha mescolato la realtà con le
sue emozioni per rendere la sua poesia così potente”.
Nadine crede che
vivere a Gaza abbia contribuito a farla diventare la poetessa che è oggi, ma
dice: “La scrittura non può essere influenzata dalle circostanze, perché non
importa cosa attraversi il poeta, lui o lei correrà sempre nel suo mondo, che è
la scrittura” .
Il suo messaggio
al mondo è: “Anche se la Palestina non è la tua questione nazionale o politica,
non dimenticare che è prima di tutto una questione umana”.
“Non c’è sfogo a Gaza se non la poesia, è
l’unico mezzo che porta le nostre anime ovunque vogliamo andare”, dice Maha
Jaraba, 22 anni, che viene dal campo profughi di al-Nusairat a Deir al-Balah in
centro di Gaza. Il campo sovraffollato ospita più di 80.000 persone,
quelle fuggite durante la Nakba nel 1948 e i loro discendenti. Maha studia
Business Administration presso l’Università Al-Quds ed è membro della Gaza
Poets Society.
“Siamo in mezzo al
buio, in mezzo alla desolazione, c’è solo una piccola finestra per far passare
la luce, nei nostri petti, e per liberare il nostro senso di indignazione o per
liberarci degli inciampi c’è solo la scrittura poesia», dice.
Tutto ciò che
circonda Maha la ispira a scrivere: la poesia è l’unico modo in cui può
sentirsi libera a Gaza, dice.
“Non credo che
sarei una poeta se fossi nata in una città diversa da Gaza, la vita più oscura
e squallida esiste solo qui. I problemi che affrontiamo, o le emozioni che
vivono dentro di noi, non esistono da nessun’altra parte. E questi
sentimenti sono ciò che ci ha resi poeti”, riflette.
Si rifiuta di
rimanere in silenzio sulle difficoltà e la brutalità che i palestinesi
sopportano: i continui attacchi a Gaza, la vita sotto assedio, la privazione
dei diritti fondamentali, l’uccisione di bambini. Crede che la comunità
internazionale stia facendo orecchie da mercante ai palestinesi, ma lei non
sarà messa a tacere.
“L’unica cosa che
ci solleva dai guai della guerra è la poesia. Mentre le bombe cadono,
scrivo. Mentre apprendo della morte della mia gente, scrivo ancora”, dice.
L’ultima poesia
che Maha ha scritto era una poesia in versi liberi, che esprimeva quanto fosse
terrorizzata di essere fatta a pezzi, di morire a pezzi, di non essere nemmeno
in grado di dire addio ai propri cari perché non possono più essere
identificati. Era seduta nella casa della sua famiglia mentre lo scriveva,
tutti i suoi parenti insieme in una stanza, ascoltando il suono delle bombe che
cadevano mentre scriveva. Pensava che potesse essere la sua ultima
poesia. “Mi è venuto in mente di fuggire, al riparo della vita, che non è
diventata una vita, oggi sono qui, domani sarò lì, e la paura è tra me e ciò
che sarò”, ha scritto.
“Scrivere è la
vita che ci manca, e Gaza è ciò che ci ha reso poeti, è ciò che ci ha fatto
scrivere poesie in lacrime, la scrittura è l’unica medicina gratuita in questa
città”, dice.
Quando le viene
chiesto quale sia il suo messaggio al mondo, lei risponde: “Voglio che il mondo
sappia che siamo qui, che abbiamo dei sogni. Vogliamo un domani migliore,
non solo per prenderci la nostra parte di dolore, ma anche per prenderci la
nostra parte di vita”.
Il bianco dei
suoi occhi prende l’ultima forma,
Quindi
sprizzano fuori e prendono la forma della carta.
Con
proiettili; spacca la bocca degli aerei da guerra –
e strappa le
zanne dell’uccisione e della distruzione.
Con
proiettili;
demolisce i
confini d’assedio:
e le pareti
del mondo che crolla
nel suo
egoismo.
Con proiettili
e sangue; disegna una patria libera
e una costa
lunga e sconfinata
per far
addormentare i ricordi.
Omar Moussa
Omar Moussa è un
poeta, giornalista e membro della Gaza Poets Society di 23 anni che vive nel
campo di Jabalia, il più grande campo profughi di Gaza.
“Di solito la
scrittura letteraria, con le sue diverse forme, ci apre una finestra che ci
permette di respirare soprattutto quando si tratta di parlare di quello che sta
succedendo dentro di noi, come pensi tu e penso io, e quando lo scrivi, sembra
che ci siamo rilassati”, dice Omar.
Omar crede che non
ci sia modo di fuggire da un posto come Gaza, nemmeno scrivendo
poesie. “Se vediamo la poesia come una porta per fuggire da Gaza, sembra
un lusso che la gente di Gaza non ha. La realtà è realtà: non puoi
ignorarla, e scrivere poesie è solo per imbrogliare questa realtà. Qui c’è
la morte, le macerie e un po’ di vita, ma tra le concrezioni della realtà c’è
un fiore che cresce, ed è il fiore della poesia».
Per Omar la poesia
è un tentativo di tradurre se stessi, di scomporre la realtà o di creare una
realtà separata da quella in cui viviamo.
I suoi poeti
preferiti sono Mahmoud Darwish, il poeta cileno Pablo Neruda (1904-1973) e i
poeti egiziani Amal Dunqul (1940-1983) e Ahmed Bakheet. “Per nessun motivo
in particolare, ti ritrovi interessato a un tipo specifico di poesia e non
interessato ad altri”, dice.
Quando chiedo a
Omar se spera che la sua poesia raggiunga le persone al di fuori di Gaza, lui
risponde: “Forse leggono le mie poesie, ma tutto quello che devo fare è scrivere. Se
voglio mandare un messaggio al mondo esterno, direi: ‘Ci sono quelli che
vivono, nonostante tutta la morte intorno a noi’”.
Riguardo al fatto
che scriva in tempo di guerra, riflette: “Penso che il destino sia colui che mi
sta scrivendo una poesia – [che sia] una poesia di morte o una poesia di vita,
tutto ciò che faccio in questo periodo è [provare a] sopravvivere alla colata
di lava dell’aggressione.”
DAI CONVITTI ALLA DETENZIONE: LE
VITE DEI BAMBINI CONTANO! - Benay Blend
“Sì, sto pensando
ai bambini palestinesi e anche ai bambini senza documenti” rifletté l’ attivista Dinè
Melissa Tso. “Vengono letteralmente uccisi ogni giorno da questi governi
di coloni”. Come “parte essenziale della [sua] cultura”, la corsa aiuta a
“elaborare le cose”, e così ha fatto la corsa delle 2.15 in memoria dei 215
bambini indigeni che sono stati trovati in una fossa comune nella
scuola residenziale di Kamloop in Canada.
Il 29 maggio 2021,
Aljazeera ha riferito che
i resti di oltre 200 bambini indigeni, alcuni di appena tre anni, erano stati
trovati nel sito di un’ex scuola residenziale nella provincia occidentale della
British Columbia.
“A nostra
conoscenza, questi bambini scomparsi sono morti senza documenti,” il capo della
prima nazione Tk’emlúps te Secwepemc Rosanne Casimir ha spiegato . Sono
tra le molte vittime di abusi mentali e sessuali, abbandono e altre forme di
violenza per 100 anni durante i quali i collegi sostenuti dalla chiesa hanno
operato in tutto il Canada.
Prendendo con la
forza i bambini dalle loro famiglie, le scuole hanno cercato di rompere i
legami culturali e familiari indigeni al fine di assimilare i bambini nella
società canadese bianca. Secondo Maskwasis Boysis ,
co-fondatore di Bear
Clan patrol-Calgary e presidente del comitato di giustizia sociale
Mimiw Sakihikan’Iyiniwak, circa 6000 bambini nativi sono morti nelle scuole
residenziali a causa di malattie, percosse, plotoni di esecuzione,
malnutrizione e e scosse elettriche, tra le altre forme di tortura e abbandono.
“Le scuole
residenziali hanno tolto i bambini alla terra”, continua Boysis ,
“per disconnettere le persone dalla loro cultura per sottrarre la terra ai
bambini”. Inoltre, questa forma di genocidio, dice, è in corso, poiché i
bambini sono ancora tolti dai loro “lignaggi ancestrali. Una delle cose
peggiori e più potenti su questa terra è lo sguardo negli occhi di una madre e
il dolore che prova quando le viene tolto ciò che ama di più in questo mondo”.
Poiché la violenza
è in corso, lo sono anche i traumi, le cicatrici mentali che sono di natura
generazionale in quanto vengono tramandate dai genitori ai figli in un ciclo
infinito di dolore. Tuttavia, “ciò che è successo ai bambini della
Kamloops Residential School”, scrive Adel Eskander
(assistente professore di comunicazione globale alla Simon Fraser University),
“non è né unico né sorprendente”. Come i progetti di insediamento dei
coloni ovunque, comprese le Americhe e la Palestina, gli “obiettivi”, continua,
“sono sempre stati una combinazione di appropriazione della terra, estrazione
di risorse e ingegneria demografica”.
Il rapimento dei
bambini indigeni, conclude ,
è stato “un progetto inteso a rappresentare i loro mondi come irrecuperabili,
creare nuove realtà sul terreno, scoraggiarne la resistenza”. In questo
quadro, ha senso dire che il trattamento che Israele riserva ai bambini
palestinesi sia più o meno lo stesso.
Infatti, nei
giorni scorsi, Israele ha lanciato una massiccia campagna di arresti contro i
palestinesi che hanno partecipato alle recenti rivolte contro il progetto
coloniale dello stato. Come osserva Abir
Kopty , gli agenti di polizia israeliani, la polizia di frontiera e i
membri dei servizi segreti dovrebbero arrestare circa 500 partecipanti a
proteste pacifiche.
Tra gli arrestati
ci sono bambini, tra cui Abdul-Khaliq e Mohammed Burnat, figli dell’attivista
di Bil’in Iyad Burnat. In un’intervista con
Robert Inlakesh, Burnat racconta la storia dell’aggressione israeliana che da
anni si scatena contro la sua famiglia. All’inizio di maggio, le forze
sioniste hanno ucciso suo nipote Islam, un ragazzo di 16 anni che stava
partecipando alle proteste. Da allora hanno ripetutamente invaso la sua
casa, insieme ad altre abitazioni, seminando scompiglio e arrestando i figli di
altre famiglie.
“Dopo che hanno
preso Abdul-Khaliq e Mohammed, mia moglie e mia figlia non dormono, le lacrime
non hanno lasciato gli occhi di mia moglie”, ha detto Iyad. “Il
mio figlio più giovane Mohyaldeen”, continua,
“sta
crescendo vedendo nient’altro che violenza. Sa che suo fratello maggiore
Majd è stato colpito da un colpo di arma da fuoco ed è quasi morto, anche suo
fratello maggiore Abdul-Khaliq è stato colpito molte volte e imprigionato
quando aveva solo 17 anni per 13 mesi. Non ha visto altro che violenza e
anche se è normale che ora accadano queste cose, ha ancora paura, è solo un
bambino”.
Abdul-Khaliq e
Mohammed sono ora nella prigione di al-Moskobiya, una struttura di detenzione a
Gerusalemme ovest che, secondo Inlakesh, ha la reputazione di utilizzare forme
di alto livello di tortura durante gli interrogatori.
Burnat riferisce infatti che il
suo avvocato, che ha comunicato con Abdul-Khaliq tramite lo schermo del
computer, attesta che il ragazzo afferma di essere stato messo in quella che è
nota come una “Sedia fantasma” per più di 15 ore al giorno per estrargli
informazioni che lui non ha. Secondo Burnat, la sedia fantasma è piccola,
in modo tale che mani e piedi possano essere strettamente legati per infliggere
il massimo del dolore.
Questi due ragazzi
sono tra i tanti bambini adesso nelle carceri israeliane. La giornalista
palestinese Zaina Halawani (recentemente arrestata mentre seguiva le proteste a
Sheikh Jarrah), ha documentato
la sua esperienza di ascoltare i bambini palestinesi che urlavano
chiamando le loro madri durante le poche notti che ha trascorso in prigione.
Nel 1948, il primo
ministro David Ben Gurion avvertì :
“Dobbiamo fare di tutto per assicurare che (i palestinesi) non tornino
mai”. Sperava infatti che “i vecchi moriranno e i giovani
dimenticheranno”, garantendo che non sarebbero tornati alle loro case.
Questo è forse il
motivo per cui l’esercito israeliano prende di mira bambini come Abdul-Khaliq e
Mohammed. Vogliono iniziare a spezzare la resistenza dei palestinesi
quando sono giovani nella speranza che lasceranno la loro terra. Era anche
la logica dietro l’allontanamento forzato dei bambini indigeni dalla loro
famiglia per mandarli negli ormai famigerati collegi, interrompendo così il
loro legame con la terra.
Fortunatamente per
gli indigeni nelle Americhe e in Palestina, quella strategia è
fallita. Oggi, 5 giugno 2021, ricorre l’ anniversario
della Naksa , la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, un periodo in cui
Israele ha supervisionato lo sfollamento di una gran parte della sua
popolazione palestinese e l’inizio di quella che oggi è conosciuta come
l’Occupazione. Per celebrare l’occasione, si terranno manifestazioni qui
ad Albuquerque, nel New Mexico e in tutto il mondo, sottolineando così il
desiderio dei palestinesi di mantenere il loro legame con la terra nella
speranza di soddisfare un giorno il loro diritto legittimo al ritorno.
Sulle terre
indigene del Minnesota, le persone si stanno radunando per resistere alla Linea
3 , una sezione del Dakota Pipeline che si propone di tagliare il
territorio di Anishinaabe, terra che circonda la regione dei Grandi Laghi e si
estende a nord verso la Baia di Hudson. Questa resistenza dimostra la
relazione spirituale tra i popoli indigeni e la loro terra, una connessione che
i nativi credono che l’oleodotto reciderà.
Dati entrambi
questi esempi, è chiaro che gli sforzi coloniali per “ripulire” etnicamente la
terra sono falliti. Come conclude Melissa
Tso ,
“Non
dovrebbero essere necessari i risultati di ciò che rimane del nostro popolo per
convalidare questa orribile eredità dei governi coloniali (Canada e Stati
Uniti). Rispetti la nostra umanità rispettando le verità della storia e
sostenendo la nostra lotta per la liberazione. Smettila di trattarci allo
stesso modo in cui i nostri figli sono stati maltrattati in residenze/convitti. Difendi
i diritti degli indigeni, sempre”.
Lo stesso dovrebbe
essere detto anche per i bambini palestinesi.
ESTENDERE LA NARRATIVA PALESTINESE:
PARLA HANAN ASHRAWI
Hanan Ashrawi è
senza dubbio la donna palestinese più famosa della sua generazione. Per decenni
è stata la voce instancabile ed eloquente della Palestina in tutto il mondo,
sostenendo la libertà delle persone e istruendo politici, decisori e cittadini
comuni sulla causa palestinese. Assolutamente femminista e progressista
dichiarata, Hanan ha costantemente riaffermato la capacità stimolante del
popolo palestinese di svilupparsi nonostante le difficoltà. Promuove la ricerca
di un terreno comune e la costruzione di ponti con altri movimenti sociali in
tutto il mondo basati sul rispetto e la parità reciproci. “La nostra lotta non
deve ridursi a chiedere simpatia o a dimostrare che meritiamo la libertà.
Dobbiamo stare in piedi e costruire partnership alla pari “, afferma.
Il popolo
palestinese ha vissuto di sumud per un secolo,
rifiutando la propria
disumanizzazione e cancellazione, proteggendo la propria identità e narrativa,
lottando per la libertà dall’impresa coloniale di Israele e nello stresso tempo
prosperando e
contribuendo all’umanità in tutti i campi. Sumud, spiega,
comprende il sostegno a
una società civile vibrante, attiva, diversificata, con principi che fa sentire
le voci di
cittadini, non lascia indietro nessuno e garantisce che i diritti delle donne
non siano
soppressi o messi da parte”.
Il contributo di Hanan alla Palestina va oltre la lotta per porre fine
all’occupazione coloniale israeliana. Nella sua lunga e ricca carriera
accademica, politica
avvocata, leader della società civile, parlamentare ed eletta nel comitato
esecutivo OLP
è stata anche una strenua sostenitrice delle donne, dei diritti, libertà
civili, libertà, buon governo e trasparenza. E’ accreditata per la creazione di
molte importanti organizzazioni della società civile, tra cui la Commissione
Indipendente per i diritti umani, e la trasparenza
l’ Iniziativa palestinese per la Promozione del Dialogo globale e la democrazia
(MIFTAH).
Proteggere e far
progredire i diritti delle donne sono parte integrante della capacità del
popolo palestinese di perseverare e raggiungere la libertà, Hanan afferma. In
una recente intervista
pubblicata sul sito della Fondazione Heinrich Böll diceva :” Non puòi negare
l’autodeterminazione,
giustizia e uguaglianza alle donne nella tua società e affermare che
stai combattendo nel loro insieme contro l’occupazione”. Lei ha ha dedicato la
sua carriera a far avanzare i diritti delle donne in Palestina e in tutto il
mondo, sostenendo la adozione della risoluzione 1325 delle Nazioni Unite, e
spingendo il governo palestinese aderire alla Convenzione sul l’eliminazione di
tutte le forme di Discriminazione contro le donne
(CEDAW), tra gli altri.
Nel dicembre 2020,
Hanan si è dimessa dalla sua posizione di membro
dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, Comitato Esecutivo, per
fare posto
alle donne più giovani. Anche lei ha reiterato il suo appello per le elezioni
e il rinnovamento delle istituzioni Palestinesi. Mentre le sue dimissioni hanno
causato un tumulto politico, società civile e attiviste per i diritti delle
donne non erano sorpresi che Hanan stesse
praticando ciò che predica: la necessità di un sistema politico democratico
responsabile, trasparente, inclusivo. Le dimissioni dal suo incarico politico
hanno liberata Hanan per quello che lei ama di più: costruire una robusta
società civile. “Riesco a malapena a mantenerecontatti con loro!” lei esclama
quando descrive le richieste che riceve da tutto il mondo.
Sottolinea che non ha bisogno di un titolo per continuare a servire le
persone, spiegando: “Ora sono libera di concentrarmi sull’empowerment dei
giovani e delle donne ancora di più, e per aiutarle diventare le leader che
possono essere.
Questo è il modo per garantire che la nostra la lotta e il nostro sumud
rimangono vibranti
ed efficaci.”
“La nostra complessa realtà e lotta ispira le persone di tutto il mondo.
Dobbiamo essere orgogliosi di chi siamo e ciò che rappresentiamo”, afferma
Hanan.
Lei crede che il sumud palestinese si rafforzi lavorando su tutti i fronti:
nazionale, arabo e internazionale allo stesso tempo, affermando:
“Non dobbiamo perdere di vista l’ intersezionalità della nostra causa e la
dimensione internazionale del nostro appello per la libertà.”
Traduzione a cura
di Alessandra Mecozzi
GRAZIE,
BELLA HADID. MA LA LOTTA PALESTINESE È “DI TENDENZA” GRAZIE A QUESTE PERSONE -
Israeliani, vi
piace il silenzio, vero? E amate un mondo in cui i palestinesi sono
completamente silenziosi. Siete i migliori nel mettere a tacere i bambini,
specialmente i bambini palestinesi. I 67 bambini che sono stati massacrati
dal meglio dell’aeronautica israeliana e che ora sono sepolti in profondità nel
terreno di Gaza sono stati messi a tacere da lontano, solo schiacciando un
pulsante, e sono diventati danni collaterali.
Sessantasette nuove tombe non hanno portato
all’ammissione di un orrendo massacro. Invece, tutto ciò che hanno fatto
gli occupanti che controllano l’opinione pubblica israeliana è stato tirare
fuori il discorso di simmetria delle forze ebraico-palestinesi, e così il
massacro è stato reso kosher.
E invece di un
grido oscuro e ululante multilingue che perfori i cieli di Tel Aviv fino a
quando gli assassini di bambini non vengano assicurati alla giustizia, abbiamo
sentito principalmente: “Come ha osato il redattore di Haaretz mettere le foto
dei bambini palestinesi massacrati sulla prima pagina del giornale ? Dove
sono le vittime ebree?”
Ma non solo ami il silenzio , sei anche bravo a creare
e utilizzare strumenti pratici, efficaci e crudeli di silenzio e
persecuzione. Questa volta, la macchina del silenzio che opera sotto gli
auspici della diplomazia pubblica israeliana ha funzionato senza sosta, perché
è ancora difficile mettere a tacere le tombe di 67 bambini
palestinesi. Secondo la dottrina della violenta macchina dell’informazione
israeliana, i palestinesi dovrebbero morire in silenzio, così come i danni
collaterali dovrebbero scomparire rapidamente, senza traccia o scia di ricordi
e lutti.
La macchina del
silenzio della diplomazia israeliana non si è impegnata in discorsi
sofisticati. Invece, ha ripetutamente tirato fuori le vecchie ma attese
accuse di antisemitismo. Ma era certamente coerente, diretto e
preciso. Ha segnato un colpo diretto, solo che questa volta, a differenza
del passato, il “bersaglio” non è tornato sulle sue posizioni come
previsto. La macchina ha inseguito personaggi politici e culturali, varie
celebrità, cercando di farli tacere con la forza.
Compresa la top
model americana di origine olandese-palestinese Bella Hadid, che è stata
perseguitata dalla diplomazia pubblica israeliana dopo aver partecipato a una
manifestazione di solidarietà per i palestinesi a New York. Hadid, 24
anni, nativa di Los Angeles e discendente di una famiglia di rifugiati
palestinesi sfollati nel 1948, è stata immediatamente accusata di aver chiesto
la cancellazione di Israele perché ha gridato “Dal fiume al mare, la Palestina
sarà libera!”
Devo ammettere che
non ho capito cosa ci fosse di sbagliato nell’affermazione di Hadid. Se
liberare la Palestina significa smantellare il regime dell’apartheid, è
fantastico.
Ma la volontà di
dividere, attaccare e silenziare non si è fermata qui. Un enorme annuncio
è stato pubblicato sul New York Times il 22 maggio, finanziato dal The World
Values Network del rabbino Shmuley Boteach, con le foto delle due sorelle
Hadid e la cantante Dua Lipa con la didascalia: “Hamas chiede un secondo
Olocausto, CONDANNIAMOLE ADESSO”
Questo attacco è
arrivato fino a House of Dior, che secondo molte fonti ha annullato un
consistente contratto con Bella Hadid. Queste voci hanno fatto arrabbiare
decine di migliaia di seguaci di Hadid, che hanno invitato a boicottare Dior perché
stava cercando di violare la libertà di espressione di Hadid. Dior, da
parte sua, non ha commentato; il mondo della moda insiste che queste erano
voci infondate. Hadid, accusata di antisemitismo, non si è tirata
indietro. Ha scritto su Instagram: “Si tratta di colonizzazione
israeliana, pulizia etnica, occupazione militare e apartheid sul popolo
palestinese che va avanti da ANNI!”
È satta Hadid che
ha reso la lotta palestinese sexy e persino mainstream? Sono state Viola
Davis, Susan Sarandon, Mark Ruffalo e Zayn Malik, che hanno anche messo tutto
il loro peso dietro la lotta palestinese? Sì e no. Da un lato, è
chiaro che una volta che una celebrità come Hadid o Ruffalo esprime sostegno
alla lotta dei palestinesi contro il regime dell’apartheid e contro la pulizia
etnica, il messaggio è che il tabù al centro del discorso sociopolitico
occidentale non esiste più. Hanno anche segnalato al mondo intero che si
può opporsi alla persecuzione e al silenzio israeliani, e persino avere
successo.
D’altra parte, né
Hadid né Ruffalo avrebbero potuto osare abbattere questo tabù senza
l’eccellente lavoro sul campo di movimenti civici come Sunrise Movement, Black
for Palestine, Black-Palestinian Solidarity e Black Lives Matter.
Questi movimenti
non solo hanno incrinato la coscienza americana, che fino a pochi anni fa era
impenetrabile per i palestinesi, ma hanno avuto un successo straordinario nel
collegare la lotta palestinese alla lotta dei neri, un gruppo che è escluso e
messo a tacere negli Stati Uniti, e presentandolo in termini più ampi senza
sacrificare il discorso e le circostanze palestinesi. Hadid e i suoi
coetanei sono cresciuti in un discorso in cui l’uguaglianza e la giustizia sono
il campo di tutti gli esseri umani e non solo dei padroni, e dove non c’è giustificazione
per il nazionalismo oppressivo e distruttore. In questo senso la scena era
pronta; la narrativa palestinese con tutte le sue sfaccettature è entrata
nel discorso e nella coscienza americana esattamente al momento giusto.
Il silenziatore ha
fallito miseramente non solo all’estero, ma anche a livello locale. La
nuova generazione palestinese, nata ironia della sorte, nel 2000, anno in cui
la coscienza dei cittadini palestinesi è stata bruciata nel fuoco e nel sangue,
non ha dovuto abbattere alcun confine, né interiore né fisico, per raggiungere
Sheikh Jarrah.
Questa
generazione, contrariamente a tutte le analisi sofisticate, ha aggirato
l’israelianità come se fosse niente. La sua coscienza non riconosceva
confini e divisioni intra-palestinesi vuote, gerarchiche e divisive, così sono
venuti a migliaia a Gerusalemme est per protestare contro la pulizia etnica a
Sheikh Jarrah, perché sapevano bene che sapore hanno l’oppressione, la
persecuzione e le uccisioni confermate. Questa generazione palestinese ha
trasformato l’identità palestinese sconfitta, vittimizzata e sottomessa in
un’identità di lotta. Venire a Sheikh Jarrah era per loro una
dichiarazione che stavano scegliendo la lotta invece della sconfitta.
Questa nuova
generazione palestinese, nonostante sia cresciuta in un discorso di sconfitta,
sacrificio e perdita, è riuscita a far leva e cambiare l’identità della
vittimizzazione principalmente perché non è stata ancora esposta direttamente e
sistematicamente alla violenza istituzionale e al razzismo israeliani. Di
conseguenza, la sua coscienza nazionale e politica non è stata ancora bruciata
dalla repressione politica e istituzionale, con arresti, indagini dello Shin
Bet e torture.
Questi giovani si
sono appena diplomati e non sono ancora entrati nel mercato del lavoro e nel
mondo accademico. E a differenza dei loro genitori e nonni, chiedono una
correzione dell’ingiustizia storica per il senso di una nuova orgogliosa
“palestinesità”, piuttosto che di una falsa “israelianità”. Questa generazione
si aggrappa alla palestinesità non come ad una logora identità nostalgica, ma
come una coscienza radicata nella lotta. Al momento questa coscienza è
sotto attacco violento da parte di Israele e dei suoi agenti. Questo
attacco include arresti, interrogatori e violenze fisiche e psicologiche, che
sono progettati per creare una coscienza del trauma che castrerà lo sviluppo di
una coscienza della lotta e della ribellione. Di conseguenza ecco questa
punizione brutale e la diffusa rabbia israeliana per la rivolta della nuova
generazione palestinese, che sta emergendo non solo in mezzo a un indebolimento
del dominio israeliano, ma principalmente a causa del rifiuto dei palestinesi
di accettare e interiorizzare la coscienza nazionale disfattista.
Questa nuova
generazione di palestinesi, che era fotogenica e amica dei media, indossava
Nike, Adidas e Prada e assomigliava persino alle loro controparti
occidentali. Questo era ciò che rendeva la palestinesità, la lotta
palestinese e le richieste del popolo palestinese sexy e persino mainstream,
non solo per i giovani nel mondo arabo ma anche, e principalmente, per i loro
coetanei occidentali.
Non sto,
ovviamente, sostenendo che sia stata la “modernità palestinese” a compiere il
lavoro politico, ma piuttosto che questa tendenza ha rafforzato la loro
immagine umana, ha normalizzato loro e la loro voce, in particolare nei
confronti dei giovani dell’Occidente . Al culmine del suo orgoglio e della
sua bellezza, questa nuova generazione palestinese ha incontrato la giovane
generazione occidentale, che l’ha vista come una generazione forte ed eroica
che lotta per la propria vita, terra e casa, e affronta da sola le forze del
male sotto forma dello stato israeliano: la connessione è stata immediata.
Grazie a questo
alone di eroismo, la nuova generazione palestinese ha potuto non solo catturare
i giovani dell’Occidente e spronarli a pubblicare video a sostegno della causa
palestinese, ma anche spingerli finalmente a schierarsi, a esprimersi contro il
regime dell’apartheid e la pulizia etnica, per opporsi alla politica estera dei
propri paesi e persino assumersene la responsabilità.
Ma soprattutto,
questa giovane generazione palestinese, scesa in piazza senza paura, ha
liberato i giovani dell’Occidente dalle proprie paure, in primis la paura delle
accuse antisemite, e li ha spinti a parlare contro Israele in modo aspro,
critico e duramente. Questa potente nuova generazione di palestinesi ha
liberato i giovani dell’Occidente dalle catene del ricatto emotivo e dai sensi
di colpa storici derivanti dall’Olocausto, inaugurando un dialogo politico
radicale.
Non si torna
indietro e non ci sarà silenzio. Israele può continuare a difendersi e a
massacrare indiscriminatamente i palestinesi, ma non sconfiggerà né la nuova
generazione palestinese né la voce dei giovani occidentali che hanno abbattuto
i confini della paura.
MUSTAFA
BARGHOUTI: PRESTO SAREMO LIBERI
(Intervista di Leena Dallasheh)
Il medico Mustafa
Barghouti è il segretario generale e cofondatore dell’Iniziativa nazionale
palestinese o Mubadara ( PNI ),
nonché fondatore e presidente della Società Palestinese di Soccorso
Medico. Come candidato alla presidenza alle
elezioni palestinesi del 2005 , Barghouti ha perso contro Mahmoud
Abbas in una competizione che – come tutte le elezioni dalla creazione
dell’organo di autogoverno provvisorio con gli accordi di Oslo del 1993 – si è
svolta in condizioni altamente antidemocratiche. Da allora, Barghouti è
stato membro del Consiglio Legislativo Palestinese e ha servito come Ministro
dell’Informazione nel governo di unità
palestinese di breve durata nel 2007 .
Ex membro del
Partito del popolo palestinese (ex Partito comunista palestinese), Barghouti è
sempre stato un attivista democratico e un difensore della resistenza radicale
non violenta. Una delle voci principali dell’unità politica del popolo
palestinese, ha lavorato instancabilmente per decenni per riunire le “tre
componenti” – i palestinesi che vivono nei territori occupati, in Israele e
nella diaspora – in un unico progetto.
In una
conversazione con Leena Dallasheh per Jacobin ,
Barghouti insiste sul fatto che le potenti proteste viste nelle ultime
settimane nella Palestina storica sono solo l’inizio di un crescente movimento
di resistenza. Discute dell’unità palestinese e l’obiettivo finale di
creare un progetto nazionale palestinese, così come le strategie internazionali
per promuovere la causa della liberazione palestinese.
Venerdì
21 maggio alle 2 di notte è stato dichiarato un cessate il fuoco tra Israele e
Hamas. Mi chiedevo se potessi darci una panoramica della situazione sul
campo in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza da allora.
Tutte le azioni
militari si sono completamente fermate, ma l’intifada continua – la rivolta
popolare in Palestina e le sue proteste per lo più pacifiche e non violente
continuano. Abbiamo avuto un gran numero di proteste due volte oggi,
venerdì. La prima ha avuto luogo alle 2 del mattino quando è stata emessa
la dichiarazione di cessate il fuoco: le persone sono semplicemente scese in
strada senza preavviso. C’è stata una grande manifestazione a Gaza, poi
grandi proteste a Hebron, Nablus, Ramallah, Betlemme e davvero
ovunque. Era una celebrazione di quella che la gente considerava una
vittoria.
A mezzogiorno di
venerdì, enormi proteste si sono scontrate con l’IDF in molti luoghi,
specialmente a Ramallah, Nablus, Jenin e Hebron. E l’esercito ha attaccato
i manifestanti con granate stordenti e lacrimogeni, ma anche con proiettili
ricoperti di gomma metallica. Anche a Gerusalemme i soldati hanno
attaccato i fedeli con granate assordanti e lacrimogeni, ma non è durato a
lungo.
In effetti,
nonostante il cessate il fuoco, quello che abbiamo è un’atmosfera continua di
rivolta. In un certo senso, il messaggio è chiaro: l’azione militare può
essersi fermata, ma la lotta di liberazione continua. La lotta per porre
fine al sistema di occupazione, pulizia etnica e apartheid continua.
Sheikh Jarrah
intanto resta chiuso dall’esercito, che non permette a nessuno di entrare nel
quartiere, né giornalisti né tantomeno medici. Durante questo periodo, i
coloni sono liberi di andare e venire e fare quello che vogliono.
Alcuni
hanno ipotizzato che gli scontri iniziati a Gerusalemme e l’escalation di
proteste che ne è seguita siano l’inizio di una terza
intifada .
In realtà penso
che siamo già in un’intifada. Ma ogni Intifada è molto diversa nelle sue
caratteristiche. Le proteste di oggi sono una vera rivolta. Quello
che vedo è un livello molto chiaro di impegno nei confronti dei tre principi
fondamentali che hanno caratterizzato la Prima Intifada: auto-organizzazione,
autosufficienza e contestazione israeliana sull’occupazione e sul sistema di
discriminazione.
Quindi pensiamo
che questa rivolta continuerà, ma pensiamo anche che questa volta l’obiettivo
sia un po ‘diverso da quello della prima e
della seconda
Intifada . La combinazione è diversa. Ci sono due
caratteristiche principali: in primo luogo, c’è un livello di unità
sorprendente e senza precedenti – forse [per la prima volta] dal 1936 – tra
tutte le componenti del popolo palestinese, sia che vivano nella regione del
1948 (conosciuta come Israele), se vivono nei territori palestinesi occupati
(Cisgiordania, Gerusalemme e Gaza), o nella diaspora
Ma qualcos’altro –
e molto importante – è che la rivolta ruota attorno a un obiettivo
comune. E questo è il mio secondo punto: l’obiettivo non è come prima, non
è semplicemente porre fine all’occupazione della Cisgiordania e di Gaza,
compresa Gerusalemme est. È più di questo. Si tratta anche di porre
fine al
sistema coloniale e al sistema di apartheid che Israele ha creato .
Quello che stiamo
vedendo qui è una lotta unificata. E i giovani in particolare sono molto
chiari su questo. Questa è una terza caratteristica: il livello senza
precedenti di giovani che si uniscono a noi. Molti giovani che non hanno
mai partecipato a nulla si stanno unendo a noi, e con grande entusiasmo, e penso
che sia quello che vedremo nei prossimi giorni.
Questo è ciò che
vogliamo: vogliamo che questa rivolta continui fino a quando non saremo liberi,
e prenderà forme diverse. La lotta è nonviolenta, e penso che quello che è
successo è che i palestinesi hanno combinato con successo la resistenza
nonviolenta e il loro bisogno di difendersi con
un’azione militare, quando sono stati attaccati dagli aggressori israeliani.
Come
lei sottolinea, molti sostengono che la cosiddetta unità palestinese “dal
fiume al mare” sta davvero
iniziando a realizzarsi in questi giorni. Puoi spiegare cosa ha portato a
questa unità?
L’oppressione
israeliana è ciò che ci univa. Human Rights Watch ha descritto molto bene
questa oppressione nel suo
rapporto ; è stata descritta
anche da B’Tselem , l’organizzazione israeliana per i diritti
umani. Ma anche prima, il primo riconoscimento di questa situazione è
arrivato forse due anni fa, in un rapporto scritto da alcuni dei più grandi
leader mondiali nel campo dei diritti umani. Quello che hanno dimostrato è
che i palestinesi in generale – quelli nei territori occupati e quelli nelle
aree di 48, così come quelli che vivono nella diaspora – sono soggetti allo
stesso sistema di apartheid.
Perché
l’unità palestinese sta accadendo ora?
La lotta è
maturata e diversi fattori hanno giocato un ruolo. A volte le persone
impiegano molto tempo per rendersi conto del tipo di problemi che stanno
affrontando. Nel caso della nostra gente nelle regioni del 1948, penso che
abbiano capito che il movimento sionista non permetterà mai l’uguaglianza. E
che se il sistema rimane così com’è, saranno ancora cittadini di quarta o
quinta classe, soprattutto dopo che la legge razzista sarà approvata alla
Knesset, la
legge dello stato nazionale. Questa legge dice che Eretz Israel –
questo è ciò che chiamano Palestina storica – è esclusivamente per
l’autodeterminazione del popolo ebraico. Penso che il popolo palestinese
all’interno di Israele capisca che l’uguaglianza accadrà solo se rovesceremo il
sistema nel suo insieme. E lo stesso vale per la
Cisgiordania. Sebbene in Cisgiordania siamo sotto occupazione militare,
soffriamo anche dello stesso sistema di apartheid, se non di peggio.
Secondo me, le
persone sono arrivate a capire esattamente cosa stava succedendo loro, e poi
hanno deciso di agire. Ovviamente, come al solito, la causa scatenante è
stata Gerusalemme e la moschea di Al-Aqsa.
Le
ultime tornate di escalation, in particolare in Cisgiordania, si sono
concentrate intorno a Gerusalemme e, infatti, Gerusalemme è stata usata
dall’Autorità Palestinese come una sorta di scusa per rinviare
le elezioni presidenziali e parlamentari del mese scorso .
La scusa usata
dall’Autorità Palestinese [che i residenti arabi di Gerusalemme Est non
potevano partecipare] non era giusta. L’Autorità Palestinese aveva paura
dei risultati elettorali. Noi [l’Iniziativa Nazionale Palestinese] non
avremmo accettato le elezioni senza Gerusalemme – impossibile, ovviamente – ma
siamo invece arrivati a credere che possiamo ancora tenere elezioni
nonostante le obiezioni israeliane e nonostante le restrizioni israeliane.
. Volevamo trasformare le elezioni a Gerusalemme in un’opportunità per
atti di resistenza non violenta. E credo ancora che sarebbe stata la
migliore opportunità per mostrare al mondo come le persone stanno cercando di
votare alle urne, e l’IDF sta cercando di fermarli.
Sfortunatamente,
l’Autorità ha usato Gerusalemme come scusa e ha cercato di presentare queste
persone che chiedevano elezioni come se fossero contrarie al loro svolgimento a
Gerusalemme. Ma non è vero: lo volevamo tutti a Gerusalemme. E
proprio di questo problema abbiamo discusso al Cairo: abbiamo deciso insieme
che, se Israele impedirà le elezioni, procederemo comunque facendone un atto di
resistenza nonviolenta.
A proposito, ciò
che l’Autorità ha richiesto all’epoca era la stessa procedura inclusa nel
processo di Oslo [limitazione degli elettori palestinesi idonei a Gerusalemme
est]. Questa procedura insulta noi, il popolo palestinese, e non avremmo
dovuto accettarla. Non dobbiamo continuare ad accettarlo: vogliamo
qualcosa di più. Perché limitare il voto a sole 6.500 persone, votando
negli uffici postali come se votassero per un altro paese e senza consentire la
presenza della loro commissione elettorale centrale? Nel 2005, quando mi
sono candidato alla presidenza, Israele ha negato a chiunque il diritto di fare
campagna elettorale. Quindi, quando l’ho fatto, sono stato arrestato
quattro volte in un mese. Ogni volta che andavo a Gerusalemme, venivo
arrestato.
Al
di là delle elezioni, Gerusalemme sembra diventare il luogo centrale per i
palestinesi e per Israele. Certo, Gerusalemme è sempre stata importante,
ma hai una spiegazione sul perché sembra essere stata l’epicentro di ogni
recente scontro?
Questa non è una
novità. È così dai tempi dei crociati. Il punto di svolta nella lotta
per liberare la Palestina dai crociati fu Gerusalemme. Quindi Gerusalemme
ha sempre avuto questa importanza. È la culla di tre religioni, e ci sono
tre importanti luoghi religiosi.
Gli ebrei hanno
pieno accesso a Gerusalemme, non importa dove vivono nel mondo, a differenza
dei musulmani e dei cristiani palestinesi, anche quelli che vivono in
Cisgiordania e, naturalmente, quelli che vivono a Gaza. Questa restrizione
alla libertà di culto era quindi un fattore importante.
Ma l’attacco
specifico ai fedeli di Gerusalemme è stato, ovviamente, un fattore
motivante. E l’altro problema sono i coloni a Gerusalemme est. I
coloni israeliani hanno continuato a invadere la moschea di Al-Aqsa e a
promuovere l’idea di giudaizzare gran parte della regione di Aqsa. Quindi,
ovviamente, è molto provocatorio. È un misto tra una provocazione
religiosa e una provocazione prevalentemente nazionale.
Il
precedente round di conflitto all’inizio del Ramadan era in realtà a Bāb
al-‘Āmūd – Porta di Damasco . E
prima delle espulsioni di Sheikh Jarrah, c’era un conflitto simile a
Silwan , sempre a
Gerusalemme. Quindi sembra esserci un aumento delle incursioni dei coloni
a Gerusalemme est.
A Silwan
hanno in programma di sfrattare da 120 case. A Sheikh Jarrah vogliono
espellere 500 persone. Queste sono persone che sono state oggetto di
pulizia etnica nel 1948; ora vogliono ripetere la pulizia etnica e
sostituire le persone che vivono lì con coloni legali che non hanno alcun
rapporto e nessuna proprietà del luogo.
Bāb al-‘Āmūd è
stato un altro esempio di uno spazio che gli israeliani hanno cercato di
conquistare. Era qui che le persone respiravano e si rilassavano durante
il Ramadan. Quello che sta succedendo a Gerusalemme è che le persone
vengono attaccate nei loro luoghi religiosi e nelle loro case.
Gerusalemme è
anche politicamente molto importante: è la capitale della
Palestina. Ricorda che gli ultimi negoziati di Camp David tra [Yasser]
Arafat e [Ehud] Barak sono falliti proprio a causa di Gerusalemme. E
questo ha portato alla seconda Intifada.
Vorrei
che sviluppassi la vostra visione di un rinnovato progetto politico nazionale
palestinese. Come vedi questo svolgersi?
Vedo questo
progetto politico composto da quattro principi. Primo, la fine completa e
assoluta dell’occupazione, inclusa l’occupazione di Gerusalemme est. In
secondo luogo, il diritto al ritorno garantito a tutti i profughi palestinesi
che sono stati costretti a vivere fuori dal loro paese. Terzo, porre fine
al sistema del progetto di insediamento coloniale dei coloni e, quarto, porre
fine al sistema dell’apartheid in tutte le parti della Palestina storica.
Oltre a tutti
questi fattori, se metti fine al sistema razzista dell’apartheid, i rifugiati
torneranno. Non ci saranno discriminazioni nei loro confronti. Queste
persone avranno il diritto di tornare, così come permettono agli ebrei di
venire in Palestina e ottenere la residenza e la cittadinanza israeliana
all’aeroporto, indipendentemente da dove vivono e da chi sono. Nel
frattempo, ai palestinesi, che vivono lì da migliaia di anni, viene negato il
diritto di esserci. Anche coloro che vivono ancora a Gerusalemme devono
dimostrare di aver diritto a questa residenza temporanea.
Immagina: occupano
la tua città, Gerusalemme Est, e rendono tutti residenti temporanei, mentre i
coloni israeliani diventano residenti permanenti. Non credo che ci sia mai
stato un sistema di apartheid come questo; è molto peggio di quello che
hanno costruito in Sud Africa.
Come
vedi la strada davanti a te?
Dobbiamo stabilire
politicamente l’unità palestinese. Abbiamo bisogno di una leadership
palestinese unificata per la resistenza popolare nonviolenta, e abbiamo bisogno
di una nuova strategia di progetto nazionale che sia un’alternativa a ciò che è
fallito – specialmente il processo di Oslo e l’accordo di Oslo relativo, e il
singolare ricorso ai negoziati senza alcuna lotta per cambiare l’equilibrio dei
poteri.
Oltre
all’enfasi sulla strategia interna palestinese, c’è anche una componente
internazionale?
Certo. La
strategia che proponiamo da cinque anni – e credo che questa strategia sia ora
adottata in tutto o in parte da altri gruppi – si compone di sei punti
principali. Primo, la resistenza popolare nonviolenta. In secondo
luogo, boicottaggio, disinvestimento, sanzioni, a livello internazionale e
locale. Terzo, mantenere la fermezza del popolo [ sumud in
arabo: resta nella terra e resisti], perché questo è l’elemento più importante
per mantenere il popolo palestinese sulla terra. Quarto, l’unità e la
creazione di una leadership di unità nazionale. Quinto, l’integrazione e
l’unità della lotta delle tre componenti [i palestinesi nei territori occupati,
nella diaspora e in Israele].
E, infine,
l’ultimo punto è lavorare con gli ebrei progressisti in tutto il
mondo. Vogliamo lavorare con coloro che sono contro l’apartheid e
l’occupazione israeliani, coloro che vedono ciò che Israele sta facendo e
vedono che ciò danneggia davvero la loro reputazione di popolo
ebraico. Ciò che Israele sta facendo è in contrasto con i valori morali in
cui credono gli ebrei. Ed è per questo che penso che questo sesto elemento
sia importante: possiamo trovare un modo per rendere la liberazione palestinese
una lotta comune.
Soldati israeliani fotografati mentre
aiutano a costruire un avamposto illegale in Cisgiordania - Hagar Shezaf
Le immagini ottenute da Haaretz mostrano le truppe israeliane che
prestano assistenza a Evyatar, un avamposto illegale destinato
all’evacuazione. Secondo l’esercito, i soldati hanno agito senza
autorizzazione e la questione sarà indagata
Le foto ottenute da Haaretz mostrano soldati israeliani che
prendono parte alla costruzione di un avamposto di coloni non autorizzato in
Cisgiordania che il ministro della Difesa Benny Gantz ha ordinato di
smantellare.
Le foto, che si pensa siano state scattate circa due
settimane fa, mostrano truppe che trasportano strutture temporanee prefabbricate
a Evyatar. I soldati, che nelle scorse settimane stavano sorvegliando
regolarmente l’avamposto, sono stati identificati.
I comandi dell’esercito hanno affermato che i soldati non
avevano ricevuto l’approvazione da un comandante e che, se necessario,
avrebbero avviato un’indagine e adottato provvedimenti disciplinari nei loro
confronti.
Evyatar è sotto un ordine di verifica topografica che
dovrebbe portare all’evacuazione dell’avamposto nel giro di pochi
giorni. L’ordinanza vieta inoltre di portare materiali da costruzione
nell’avamposto o di costruire al suo interno. Nelle ultime settimane, un
certo numero di politici ha visitato l’avamposto per mostrare il proprio
sostegno.
Giovedì, il presidente del partito Sionismo Religioso Bezalel Smotrich ha preso
parte a una cerimonia di inaugurazione del rotolo della Torah a Evyatar, mentre
i legislatori del Likud Miki
Zohar e Shlomo Karhi hanno partecipato a una manifestazione il mese
scorso. Anche il parlamentare di Sionismo Religioso Simcha
Rothman ha visitato Evyatar e il leader dei coloni Yossi Dagan vi ha trasferito temporaneamente il suo ufficio questa settimana.
L’esercito ha detto venerdì che le truppe dovevano
sorvegliare l’avamposto per proteggere i suoi residenti dai violenti scontri
verificatisi con i Palestinesi e che si sarebbe indagato sul coinvolgimento dei
soldati nella costruzione dell’avamposto.
I leader dei coloni sostengono che la terra su cui è stato
progettato l’avamposto non è stata ancora classificata dall’amministrazione
civile come proprietà privata o come proprietà dello stato. L’Amministrazione
Civile ha detto ad Haaretz che la questione era ancora in fase di esame.
Giovedì, Gantz ha criticato aspramente la
richiesta di Benjamin Netanyahu di ritardare l’evacuazione di Evyatar,
affermando che il primo ministro non ha autorità in merito agli ordini di
evacuazione.
In risposta alla lettera del primo ministro
di mercoledì in cui si affermava che l’ordine di evacuazione
dell’avamposto di Evyatar era improprio, l’ufficio di Gantz ha rilasciato una
dichiarazione in cui diceva: “Non c’è alcuna disposizione di legge in cui si
affermi che un ordine di evacuazione nell’area della Giudea e Samaria richiede
l’approvazione del premier».
L’ avamposto, costruito sul sito di una base
dell’esercito in un terreno di proprietà dei villaggi di Beita, Qabalan e
Yatma, è stato costruito in risposta all’attentato avvenuto in quel punto
all’inizio di maggio, in cui uno studente di yeshiva [scuola
ebraica], Yehuda Guetta, è stato ucciso.
L’avamposto prende il nome da Evyatar Borovsky,
un residente dell’insediamento di Yitzhar che è stato assassinato in
un attacco terroristico nel maggio 2013. Dopo il suo omicidio ci sono stati tre
tentativi di costruire un avamposto nel sito – nel 2013, 2016 e 2018 – ma
i caravan e altre strutture erette sul posto sono state rapidamente
evacuate.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Due
ex ambasciatori israeliani in Sudafrica si uniscono allo tsunami delle accuse
di “apartheid” contro Israele - Philip
Weiss
“È
l’ora che il mondo riconosca che ciò che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa
sta accadendo in Palestina… è l’ora che il mondo intraprenda un’azione diplomatica
decisiva… verso la costruzione di un futuro di uguaglianza”.
La notizia di oggi è che due ex ambasciatori israeliani in
Sudafrica hanno accusato il loro Paese di praticare l’apartheid creando
bantustan per i Palestinesi in Cisgiordania e a Gaza. “È apartheid, dicono
gli ambasciatori israeliani in Sudafrica”, scrivono Ilan Baruch e Alon Liel
su Groundup.
Questa è un’altra accusa di apartheid mossa da persone
serie in quello che Al Haq ha definito il
“riconoscimento crescente” e “la prevalente conclusione legale che vi sia apartheid
sul popolo palestinese nel suo insieme”.
C’è ovviamente una forte resistenza nel discorso ufficiale
americano. Prima di arrivare all’argomento di Baruch e Liel, vorrei notare
che negli ultimi giorni Bernie Sanders ha respinto l’accusa di apartheid dicendo
che i progressisti dovrebbero “abbassare i toni della retorica” e David
Makovsky ha detto che i critici chiamano Israele “con ogni sorta di cattivi nomi”. E la National
Public Radio ha dato una tribuna a uno studioso che ha definito l’accusa
“offensiva” per gli Ebrei.
Bene, ecco altri due Ebrei che fanno l’accusa di apartheid.
Baruch e Liel affermano di aver “imparato in prima persona
la realtà dell’apartheid e gli orrori che ha inflitto”. E mettono in
relazione il Sud Africa con le condizioni attuali in Cisgiordania, dove i
Palestinesi sono compressi in territori sempre più piccoli.
Questa realtà ci ricorda una storia che l’ex ambasciatore Avi
Primor ha descritto nella sua autobiografia a proposito di un viaggio in
Sudafrica nei primi anni ’80, viaggio che fece con l’allora ministro della
Difesa Ariel Sharon. Durante la visita, Sharon espresse grande interesse
per il progetto bantustan del Sud Africa. Anche uno sguardo superficiale
alla mappa della Cisgiordania lascia pochi dubbi su dove Sharon abbia ricevuto
la sua ispirazione. La Cisgiordania oggi è composta da 165 “enclave”, cioè
comunità palestinesi circondate dal territorio occupato dall’impresa di
insediamento. Nel 2005, con la rimozione degli insediamenti da Gaza e
l’inizio dell’assedio, Gaza è diventata semplicemente un’altra enclave – un
blocco di territorio senza autonomia, circondato in gran parte da Israele e
quindi anche effettivamente controllato da Israele.
I bantustan del Sudafrica sotto il regime di apartheid e la mappa
dei territori palestinesi occupati oggi si basano sulla stessa idea di
concentrare la popolazione “indesiderabile” in un’area il più piccola
possibile, in una serie di enclave non contigue. Scacciando gradualmente
queste popolazioni dalla loro terra e concentrandole in sacche dense e
frammentate, sia il Sudafrica di allora che Israele di oggi hanno lavorato per
contrastare l’autonomia politica e la vera democrazia.
Gli ex ambasciatori affermano ciò che Human Rights Watch ha
affermato quando ha pubblicato il suo rapporto sull’apartheid ad
aprile. Israele non ha alcuna intenzione di lasciare la Cisgiordania e
Gerusalemme Est, dopo 54 anni di occupazione.
L’occupazione non è temporanea, e non c’è la volontà politica nel
governo israeliano di porvi fine… È tempo che il mondo riconosca che ciò
che abbiamo visto in Sudafrica decenni fa sta accadendo anche nei territori
palestinesi occupati. E proprio come il mondo si è unito alla lotta contro
l’apartheid in Sudafrica, è tempo che il mondo intraprenda un’azione
diplomatica decisiva anche nel nostro caso e lavori per costruire un futuro di
uguaglianza, dignità e sicurezza sia per i Palestinesi che per gli Israeliani.
Ecco come Human Rights Watch si è espresso nel rapporto scritto da Omar Shakir:
Dopo 54 anni, gli stati del mondo dovrebbero smettere di valutare
la situazione attraverso il prisma di ciò che potrebbe accadere se un giorno il
languente processo di pace dovesse essere rianimato, ma dovrebbero invece
concentrarsi sulla realtà ormai di vecchia data sul terreno, che non mostra
segni di cedimento.
Il Carnegie Endowment ha avanzato un’argomentazione simile
quando ha chiesto ai governi di iniziare a usare i loro poteri –cioè le
sanzioni– per spingere Israele verso la parità di diritti. Un co-autore di
quello studio, Zaha Hassan, ha usato la definizione di “apartheid”, unendosi a
una lunga lista di voci morali, da Jimmy Carter a Marc Lamont Hill, a Charney Bromberg, a Stephen Robert, a Black
Lives Matter, a Rashida Tlaib.
Dieci anni fa un ex premier israeliano avvertì che il paese avrebbe
dovuto affrontare uno “tsunami diplomatico” a causa della sua
occupazione. “La delegittimazione di Israele è all’orizzonte”. Ora
quello tsunami sembra finalmente arrivare. Anche se ci potrebbe volere
ancora qualche anno prima che raggiunga il Campidoglio degli Stati Uniti.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
La censura politica nelle riviste
accademiche crea un nuovo pericoloso precedente - Rania Muhareb, Bram Wispelwey, Mads
Gilbert
The BMJ (British Medical
Journal)
Nel marzo 2020, The Lancet ha
pubblicato una lettera che avevamo scritto per avvertire la comunità medica dei
pericoli di un’epidemia di covid-19 nella Striscia di Gaza. Avvertivamo che la
pandemia aveva “il potenziale di devastare una delle popolazioni più
vulnerabili del mondo”. [1] Da allora, questa paura è diventata realtà e i
Palestinesi della Striscia di Gaza hanno subito un quinto assalto militare
israeliano su larga scala che ha ucciso 256 Palestinesi, tra cui 66 bambini,
ferito quasi 2.000 persone e causato circa 107.000
sfollati. [2,3]
Come avevamo evidenziato nella nostra lettera, decenni di
violenza strutturale contro i Palestinesi hanno portato il sistema sanitario di
Gaza sull’orlo del collasso. [4] Si tratta di un’area densamente popolata:
la maggior parte dei Palestinesi nella Striscia di Gaza sono rifugiati a cui,
dal 1948, è stato negato il diritto al ritorno. [5] Nel frattempo, la
chiusura illegale e il blocco di Gaza da parte di Israele a partire dal 2007
–cosa che corrisponde a una punizione collettiva– hanno fatto sì che le
forniture per i test del covid-19, il trattamento e la vaccinazione sono stati
gravemente limitati. [6,7]
Sebbene il razzismo strutturale sia stato sempre più riconosciuto
in tutto il mondo come una aggravante degli effetti del covid-19, la
pubblicazione della nostra lettera ha provocato una minaccia di boicottaggio
della rivista, come ci ha informato Richard Horton, il caporedattore di The Lancet. [8] Alcuni medici degli Stati Uniti e
di altri paesi avevano chiesto la rimozione della nostra lettera.
In precedenza, ci ha informato Horton, c’era stata una
simile campagna di “sanzioni” contro The Lancet per
aver pubblicato nel 2014 una lettera in cui si deplorava la morbilità e la
mortalità derivanti dalla violenza dello stato israeliano contro i Palestinesi
assediati di Gaza. [9-10] Secondo Horton, il tormentone che ne seguì
ebbe un costo personale “traumatico” sui dipendenti di The Lancet. Successivamente, The Lancet hapubblicato un’edizione
speciale sull’assistenza sanitaria israeliana che, a nostro avviso, non
tiene conto delle forze storiche e politiche che incidono sullo stato di salute
dei Palestinese. [11,12] Quella pubblicazione di The Lancet sembrava essere un avvertimento per
chiunque avesse osato affrontare le conseguenze delle azioni di Israele sulla
salute dei Palestinesi, azioni che sono ampiamente riconosciute come crimini di
guerra e crimini contro
l’umanità. [13]
The Lancet, ci dissero in
seguito, non poteva sostenere un’altra campagna di questo tipo e, nel giro di
tre giorni, la nostra lettera fu rimossa dal sito web del giornale. Fino
ad oggi, la ritrattazione formale degli articoli accademici è stata riservata
ai lavori contenenti “errori pervasivi, ricerca non riproducibile,
comportamento scientifico scorretto o pubblicazione duplicata”. [14] Nulla
di tutto ciò si applica alla nostra lettera. A nostro
avviso, la rimozione editoriale della nostra lettera da parte di The Lancet costituisce un nuovo pericoloso
precedente, in cui un articolo già pubblicato, ritenuto poi politicamente
sgradevole da forze extraeditoriali, finisce in una “terra di nessuno”
accademica: non formalmente ritirato, ma non recuperabile dal giornale
stesso.
Consentendo a potenti interessi politici esterni di
prevalere sul giudizio e sulle politiche editoriali, la rimozione di articoli
sottoposti a revisione prima di essere pubblicati infligge un duro colpo alla
libertà accademica. Purtroppo, stiamo parlando solo della punta elitaria
del grande problema della libertà accademica. Che dire di tutti i
Palestinesi che, a causa dell’occupazione in corso da parte di Israele, non
possono nemmeno accedere alle risorse necessarie per impegnarsi nel libero
scambio di idee o condividere la loro realtà vissuta? [15]
La nostra ultima esperienza di censura è in contrasto
con l’impegno di lunga data di The Lancet per
il progresso della sanità palestinese, in particolare grazie alla leadership di
Richard Horton. [16] Nel 2009, The Lancet hapubblicato
una serie di rapporti sulla sanità nei Territori Palestinesi Occupati. In
quella sede, Horton ha attirato l’attenzione su “La gabbia simile a una
prigione costruita intorno a Gaza, le umiliazioni quotidiane per donne, bambini
e lavoratori che passano attraverso i posti di blocco, la paralisi della
Cisgiordania causata dall’occupazione israeliana, [e] gli ostacoli imposti alle
comunità che cercano di costruire scuole, cliniche e case per i loro
figli”. [17] Questa serie di Lancet è stata
seguita dall’istituzione della “Lancet Palestine Health Alliance” (LPHA), che
ha continuato a organizzare preziose conferenze scientifiche annuali nella
regione. LPHA ha pubblicato centinaia di abstract
di ricercatori palestinesi e internazionali e ha fornito una
“piattaforma scientificamente valida per la difesa, la conoscenza e
l’azione riguardo alla sanità” in
Palestina. [18]
Nel frattempo, la coorte di medici che tentano di
minacciare e censurare attivamente qualsiasi scritto critico sulla sanità in
Palestina godono oggi di rispetto nei loro settori. Provengono
principalmente dalle società che hanno una storia di colonialismo di
insediamento, tra cui Israele, Stati Uniti, Canada e Australia, a cui
vengono regolarmente concesse piattaforme su riviste accademiche per
“bilanciare” la verità sulle politiche oppressive di Israele. [19,20] La
logica è che ci sono “due lati” in ogni storia che riguardi la sanità
palestinese, e quindi si deve dare uguale peso ad entrambi. Ciò che questo
approccio ignora, tuttavia, è il profondo differenziale di potere che
inevitabilmente sostiene il mito dell’insediamento coloniale, mentre nasconde
le esperienze dei colonizzati. Ma con i curricula delle scuole di medicina
che includono sempre più la medicina sociale e l’analisi delle
strutture, questo presunto “equilibrio” non resiste più. [21]
L'”epistemicidio” [uccisione della conoscenza] in corso della storia
palestinese e delle realtà attuali ha un rimedio urgente: dobbiamo sfidare e
correggere attivamente la narrativa dominante promuovendo narrazioni subalterne
e decoloniali. [22] Espandere il discorso nelle riviste mediche
accademiche sul razzismo strutturale come causa principale delle disuguaglianze
di salute è un passo nella giusta direzione necessario da tempo. [23]
Ma Lancet non ha preso
questa strada. A distanza di ben sei mesi dalla censura fatta a noi, Lancet ha pubblicato una lettera in risposta alla
nostra corrispondenza cancellata. Scritta da Zion Hagay, presidente
dell’Associazione medica israeliana –un’istituzione la cui complicità nella
tortura è ben documentata– la risposta al nostro pezzo non è riuscita a
contestare nessuno dei nostri argomenti al di là del riferimento a un commento
delle Nazioni Unite ora ripetutamente criticato sullo stretto coordinamento tra
occupanti e occupati. [24-26] Il suo unico altro riferimento era alla
nostra lettera scomparsa, con un link che però non porta da nessuna
parte. Come abbiamo scritto in una risposta ad Hagay: “Anche se la nostra
corrispondenza non è più visibile sul sito web di The Lancet… la disperazione che la sua scomparsa
forzata rivela e la propaganda facilmente smentita contenuta nella risposta di
Hagay, suggeriscono che sempre meno professionisti della salute saranno
ingannati in futuro.” La risposta dei nostri autori è stata respinta
da The Lancet.
Eppure, la storia non è finita qui. Abbiamo inviato un
commento a un’altra rivista Lancet il cui
caporedattore ci ha informato che il gruppo Lancet è stato recentemente oggetto di
“boicottaggi molto dannosi” durante la pubblicazione di contenuti critici delle
politiche e delle pratiche israeliane che non fossero accompagnati da un
“contrappunto dal punto di vista israeliano”. Poiché un tentativo di
sollecitare tale contrappunto si era rivelato infruttuoso, la pubblicazione del
nostro commento non poteva andare avanti. Riteniamo che le lezioni della
nostra esperienza siano chiare: la narrativa palestinese può essere espressa
solo quando è contemporaneamente sconfessata, mentre la narrativa israeliana –
in questo caso la risposta di Hagay – può reggere da sola. Questo notevole
doppio standard conferma che le cosiddette politiche di “equilibrio” proteggono
tutti tranne gli oppressi.
Holmes et al. hanno osservato che “i medici sono in
una posizione particolare per rispondere alle strutture sociali, politiche ed
economiche che influiscono sulla salute dei nostri pazienti”. [27]
Tuttavia, questa nuova forma di censura tramanda diagnosi errate delle cause
profonde della cattiva sanità palestinese, limitando la capacità dei medici di
rispondere e aiutare efficacemente. A nostro avviso, imporre la censura
sulle riviste accademiche come diretta conseguenza di minacce esterne è un
percorso pericoloso e del tutto inaccettabile. Un compito urgente per la
comunità accademica è sviluppare una posizione forte che possa proteggere le
riviste, i loro editori e il personale, respingendo i medici e gli scienziati
che fanno pressione sui giornali per imporre la censura.
Nonostante il continuo silenzio e una passione per
l’illusorio “equilibrio” nelle pubblicazioni sulla Palestina, i professionisti
della salute si stanno mobilitando sempre più contro la violenza strutturale
che colpisce il popolo palestinese nel suo insieme. [28] Siamo
incoraggiati dagli appelli per la decolonizzazione degli studi sulla Palestina,
dalla solidarietà basata sull’evidenza e dalla resistenza accademica al
colonialismo d’insediamento e all’apartheid. [29] Poiché la pandemia
continua a mettere in luce disuguaglianze sanitarie strutturali profondamente
radicate, con conseguenze umane devastanti, è imperativo non solo affrontare le
violazioni alla libertà accademica, ma sfidare le dinamiche del potere
coloniale ancora prevalenti nella medicina accademica.
Rania Muhareb è
PhD Scholar presso l’Irish Centre for Human Rights presso la National
University of Ireland, Galway, consulente dell’organizzazione palestinese per i
diritti umani Al-Haq e membro politico di Al-Shabaka – The Palestine Policy
Network.
Bram Wispelwey è
cofondatore di Health for Palestine e direttore medico di 1for3. Insegna
al Brigham and Women’s Hospital e alla Harvard Medical School.
Mads Gilbert è
uno specialista in anestesiologia, consulente senior presso l’Ospedale
universitario della Norvegia Settentrionale e professore emerito presso l’Università
Artica della Norvegia a Tromsø. È autore dei libri Eyes in Gaza (2009) e
Night in Gaza (2014). Dal 1981 ha lavorato con la medicina solidale in
Libano e nella Palestina occupata e ha co-fondato il Norwegian Aid Committee
(NORWAC).
Conflitti di interesse:
nessuno dichiarato.
Riferimenti :...
.
Traduzione di Donato Cioli – AssopacePalestina
Perché uno Stato per
due popoli - Vera Pegna
Ai palestinesi è sempre più chiaro che è preferibile
battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato invece che
accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione due popoli
due stati. Fra gli israeliani la situazione è più complessa
Attualmente
circolano due proposte di soluzione alla cosiddetta questione
israelo-palestinese. La prima, quella dei due popoli due Stati sostenuta
dall’intera diplomazia internazionale, attribuisce ai palestinesi non uno Stato
sovrano bensì un territorio di circa il 20% della Palestina, collegato a Gaza
con un tunnel e inframmezzato dagli insediamenti di 700.000 coloni israeliani
comunicanti tra loro con dei cavalcavia di proprietà israeliana; per giunta,
questo non-Stato sarebbe totalmente dipendente da Israele per la fornitura di
energia elettrica, telefonia mobile, aeroporto e altri servizi essenziali; né
avrebbe come capitale Gerusalemme est, bensì un sobborgo di questa chiamato Abu
Dis.
Avete
capito, palestinesi? È prendere o lasciare.
Della
seconda proposta, quella di un unico Stato per i due popoli, la diplomazia
internazionale non parla, né tantomeno ne parlano i media. È radicalmente
diversa dalla prima, in quanto parte dalla constatazione della realtà sul
terreno, ovvero dal fatto che nel territorio della Palestina storica esiste un
solo Stato, Israele – senza confini stabiliti – con a fianco e senza soluzione
di continuità la Cisgiordania, cui si aggiunge Gaza; l’intero territorio è
governato da un’unica autorità, il governo israeliano che, a suo piacimento, ne
annette pezzi, erge muri e impone regimi politici diversi alle popolazioni ivi
residenti: pieni diritti di cittadinanza agli ebrei, diritti minori ai
palestinesi d’Israele (chiamati arabi d’Israele, cristiani, drusi, beduini sì
da confondere la loro comune identità nazionale), apartheid per i palestinesi
della Cisgiordania e ghettizzazione di Gaza.
La
differenza fra le due proposte salta agli occhi: quella dei due popoli due Stati
garantisce a Israele, in cambio della sua funzione di difesa degli interessi
occidentali nel Medio Oriente, il compimento del progetto sionista di uno stato
ebraico in Palestina, con il minore numero possibile di palestinesi (si fa di
tutto per farli uscire di scena ma loro non mollano); con ogni evidenza è una
proposta che parte, non dall’intento di trovare una soluzione duratura di
convivenza pacifica fra i due popoli, bensì da una visione verticistica e
eurocentrica della difesa degli equilibri geopolitici della regione.
La seconda
proposta, quella di uno Stato due popoli, è tabù in quanto volta unicamente a
una prospettiva pacificatrice; ma anche in quanto si pone in controtendenza
rispetto alla visione geostrategica delle grandi potenze e dei loro alleati:
quella di un’Israele forte ed egemone in un Medio oriente di ex stati sovrani,
anomici e in disgregazione (Afghanistan, Irak, Siria, Yemen, Libia).
Non
sopravvaluto il crescente, anche se ancora limitato, gradimento che tale
proposta suscita nei popoli interessati. Ai palestinesi è sempre più chiaro che
è preferibile battersi per i propri diritti all’interno di un unico Stato
invece che accettare la resa incondizionata a Israele insita nella soluzione
due popoli due stati. Fra gli israeliani la situazione è più complessa. Oltre
il venti percento della popolazione è composta da palestinesi, oltre il
cinquanta percento è di provenienza araba e sefardita (fra cui i miei avi) e
solo il venti percento è di origine europea; però è quest’ultimo gruppo che costituisce
l’establishment e, con l’arroganza tipica dei colonialisti europei verso i
popoli oppressi, ha sempre disprezzato tutto ciò che è arabo e sostenuto
l’equazione fra palestinese e terrorista; come pure i media israeliani, la cui
libertà è valutata all’ottantaseiesimo posto dal World Press Freedom Index.
Tuttavia,
se è vero che l’idea di convivere con i palestinesi non è gradita alla grande
maggioranza della popolazione, è anche vero che si moltiplicano le imprese
comuni e i matrimoni misti e che nascono gruppi di cittadini che militano a
favore dello stato comune ai due popoli.
Non
sottovaluto le obiezioni, gli ostacoli, i ricatti e magari anche il peggio di
cui sono capaci i potenti alla sola idea di perdere le loro posizioni di forza,
ma nulla inficia la possibilità di prendere atto della realtà e dichiarare
l’esistenza di uno Stato comune a entrambi i popoli; non domani, s’intende, ma
in prospettiva, perché appunto di prospettiva si tratta, cioè di un processo
politico lento, volto a svelenire il clima di odio diffuso e porre le basi di
una convivenza pacifica. Non un sogno, ma un futuro possibile: a patto che lo
si voglia.
Perché non celebro la
legge che vieta il commercio e l’uso delle pellicce in Israele - Grazia Parolari
La recentissima approvazione in Israele
della legge che vieta il commercio e l’utilizzo di pellicce animali potrebbe
apparentemente non essere accolta che positivamente, soprattutto considerando
che anche in Italia ci si sta battendo da anni per raggiungere un simile
risultato. A seguito di tale impegno per esempio, grandi marchi di
moda come Versace e Armani, e prossimamente Valentino, non utilizzano e non
vendono più pellicce animali, così come, alla luce dei rischi di zoonosi
evidenziati dal Covid 19 e dalle vicende riguardanti gli allevamenti di visoni,
si sta ripetutamente chiedendo al Ministero della Sanità la chiusura definitiva
di tali allevamenti.
Tuttavia la notizia, per quanto possa
sembrare entusiasmante, non può esimere da alcune riflessioni, per le quali è
necessario innanzitutto acquisire un panorama più ampio dell’iter di proposta e
infine approvazione di tale legge.
Il disegno di legge è stato realizzato
dall’International Anti-Fur Coalition (IAFC), un’organizzazione che riunisce 50
organizzazioni anti – pelliccia in tutto il mondo e la cui fondatrice è
l’israeliana Jane Halevy. Proposto nel 2009, con il sostegno di Peta Israel
(People for the Ethical Treatment of Animals), il disegno ha avuto un percorso
lungo e complicato.
Approvato in prima lettura dalla
Commissione Ministeriale, il disegno di legge, che necessitava di passare tre
esami per poter essere presentato alla Knesset, venne in seguito sconfitto due
volte dopo pesanti pressioni da parte delle industrie di pellicce canadesi e
danesi (Israele non ha un’industria propria, tutta la pelliccia venduta nel
Pease è importata, principalmente da Stati Uniti, Canada e Danimarca). Nel 2017
il Consiglio di sicurezza nazionale israeliano emise una nota mettendo in
guardia sul pericolo che il disegno di legge, compromettendo i rapporti con
Danimarca e Canada, avrebbe potuto mettere a repentaglio “la sicurezza di
Israele”.
Il disegno di legge quindi, a
differenza di quanto affermato da IAFC, ovvero che non rivestisse una questione
politica, risultò interessato da una potente rete di interessi economici
stranieri privati e di dinamiche di politica internazionale e, cosa non inaspettata, venne
inoltre usato funzionalmente all’agenda e agli interessi nazionalisti di
Israele.
Quando il progetto venne introdotto per
la prima volta nel 2009-2010, il ministro dell’agricoltura laburista Shalo
Simhon affermò: “Noi (Israele) dovremmo dare l’esempio al
resto del mondo sulla questione”, riecheggiando con queste parole
la rappresentazione dell’identità nazionale di Israele come eccezionale e come
“faro di luce per le nazioni”, idea già radicata nei primi miti sionisti come
la “dottrina della scelta divina” che conferisce agli ebrei una “missione
morale unica”.
Ecco quindi che oggi puntualmente viene
sbandierato lo status speciale di Israele come paese illuminato e progressista,
presentando l’approvazione della legge come un risultato eccezionale e come
esempio a cui gli altri Paesi devono guardare, perfetto strumento di
quell’hasbara che cerca di distogliere l’attenzione dall’abuso dei
diritti umani verso i Palestinesi e dalla brutale politica di occupazione.
Il disegno di legge è stato
anche sfruttato come strumento del cosiddetto “soft power” israeliano, presentato
dalla stessa Jane Havely come “rara opportunità” per promuovere l’agenda di
Israele tra le comunità che tradizionalmente criticano il Paese convincendo i
liberali e i progressisti della sinistra occidentale, spesso schierati contro
gli abusi sugli animali, che Israele non sia così “cattivo” come rappresentato
dai media di sinistra.
Ma questa legge, è davvero così
“illuminata” e “progressista”?
La modifica al regolamento del 1976
varata nell’ambito della Legge sulla protezione della fauna selvatica, firmata
mercoledì dal ministro dell’ambiente Gila Gamliel, vieta il commercio e l’uso
di pellicce, ma consente il rilascio di permessi da parte del direttore
dell’Autorità israeliana per la natura e i parchi se le pelli devono essere
utilizzate per “religione, tradizione religiosa, ricerca
scientifica, educazione o insegnamento”. Questa scappatoia esenta
quindi dal divieto gli ebrei ultra-ortodossi, che spesso indossano cappelli di
zibellino, noti come shtreimels, durante lo Shabbat e nei giorni festivi.
Realizzati con code di zibellini e di volpi, i cappelli possono costare fino a
5.000 dollari.
Con il suo caldo clima mediterraneo, in
Israele gli ebrei ultra ortodossi sono praticamente gli unici
utilizzatori diffusi di pellicce.
Nessun governo israeliano avrebbe mai
il coraggio di vietare loro tale tradizione, cosa di cui sono perfettamente
consapevoli anche gli interessati, che pure hanno criticato la legge: ”La
bellezza e la maestria di uno shtreimel mostrano rispetto sia per lo Sabbath
che per gli animali utilizzati per realizzarlo. L’abbigliamento in pelliccia è,
infatti, un connubio tra la bellezza della natura e la creatività umana.
Indossare la pelliccia dovrebbe ricordare a tutti noi la nostra dipendenza
dalla natura e la nostra responsabilità di proteggerla. Se indossiamo la
pelliccia con questa consapevolezza, diventa un atto morale. La cinica legge
del ministro israeliano di vietare le pellicce sicuramente non lo è”.
(lan Herscovici, Senior Researcher e scrittore). “Le
pellicce provengono da Dio, sono parte della Bibbia” (Marc
Kaufman).*
Risulta quindi evidente che l’impatto
di questa legge sul commercio e sull’utilizzo di pellicce sarà minimo e
che l’entusiasmo da essa suscitato non corrisponda a quella svolta epocale, a
quel “faro di civiltà”, così ampiamente propagandati.
Di fronte alla dichiarazione del
Ministro Gila Gamliel “L’industria delle pellicce provoca la
morte di centinaia di milioni di animali in tutto il mondo e infligge crudeltà
e sofferenze indescrivibili. Usare la pelle e il pelo della fauna selvatica per
l’industria della moda è immorale e certamente non necessario. Le pellicce
animali non possono coprire la brutale industria degli omicidi che le produce.
La firma di questi regolamenti renderà il mercato della moda israeliano più
rispettoso dell’ambiente e molto più gentile con gli animali” risulta
inoltre evidente che, se lo stato ebraico ha sentito la necessità di
opporsi alla crudeltà, alle sofferenze e alla morte inflitte a migliaia
di animali non umani, lo stesso non accade riguardo ai Palestinesi, ai quali
continua a infliggere sofferenza e morte senza alcun dilemma morale.
Celebrare Israele per questa ed altre
leggi che combattono maltrattamenti e abusi sugli animali non umani, è
come riconoscere che le vite dei Palestinesi non hanno valore e negare la loro
resistenza contro uno stato oppressore.
Utilizzare gli animali per distogliere
l’attenzione dai crimini perpetrati contro i Palestinesi, è
oscurare i secondi e continuare a sfruttare i primi.
Non si tratta di considerare la
sofferenza dell’una o dell’altra specie più importante o al di sopra
dell’altra, posizione che sarebbe intrinsecamente specista, ma di accogliere
la visione intersezionale, quella di una “sola battaglia, una
sola lotta”, condivisa dagli stessi (se pure numericamente pochi),
attivisti radicali animalisti e antispecisti israeliani e palestinesi,
impegnati nel trovare dei punti di intervento efficaci che destabilizzino sia
lo specismo che il colonialismo , cercando di trasformarli in un’agenda
politica che guardi a una liberazione animale e umana in una
Palestina decolonizzata e in un Israele libero dal suo “razzismo democratico”.
Al contrario di quanto celebrato dalla
narrativa dominante, secondo la quale i Palestinesi sono “barbari” e
“primitivi” e quindi necessitano di essere “civilizzati” da occupanti umani,
compassionevoli, evoluti , “green” e persino più vegan di chiunque altro al
mondo, Israele è estremamente distruttivo verso gli animali, l’ambiente e
le persone, e non c’è propaganda che possa nascondere i suoi crimini .
Israele è uno stato di apartheid. Non
si dovrebbe celebrare nessun suo “progresso” verso gli animali non umani fino a
quando questi “progressi” non includeranno lo smantellamento della supremazia
sionista e la fine dell’occupazione e della de-umanizzazione e oppressione dei
Palestinesi.
Fino ad allora, non ho nulla da
celebrare.
*Nota: per correttezza, riporto anche i
pareri del rabbino ortodosso Shmuly Yankloviz, fondatore di “Shamayim: Jewish
Animal Advocacy” e quello di “Jewish Veg”:
“L’utilizzo dello
shtreimel non è necessario per attualizzare la santità. Ciò che è richiesto,
tuttavia, è la necessità di seguire la nozione di “tzar ba’aleim chaim” , non
causando inutili sofferenze agli animali”
“Il mandato del
giudaismo è che trattiamo gli animali con sensibilità e compassione, e
l’utilizzo delle pellicce viola questo mandato”.
Fonti:
https://blog.truthaboutfur.com/israels-proposed-fur-ban-is-immoral/
https://www.all-animals.org/articles/politics-animals-zionist-state.html
Che
tipo di resistenza faresti? Una poesia di Basman Derawi – Gaza
Caro mondo,
che tipo di
resistenza
vuoi che
faccia?
Armato,
disarmato,
o niente
del tutto,
morire in
silenzio
per non
disturbarti?
Che tipo di
resistenza
faresti
se la tua
casa fosse stata rubata,
se la tua
vita fosse solo argilla
nelle mani
di qualcun altro?
Qualcuno
che dice che il suo dio
gli hai
promesso la tua terra?
Caro mondo,
mi immagino
di camminare
per le
strade di Sheikh Jarrah
e di
trovare Yacoub (il colono)
davanti
alla porta di casa mia,
che mi
ordina di abbatterla
pezzo per
pezzo,
o di pagare
perché lo faccia mentre io guardo.
Immagino i
giornalisti
Imprigionati
per aver semplicemente svolto il proprio lavoro:
documentare
i nostri tentativi di resistenza.
E i leader
della protesta,
sequestrati
nelle loro case.
Il pericolo
attorno.
Non è così
diverso da qui,
mentre
cammino per le strade di Gaza,
ammantate
di oscurità (senza elettricità).
Sento dei
droni ronzare nelle mie orecchie.
Vedo le
macerie di un edificio,
ascolto
l’eco spettrale dei bambini che piangono,
la loro
casa è sparita in uno sbuffo di polvere.
Finita una
guerra, ne verrà un’altra.
Caro mondo,
non ho il diritto di resistere?
L’occupazione
è forse giusta?
Non faresti
lo stesso,
se fossi
nei miei panni?
Trad:
Grazia Parolari “tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”
Invictapalestina.org
Noi israeliani passiamo
tutta la vita a vedere i palestinesi solo come una minaccia - Yael Lotan
Avevo 18
anni quando vidi per la prima volta la Striscia di Gaza. Era il 2002, l’apice
della Seconda Intifada, e mi ero arruolato nell’esercito israeliano come
esploratore per il Field Intelligence Corps. L’area che dovevo monitorare era
soprannominata il “berech” (in ebraico “ginocchio”) sul bordo nord-orientale
della Striscia. Iniziavo ogni giorno zoomando avanti e indietro da una baracca
in cui abitava una sola famiglia palestinese, osservando persone che non
avevano quasi nulla. Li ricordo come il palmo della mia mano: una madre, un
nonno e un bambino con luminosi occhi azzurri. Ogni notte, erano l’ultima cosa
che vedevo prima di andare a dormire.
Allora,
vedevo quella famiglia palestinese come un ostacolo, piuttosto che come esseri
umani.I Interferivano con il mio lavoro; i frutteti vicino al recinto, il
loro misero sostentamento, ostruivano il mio campo visivo. Erano un ostacolo da
eliminare. Ricordo quanto fosse facile e avvincente ripiegare su quella
prospettiva militare, che riduce le persone in problemi e pericoli. È così che
a noi israeliani viene insegnato a vedere Gaza, le sue case, la sua gente, i
suoi bambini, come una costante minaccia alla sicurezza.
Questo è
anche il modo in cui ogni azione israeliana a Gaza è giustificata, ognuna
tracciando la linea rossa sempre più lontano. La guerra del 2014, che
l’esercito israeliano aveva chiamato in codice “Operazione Margine Protettivo”,
comportò la distruzione di grattacieli. L’ultimo attacco di questo mese,
soprannominato “Operazione Guardiano del Muro”, è iniziato bombardando
quegli stessi edifici. I membri del gabinetto israeliano l’hanno chiamato “cambiare
l’equazione” e questa equazione è cambiata SEMPRE nella stessa direzione.
L’operazione
Piombo Fuso, la guerra di Gaza del 2008-9, ha ucciso 762 civili palestinesi, di
cui 318 minorenni. Nel 2014, in appena un mese e mezzo, Protective Edge ha
ucciso 1.372 civili, 528 dei quali minorenni, a un’ora di macchina da Tel Aviv
– e quasi nessuno sembrava preoccuparsene.
Solo nei
primi giorni dell’operazione a Gaza di questo mese, abbiamo ucciso Kussai (6
mesi), Adam (3), Zayid (8), Hanaa (15) e Yara (10); solo una, delle quindici
famiglie che abbiamo cancellato dalla faccia della terra. L’esercito chiama
questo “danno collaterale”. Questi bambini sono stati seppelliti senza lasciare
dietro di sé nemmeno un’increspatura nella società israeliana, e sempre per lo
stesso motivo: perché li vediamo come una minaccia piuttosto che come esseri
umani. Anche un bambino di sei mesi.
Gli
attacchi aerei israeliani alla fine hanno ucciso 65 bambini palestinesi in due
settimane, bambini nati dall’altra parte della realtà in cui è nato mio figlio.
Affinché i nostri figli abbiano un futuro libero da tale guerra, noi israeliani
dobbiamo guardarci allo specchio e chiederci come siamo potuti diventare una
società che accetta tali atrocità, rassegnandosi a “vivere con la spada”.
Troppe
volte siamo stati testimoni non solo di quanto sia debole e poco convincente la
logica della sicurezza di Israele, ma di come sia progettata per permetterci di
continuare con le nostre vite, anche dopo che un’intera famiglia palestinese è
stata cancellata. Troppe volte questa giustificazione ci ha permesso di
ignorare come opera il controllo israeliano a Gaza, e cosa significhi per
coloro che vivono sul lato oggetto delle nostre azioni e la cui unica colpa è
il fatto di esistere.
Da giovane
soldato, ho visto una famiglia palestinese svegliarsi ogni mattina. Ho visto un
ragazzo giocare e un anziano palestinese che cercava di guadagnarsi da vivere.
Ad un certo punto, diventa impossibile cancellare queste persone dalla tua
coscienza, nasconderle sotto il tappeto delle giustificazioni della sicurezza.
Cosa sta loro succedendo oggi? Quanti di loro sono sopravvissuti alle guerre
precedenti?
Oltre alle
innumerevoli voci e testimonianze dei palestinesi a Gaza, vale anche la pena
ascoltare le testimonianze dei soldati che Israele ha inviato a Gaza nel 2014.
Le cose che descrivono, gettano un’ombra nauseante sulle giustificazioni di
sicurezza a cui ci siamo abituati. Descrivono i palestinesi che hanno
continuato a vivere nei quartieri popolati che abbiamo bombardato nel 2014,
quartieri che ci era stato assicurato fossero stati sgombrati da persone
innocenti e che ci era stato detto che dovevano essere colpiti con proiettili
di artiglieria.
Sono nato
in una famiglia di militari. Sono stato educato ai valori del patriottismo
israeliano e dell’amore incondizionato per Israele, nel bene e nel male. Avevo
18 anni quando mi sono arruolato. Sono passati diciotto anni da quando ho visto
il ragazzo palestinese nella baracca oltre il recinto. Tra altri 18 anni, mio
figlio neonato dovrebbe prendere parte attiva a questa stessa realtà. Non può
essere che l’unico modo per lui di vivere qui ,sia soggiogare un’intera nazione
– persone innocenti – per sempre. Mi rifiuto di accettare che questa sia
l’unica opzione.
(Yael Lotan
è il vicedirettore di Breaking the Silence)
Trad:
Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” –
Invictapalestina.org
Un’opportunità che non
può essere persa: sullo storico incontro di Blinken con attivisti palestinesi -
Miko
Peled
Con una
mossa senza precedenti e molto gradita, il Segretario di Stato americano Antony
Blinken ha incontrato quattro attivisti palestinesi a Ramallah. I quattro
attivisti erano Hadeel Qazzaz di Gaza, Aref Husseini di Gerusalemme, Dalal
Irikat, la figlia del defunto Saeb Iriqat, e Issa Amro di Hebron. Ho incontrato
Issa a Hebron subito dopo il suo incontro con Blinken, e ha riferito molte
informazioni sulla rivoluzionaria distensione.
Cambiamento
Mentre ero
seduto con Issa e lo ascoltavo descrivere l’incontro, mi è venuto in mente il
seguente ricordo. Negli anni ’70, ’80 e ’90, mio padre, un ex Generale
dell’IDF e un sionista convinto, viaggiava spesso e si recava negli Stati Uniti
con l’obiettivo principale di convincere i politici statunitensi a smettere di
fornire armi e denaro a Israele, per costringerlo a rispettare il diritto
internazionale e ad agire in conformità con le risoluzioni delle Nazioni Unite
sui diritti del popolo palestinese, forse una posizione strana da parte di un
ex Generale israeliano, ma è vero.
Mio padre
non è mai stato in grado di incontrare nessun importante politico statunitense,
perché nessuno voleva sentire quello che aveva da dire. Non c’era una sola
figura significativa che volesse ascoltare un Generale israeliano sui diritti
dei palestinesi. Il migliore che abbia mai avuto è stato un incontro a
Gerusalemme con Zbigniew Brzezinski, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale
durante l’amministrazione Carter. Quell’incontro avvenne in un piccolo caffè di
Gerusalemme a condizione che l’incontro rimanesse segreto.
Il punto è
che ci è voluto molto tempo, troppo tempo, e i palestinesi hanno dovuto pagare
un prezzo altissimo, ma gli Stati Uniti hanno fatto molta strada. Dei quattro
attivisti, conosco solo Issa Amro, e il fatto che fosse presente significa che
la voce palestinese era rappresentata. Issa è la persona più completa e
intelligente che si possa incontrare ed è andato all’incontro preparato.
Ha
insistito che gli Stati Uniti riconoscessero Israele come regime di apartheid.
Ha invitato il governo degli Stati Uniti ad aprire discussioni con tutti i
gruppi politici palestinesi, incluso Hamas, e ha sfidato l’amministrazione
Biden a fornire una deroga presidenziale che consenta il contatto con Hamas,
proprio come la deroga presidenziale che consente ai funzionari americani di
condurre colloqui con il partito Fateh a Ramallah. Entrambe le parti sono
ancora considerate dagli Stati Uniti come organizzazioni terroristiche.
Critiche
feroci da ogni parte
Issa è
stato pesantemente criticato da molti per il suo incontro con Blinken, ma come
si suol dire, “quando ti vengono a cercare, sai che stai facendo qualcosa di
giusto”. Gli Stati Uniti possono essere l’impero del male, e sì, forniscono a
Israele le stesse armi che uccidono i palestinesi. Allo stesso tempo, senza un
cambiamento nella politica estera statunitense, non c’è motivo di aspettarsi un
cambiamento in Palestina.
Tutti, dal
sito di notizie Breitbart ,all’ufficio di Boicottaggio, Disinvestimento e
Sanzioni (BDS) a Ramallah hanno affermato che Issa meritava di essere
criticato. Il primo ha criticato “il passato di Amro come attivista radicale
nel 2017, riferendo che era stato a favore di una terza “intifada”, aveva
pubblicato messaggi in favore del terrorismo palestinese e aveva condiviso la
retorica antisemita sui social media.”
Issa si
dedica alla resistenza all’occupazione sionista della Palestina ed è ugualmente
dedito alla non violenza e all’educazione delle giovani generazioni di
palestinesi che sanno come utilizzare la disobbedienza civile e altre forme di
resistenza non violenta. Non c’è mai stato un singolo caso in cui Issa Amro
abbia fatto ricorso, chiesto o espresso sostegno alla violenza. Nemmeno durante
questo ciclo di violenze quando molti, se non la maggior parte dei palestinesi,
hanno effettivamente sostenuto i razzi lanciati da Gaza.
Il
rappresentante del BDS a Ramallah ha scritto in arabo che Issa “è un esempio di
sostenitore palestinese del sionismo”. Anche questa è un’affermazione ridicola,
e sicuramente lo sanno. Issa ha chiesto la fine del regime dell’apartheid dal
fiume al mare e non ha mai lavorato, collaborato o mostrato altro che disprezzo
e resistenza all’occupazione sionista della Palestina. Entrambe le accuse sono
ridicole.
Issa ha
pagato e continua a pagare a caro prezzo la sua dedizione alla causa. È stato
arrestato e picchiato dalle autorità israeliane, è stato picchiato e minacciato
dai coloni razzisti armati che lo circondano a Hebron, ed è stato molestato,
perseguitato e perseguito dall’Autorità Palestinese che non è soddisfatta del
suo efficace lavoro di attivista. La piccola organizzazione che opera a Hebron,
Youth against Settlements (Gioventù Contro gli Insediamenti), o YAS, è
probabilmente è una delle organizzazioni di riferimento più efficaci in
Palestina.
C’è una
rabbia diffusa e giustificata nei confronti degli Stati Uniti per il loro
sostegno a Israele. Anche se Israele conduce un massacro dopo l’altro a Gaza,
le amministrazioni statunitensi perpetuano la menzogna che Israele agisca per
autodifesa. Gli Stati Uniti sostengono la diffusa pulizia etnica di Israele e
non dicono nulla quando coloni israeliani armati e militari profanano i sacri
terreni del complesso di Al-Aqsa.
Quindi non
sorprende che ci siano persone che sono arrabbiate e critiche sul fatto che
attivisti seri abbiano onorato Blinken con un incontro. Tuttavia, per la prima
volta, un Segretario di Stato americano ha dedicato tempo e attenzione alla
voce palestinese. Non è stato un incontro di rito, è stato un incontro serio
con varie voci palestinesi che stanno resistendo attivamente sul campo. Questa
è un’opportunità che nessuno può permettersi di perdere.
Quando
avere ragione e quando essere intelligenti
La
complicità americana con i crimini del sionismo in Palestina e oltre è
meritevole di condanna. I rappresentanti degli Stati Uniti in patria e
all’estero dovrebbero essere chiamati in causa e svergognati per il loro
sostegno a Israele e per aver abbracciato una politica estera sionista nella
regione. Tuttavia, come si suol dire, bisogna sapere non solo quando avere
ragione, ma anche quando essere intelligenti. E per quanto disprezzo si possa
nutrire per gli Stati Uniti e la loro politica estera, resta il fatto che
coloro che cercano giustizia in Palestina avranno bisogno del sostegno
dell’impero regnante, e si dà il caso che sia gli Stati Uniti.
Miko Peled
è uno scrittore e attivista per i diritti umani, nato a Gerusalemme. E’ autore
di “The General’s Son. Journey of an Israeli in Palestine” e “Injustice, the
Story of the Holy Land Foundation Five”.
Traduzione:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
Gaza: la metafora del
mondo.
Dove
fermeremo l’asticella dei diritti negati e che su questo limite ci batteremo
tutti assieme?
– Dacia
Maraini – Piero Basso – Don Virginio Colmegna – Emilio
Molinari Stefano Nespor – Moni Ovadia – Armando Spataro
Il fuoco si
è fermato a Gaza. Si sono contate le vittime: 12 civili israeliani e 250
palestinesi uccisi, 60 dei quali bambini, 1200 feriti che intasano ospedali di
Gaza già collassati dal Covid e danneggiati dalle bombe.
E’ finita. Pochi giorni di attenzione e i media non ne parleranno più.
Ma a Gaza si continuerà a morire per queste bombe, per quelle di prima e di
prima ancora, in attesa delle prossime.
Queste
hanno distrutto strade, 500 case, generato 60000 senza tetto, danneggiato 5
linee elettriche, semi distrutta la già disastrata rete idrica e fognaria, i
pozzi, le stazioni di pompaggio, gli impianti di desalinizzazione, paralizzato
il già precario sistema sanitario e bloccato i già pochi e difficili tentativi
di vaccinazione.
Si muore e si morirà sempre di questo a Gaza. Il tasso di mortalità infantile è
tra i più alti del mondo ed è per l’acqua infetta. Perché Gaza è Gaza.
Non entrano
i materiali per riparare le reti idriche, fognarie ed elettriche, la falda è
esaurita assorbe acqua salata, infettata dalle fogne.
Nessuno
costruisce infrastrutture che portino l’acqua dall’esterno.
Impossibile a Gaza rispettare le norme igieniche di lavarsi le mani più
volte al giorno.
Non vogliamo sottrarci alle analisi sulle vecchie e sulle nuove responsabilità,
su come distribuirle tra Netanyahu e Hamas con i loro progetti criminali
che si intrecciano. Non vogliamo parlare di geopolitica, tutto è stato già
detto e discusso. Forse è solo necessario esprimere l’indignazione ragionata
per la politica capace di “usare” i numeri e le statistiche delle vittime per
fingere un interesse, simulare un diritto internazionale morto da tempo.
Vogliamo
per un momento partire solo da Gaza per guardare al mondo.
A Gaza le bombe si sovrappongono e si confondono con l’assenza di tutti i
diritti umani che ognuno di noi continua ad elencare da tempo: la democrazia,
l’autodeterminazione, la dignità, le libertà e… infine l’acqua. Sempre in
fondo, aggiunta all’ultimo momento.
Forse, va
invertita la scala delle priorità, va fermata l’asticella su ciò che vogliamo
susciti ancora qualche passione universale: l’acqua pulita e la salute, i
diritti umani fondamentali, i più violati e dimenticati.
L’acqua è il più materiale, il più sacro dei diritti. E’ antico come la genesi,
salvaguardato nelle guerre greche, eppure dimenticato.
A Gaza
questi fondamentali diritti alla Vita sono negati.
Gaza è la metafora dello scarto portata all’estremo, è un occhio su come si
prospetta il mondo futuro.
Una
striscia di terra lunga 36 km e larga 10. 360 km2 in cui sono stipati 2
milioni di persone, delle quali 600 mila bambini, un popolo di profughi,
dall’età media di 20 anni, una delle più alte concentrazioni demografiche del
mondo. Un pericolo pandemico per il Mediterraneo e la stessa Israele.
E’ una
discarica umana, chiusa da una parte e dall’altra, dalla quale non si fugge a
nuoto o coi gommoni, nemmeno quando piovono le bombe….chi li accoglie?
Il diritto all’acqua: nemmeno la guerra lo dovrebbe distruggere.
E’ stato affermato da una Risoluzione dell’Assemblea delle Nazioni
Unite nel 2010, che recita:
“ il “diritto all’acqua potabile e ai
servizi igienico sanitari è un diritto dell’uomo essenziale alla qualità della
vita ed all’esercizio di tutti gli altri diritti dell’uomo”….Pensiamoci: più
d’ogni altro diritto umano. E’ la prima volta che ciò viene affermato e reso
giudiziabile.
Solo che
non lo sa nessuno, nemmeno le vittime e non c’è protocollo tra nazioni e nessun
tribunale internazionale che sanzioni chi non lo rispetti.
C’è bisogno di memoria per ricordare che la società civile nel passato,
riconoscendo che il crimine più grave ed impunito è il silenzio, si è data lei
stessa uno strumento come un tribunale: sul Vietnam 1966/67 e sulle dittature
dell’America Latina 1974/76 con personalità come Bertrand Russell, Jea Paul
Sartre. Lelio Basso. E dal 1979 opera il Tribunale Permanente dei popoli e un
tribunale Rassell sulla Palestina ha tenuto le sue sessioni negli anni
precedenti ad un altra tragica operazione su Gaza.
Non si tratta di inventare nulla di nuovo. O forse si, per immaginare relazioni
internazionali diverse. C’è un Forum dei movimenti dell’acqua italiano e
internazionale con cui relazionarsi. Si tratta di mettere la lente di
ingrandimento su due diritti negati premessa e indicatori di ogni altro
diritto. Metterli a fuoco, non occasionalmente e nei giorni di cronaca del
prossimo evento: da parte di magistrati, medici, avvocati, intellettuali,
Rappresentanti della capacità di civiltà della società: perché diventino
“processi”, presa di coscienza, cultura giuridica, di democrazia e impegno di
giovani.
Rilanciarli
in quanto parlano alle nuove generazioni del futuro del nostro mondo. Ci
parlano della crisi dell’acqua e delle guerre che il suo possesso generano, di
700 milioni di profughi previsti dall’ONU dal 2030 e delle discariche umane
turche, libiche, sub sahariane ecc… Ci parlano di quotazione in borsa dell’acqua,
di pandemie, di vaccini, di multinazionali, di farmaci negati. Delle
diseguaglianze, quelle grandi, quelle collettive, che si misurano con la vita e
la morte di milioni di persone. Ci parlano di indifferenza e di impegno.
Nota
di Invictapalestina:
Il
Consiglio per i diritti umani istituisce la Commissione internazionale
d’inchiesta per indagare sulle violazioni nei territori palestinesi occupati,
compresa Gerusalemme est, e in Israele. Come hanno votato i vari stati?
The results
of the vote were as follows:
A
favore (24): Argentina,
Armenia, Bahrain, Bangladesh, Bolivia, Burkina Faso, China, Cote d’Ivoire,
Cuba, Eritrea, Gabon, Indonesia, Libya, Mauritania, Mexico, Namibia, Pakistan,
Philippines, Russian Federation, Senegal, Somalia, Sudan, Uzbekistan and
Venezuela.
Contro (9): Austria, Bulgaria, Cameroon, Czech Republic,
Germany, Malawi, Marshall Islands, United Kingdom and Uruguay.
Astenuti (14): Bahamas, Brazil, Denmark, Fiji, France,
India, Italy, Japan, Nepal, Netherlands, Poland, Republic
of Korea, Togo and Ukraine.
Il
Consiglio dei Diritti Umani, organo sussidiario dell’Assemblea Generale, con
sede a Ginevra, è stato creato nel 2006 in sostituzione della Commissione per i
Diritti Umani, con il compito di promuovere il rispetto universale e la
protezione dei diritti umani, di intervenire in caso di loro violazione e di
favorire il coordinamento delle strutture operanti nel sistema Nazioni Unite.
Il
Consiglio è composto da 47 stati membri (13 dall’Asia, 13 dall’Africa, 8
dall’America Latina, 7 del Gruppo Occidentale e 6 dall’Europa Orientale),
eletti a rotazione dall’Assemblea Generale per un periodo iniziale di tre anni,
rinnovabili non più di due volte consecutive.
La guerra infinita contro i Palestinesi - Alain Gresh
Dopo 11 giorni di conflitto, che hanno causato la morte di 230 palestinesi
e 12 israeliani, Israele e Hamas hanno concordato un cessate il fuoco
incondizionato. La fine delle ostilità non ha allentato le tensioni a
Gerusalemme Est e in Cisgiordania, né ha risolto le questioni di fondo. Finché
non avranno un vero Stato, finché continuerà la colonizzazione, i palestinesi
lotteranno per i propri diritti.
In Palestina, la storia si ripete. In modo regolare, inesorabile, spietato.
Ed è sempre la stessa tragedia; è una tragedia che si poteva prevedere, vista
l’evidenza dei fatti, ma che continua a sorprendere chi confonde il silenzio
dei media con l’acquiescenza delle vittime. Ogni volta, la crisi assume
contorni particolari e segue percorsi nuovi, ma può essere riassunta in una
verità chiara: il persistere da decenni dell’occupazione israeliana, della
negazione dei diritti fondamentali del popolo palestinese e della volontà di
cacciarlo dalla sua terra.
Molto tempo fa, dopo la guerra del giugno 1967, il generale de Gaulle aveva
immaginato ciò che sarebbe successo: «Sui territori che ha conquistato, Israele
organizza un’occupazione che non può essere mantenuta senza oppressione,
repressione, espulsioni; e la resistenza che si manifesta, la definisce
terrorismo (1)». E in occasione del dirottamento di un aereo israeliano nel 1969,
dichiarò che l’azione di un gruppo clandestino, il Fronte popolare per la
liberazione della Palestina (Fplp), descritto all’epoca come terroristico, non
poteva essere equiparata alle rappresaglie di uno Stato come Israele, che nel
1968 aveva distrutto la flotta aerea civile libanese nell’aeroporto di Beirut.
Il leader francese impose poi un embargo totale sulla vendita di armi a Tel
Aviv. Un’altra epoca, un’altra visione.
Il capitolo più recente di questa ricorrente catastrofe si è dunque aperto
a Gerusalemme. Gli elementi sono noti: la brutale repressione di giovani
palestinesi cacciati dagli spazi pubblici della Porta di Damasco e della
spianata delle Moschee, dove celebravano ogni sera la rottura del digiuno del
Ramadan – bilancio: più di trecento feriti; l’invasione della spianata da parte
della polizia israeliana, che non ha esitato a lanciare gas lacrimogeni sui
fedeli e a sparare proiettili dichiaratamente di gomma (2); l’espulsione
programmata di intere famiglie dal quartiere di Sheikh Jarrah; le incursioni,
al grido di «morte agli arabi», di suprematisti ebrei forti della loro recente
vittoria elettorale, ottenuta grazie all’appoggio del primo ministro Benyamin
Netanyahu. Violare il mese sacro del Ramadan, dissacrare un santuario
dell’islam, usare la forza bruta: molte voci in Israele hanno denunciato, a
posteriori, gli «errori» commessi.
Errori? Piuttosto, cieca arroganza e disprezzo nei confronti dei
colonizzati. Come ha notato un giornalista di Cable News Network (Cnn), cosa
potrebbero mai temere le autorità, che usano «la tecnologia per tracciare i
movimenti dei telefoni cellulari, droni per monitorare i movimenti dentro e
intorno alla città vecchia, e centinaia di telecamere di videosorveglianza»?
Tanto più che erano sostenuti da «migliaia di poliziotti armati schierati per
sedare i disordini, aiutati da camion che lanciavano quella che i palestinesi
chiamano “acqua di fogna”, un liquido puzzolente spruzzato su manifestanti,
passanti, automobili, negozi e case» (3).
Ma non è stata messa in conto la determinazione dei giovani di Gerusalemme
i quali, senza alcuna organizzazione politica, hanno tenuto testa alle forze
della repressione. Altra «sorpresa»: lo hanno fatto con il sostegno dei loro
fratelli e sorelle delle città palestinesi di Israele, da Nazareth a Umm
al-Fahm, infrangendo il mito di uno Stato che avrebbe trattato i suoi cittadini
in modo uguale. Per anticipare queste rivolte, bastava leggere i rapporti
pubblicati recentemente da due importanti organizzazioni per i diritti umani,
l’israeliana B’Tselem e la statunitense Human Rights Watch, i quali spiegano
come il sistema di governo in tutta la Palestina sotto mandato, non solo nei
territori occupati, sia un sistema di apartheid secondo la definizione data
dalle Nazioni unite, che può essere riassunta in una frase: sullo stesso
territorio coesistono, a volte a pochi metri di distanza, popolazioni che non
hanno gli stessi diritti, non rientrano nella stessa giurisdizione, non sono
trattate allo stesso modo (4). Questa disparità produce gli stessi effetti del
Sudafrica prima della caduta del regime dell’apartheid: insubordinazione,
rivolte, tumulti.
Nelle città in cui sono in maggioranza, i palestinesi in Israele patiscono
la pochezza degli investimenti statali, la mancanza di infrastrutture, il
rifiuto delle autorità di agire contro la criminalità; nelle città miste, sono
relegati in quartieri sovraffollati, costretti all’esilio dalla pressione della
colonizzazione ebraica, consapevoli che l’obiettivo del governo israeliano è
quello di liberarsi di tutti questi «non-ebrei». Un giovane palestinese di
Israele spiega così la sua solidarietà con Sheikh Jarrah: «Succede a
Gerusalemme quello che succede a Jaffa e Haifa. La società araba in Israele
viene sistematicamente espulsa. Abbiamo raggiunto il punto di ebollizione. A
nessuno importa se possiamo continuare a esistere, al contrario. Ci stanno
spingendo via (5)».
A Lod, una città di 75.000 abitanti, gli scontri tra ebrei e palestinesi –
che sono un quarto della popolazione – sono stati particolarmente brutali. I
palestinesi sono ancora perseguitati dallo spettro della pulizia etnica del
1948, quando gruppi armati sionisti espulsero manu militari 70.000 persone (6).
Lo stesso disegno è ancora all’opera, anche se si manifesta in altre forme: si
tratta di «finire il lavoro » spingendoli fuori. Le 8.000 unità abitative in
costruzione sono tutte riservate agli ebrei, e qui, come a Gerusalemme o in
Cisgiordania, è praticamente impossibile per un palestinese ottenere un
permesso di costruzione. Il fatto che abbia un passaporto israeliano non cambia
nulla.
Il primo atto del dramma attuale si è concluso il 10 maggio. Le autorità
israeliane hanno dovuto fare marcia indietro, almeno in parte. I giovani
palestinesi hanno ripreso il controllo della strada; la moschea di al-Aqsa è
stata evacuata; la Corte Suprema, che doveva ratificare l’espulsione di diverse
famiglie da Sheikh Jarrah – come fa regolarmente con l’ebraicizzazione della
Palestina (7) –, ha rinviato la decisione di un mese. Anche la manifestazione
prevista per celebrare la «liberazione » della città e dei suoi luoghi sacri
nel 1967 si è trasformata in un fiasco. Il suo percorso è stato cambiato per
aggirare i quartieri palestinesi, confermando la divisione in due della
«capitale unificata ed eterna di Israele» e la resilienza dei palestinesi:
rappresentano il 40% della popolazione – anche se la municipalità dedica loro
solo il 10% dei fondi (8) – erano il 25% nel 1967.
Un nuovo atto di rivolta
Lo stesso giorno, dopo aver lanciato un ultimatum che esigeva il ritiro
della polizia da Gerusalemme, Hamas, al potere a Gaza, lanciava una salva di
razzi contro le città israeliane, inaugurando un nuovo atto di rivolta.
Immediato il fuoco di fila mediatico contro «l’organizzazione terroristica», la
pedina dell’Iran, il cui ricorso alla violenza impedirebbe qualsiasi soluzione
politica. Ma i «tempi tranquilli» (cioè quando solo i palestinesi venivano
uccisi, senza che questo facesse mai notizia) hanno mai spinto il governo di
Netanyahu a negoziare una vera pace? Come ricordava Nelson Mandela nelle sue
Memorie, «è sempre l’oppressore, non l’oppresso, a determinare la forma della
lotta. Se l’oppressore usa la violenza, l’oppresso non ha altra scelta che
rispondere con la violenza (9)».
Né il carattere violento di Hamas né la sua etichetta di organizzazione
«terroristica» hanno impedito a Netanyahu di farne un interlocutore
privilegiato in diverse occasioni, fin dal primo incarico di governo nel 1996,
quando si trattava di indebolire l’Autorità palestinese. In questo modo, il
premier sperava di frammentare la causa palestinese tra Gaza e Ramallah – e
questo gli permetteva, oltretutto, di spiegare che non era possibile negoziare
con palestinesi divisi! È stato Netanyahu ad autorizzare il trasferimento di
centinaia di milioni di dollari dal Qatar a Gaza per riabilitare parzialmente
il territorio, sotto blocco dal 2007 e devastato durante la guerra del 2014
(10). Senza dubbio una parte di questo denaro ha permesso ad Hamas, con l’aiuto
dell’Iran e del movimento libanese Hezbollah, di ricostituire e sviluppare il
suo arsenale militare e le sue capacità di combattimento.
L’esercito israeliano, convinto di aver inferto colpi mortali ad Hamas
nella sua offensiva del 2014 e di aver «comprato la pace» con una manciata di
dollari, è stato sorpreso dal suo ingresso nella battaglia per Gerusalemme –
ulteriore prova della sua arroganza e incapacità di comprendere la «mentalità
dei colonizzati». Tutti i palestinesi, musulmani e cristiani, considerano
Gerusalemme come il cuore della loro identità. Fotografie o dipinti della
città, a volte anche modelli della moschea di al-Aqsa, adornano le loro case.
La portata del movimento sviluppatosi intorno a Sheikh Jarrah, ed estesosi ai
palestinesi in Israele, ha spinto Hamas a gettare il peso nella battaglia,
soprattutto perché la prospettiva di un progresso politico era stata bloccata
dalla decisione del presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas di
rinviare le elezioni parlamentari e presidenziali – una decisione motivata
dalla paura di essere ripudiato dal voto popolare e dal rifiuto di Israele di
consentire il voto a Gerusalemme Est.
Impegnandosi, Hamas ha contribuito a riunire i palestinesi: quelli della
Palestina mandataria, quelli dei campi profughi, ma anche la diaspora in giro
per il mondo. Ne è testimonianza lo sciopero generale al quale hanno
partecipato il 18 maggio quelli di Gerusalemme, quelli dei territori occupati e
quelli di Israele – la prima volta in oltre trent’anni. Un successo ottenuto
nonostante le continue divisioni politiche, sia tra Hamas e l’Autorità
palestinese sia all’interno della stessa Fatah. Ma le divisioni avranno un peso
sulle possibilità di consolidamento delle conquiste palestinesi.
Sul piano militare, l’esercito israeliano ha fatto quello che sa fare: ha
applicato la dottrina del generale Gadi Eizenkot, sviluppata in seguito alla
guerra del 2006 contro il Libano. Conosciuta come «dottrina Dahiya», dal nome
di un quartiere nel sud di Beirut dove si trovava la sede di Hezbollah, prevede
una risposta sproporzionata e «rappresaglie» contro aree civili suscettibili di
servire da base per il nemico. Nessun altro esercito al mondo ha osato
formulare apertamente una tale «dottrina terroristica» – anche se,
naturalmente, molti non hanno esitato a metterla in pratica, si pensi agli
statunitensi in Iraq e ai russi in Cecenia.
L’esercito israeliano ha anche un pretesto ideale: poiché Hamas controlla
Gaza dal 2007, qualsiasi ufficio incaricato delle tasse, dell’istruzione o
dell’assistenza sociale può essere qualificato come un obiettivo legittimo. Il
bilancio è terribile: più di 230 palestinesi uccisi, tra cui circa 60 bambini;
1.800 feriti; 600 case e una decina di grattacieli totalmente distrutti;
colpiti centri medici, università e stazioni elettriche. La Corte penale
internazionale, che ha messo in agenda la situazione in Palestina, si occuperà
sicuramente di questi fatti.
E il risultato di tutto questo? È «l’operazione più fallimentare e inutile
di Israele a Gaza», denuncia Aluf Benn, direttore del quotidiano israeliano
Haaretz. L’esercito – che si vanta ad ogni nuovo round di aver «sradicato le
organizzazioni terroristiche e le loro infrastrutture» – non solo non ha
anticipato nulla, ma «non ha la minima idea di come paralizzare Hamas e
destabilizzarlo. La distruzione dei suoi tunnel con bombe potenti (…) non ha
inflitto alcun danno serio alle capacità di combattimento del nemico» (11).
Quanto alla «Cupola di ferro», il sistema di intercettazione dei razzi, ha
limitato a dodici il numero di morti tra gli abitanti delle città israeliane,
ma non ha impedito lo sconvolgimento della loro vita quotidiana, poiché sono
stati costretti a cercare scampo nei rifugi, anche a Tel Aviv e Gerusalemme.
Razzi e missili cambiano la situazione: d’ora in poi, nessuna città in Israele
è sicura – lo si era già visto durante la guerra contro Hezbollah nel 2006. E
per il futuro si può immaginare una guerra su più fronti: Gaza e il Libano, e
anche lo Yemen, dove gli Houti hanno minacciato di rivolgere anche contro
Israele la loro significativa capacità di attacco missilistico – usata per
rispondere ai bombardamenti sauditi.
Già durante la guerra del 2014, gli osservatori hanno notato la crescita
delle prestazioni militari di Hamas, che sono ulteriormente aumentate nel campo
balistico. «Il numero di alti dirigenti di Hamas che l’esercito israeliano ha
ucciso dimostra che non è una “organizzazione effimera”, come sostengono
diversi analisti, fa notare Zvi Bar’el su Haaretz. Alcuni di questi uomini
ricoprivano ruoli impressionanti – comandante della brigata di Gaza City, capo
dell’unità di sviluppo cibernetico e missilistico, capo del dipartimento
progetti e sviluppo, capo del dipartimento di ingegneria, comandante del
dipartimento tecnico dell’intelligence militare, capo della produzione di
attrezzature industriali. Si tratta di un esercito con un bilancio, gerarchico
e organizzato, i cui membri hanno la formazione e il know-how necessari a
gestire le infrastrutture, sia quelle per la sopravvivenza che quelle per le
offensive (12)». Assassinare alcuni quadri di Hamas non cambierà nulla: una
nuova generazione di militanti sta già emergendo dalle macerie, nutrita da una
rabbia ancora più inestinguibile contro il «nemico israeliano».
Il termine «apartheid» si diffonde
Questa rabbia non è limitata ai palestinesi. È dalla seconda Intifada
(2000-2005) che la mobilitazione a loro favore nel mondo arabo non raggiunge
queste dimensioni. Centinaia di migliaia di persone hanno marciato in Yemen e
in Iraq – ironia della sorte, uno degli obiettivi della guerra statunitense del
2003 era favorire le relazioni diplomatiche tra Baghdad e Tel Aviv. Ci sono
state manifestazioni anche in Libano, Giordania, Kuwait, Qatar, Sudan, Tunisia
e Marocco. La questione palestinese, lungi dall’essere stata marginalizzata
dagli accordi di Abramo firmati da Israele, Emirati arabi uniti e Bahrein (13),
rimane al centro dell’identità araba. Le speranze di «normalizzazione» con
Arabia saudita o Mauritania sono state (temporaneamente?) deluse. Anche in
Egitto, la rabbia si è espressa sui social, ma anche sulla stampa ufficiale. E
il tweet a favore dei palestinesi di Mohamed Salah, il famoso attaccante di
calcio che gioca per il Liverpool Fc, ha avuto grande diffusione.
La Palestina, relegata sullo sfondo dai diplomatici occidentali, è tornata
al centro del dibattito. Nessun’altra causa, dalla lotta contro l’apartheid in
Sudafrica, ha suscitato una tale ondata di solidarietà in tutto il mondo,
dall’America latina all’Africa. Anche negli Stati uniti, molti politici
democratici hanno preso posizione contro l’imbarazzante complicità di Joseph
Biden, usando parole fino ad allora inaudite.
Diverse figure della sinistra statunitense non esitano più a usare termini
come «occupazione», «apartheid» o «etno-nazionalismo». Per esempio, Alexandria
Ocasio-Cortez, una deputata di New York, ha detto su Twitter il 13 maggio:
«Parlando solo delle azioni di Hamas – che sono da condannare – e rifiutando di
riconoscere i diritti dei palestinesi, Biden rafforza l’idea falsa che i
palestinesi siano i responsabili dell’avvio di questo nuovo ciclo di violenza.
Questo non è un linguaggio neutrale. Si sta schierando con una parte, quella
dell’occupazione ». Il giorno prima, era tra i 25 eletti democratici che hanno
chiesto al segretario di Stato Antony Blinken di fare pressione sul governo
israeliano per fermare l’espulsione di quasi duemila palestinesi da Gerusalemme
Est. «Dobbiamo difendere i diritti umani ovunque», ha twittato uno dei
firmatari, Marie Newman. D’altra parte, in Europa, e in particolare in Francia,
si assiste – nonostante le mobilitazioni a favore della Palestina – a un
allineamento con Israele e con il suo discorso centrato sulla «guerra contro il
terrorismo » e sull’«autodifesa».
Il cessate il fuoco entrato in vigore il 21 maggio durerà? Cosa succederà
alle famiglie minacciate di espulsione a Sheikh Jarrah? L’Autorità palestinese
sopravviverà al proprio fallimento politico? Questo non è certo l’ultimo atto.
I palestinesi, al di là del luogo di residenza, hanno dimostrato ancora una
volta la propria determinazione a non scomparire dalla mappa diplomatica e
geografica. Dovremo aspettare la prossima crisi, con la sua scia di
distruzione, morte e sofferenza, per capirlo?
Nel 1973, dopo il fallimento dei loro tentativi di recuperare per via
diplomatica i territori persi nel 1967, Egitto e Siria lanciarono la guerra
d’ottobre contro Israele. Intervistato a proposito di quella «aggressione», il
ministro degli esteri francese Michel Jobert rispose: «È un atto di aggressione
cercare di tornare a casa propria?» Cercare di far valere i propri diritti, è
un atto di aggressione?
(1) Cfr. Hélène Aldeguer e Alain Gresh, Un chant d’amour. Israël-Palestine,
une histoire française, La Découverte, Parigi, 2017.
(2) Cfr. Jean-Pierre Filiu, «Le mythe des “balles en caoutchouc”
israéliennes», Un si proche Orient, 16 maggio 2021, www.lemonde.fr/blog/ filiu
(3) Ben Wedeman e Kareem Khadder, «Israel holds all the cards in Jerusalem,
yet the city has never been more divided», Cnn, 12 maggio 2021,
https://edition.cnn.com
(4) «Abusive Israeli Policies Constitute Crimes of Apartheid, Persecution»,
Human Rights Watch, 27 aprile 2021, www.hrw.org
(5) Nir Hasson, «“There’s systematic expulsion of Arab society in Israel,
and we’ve reached a boiling point”», Haaretz, Tel-Aviv, 12 maggio 2021.
(6) Cfr. Ari Shavit, «Lydda, 1948», The New Yorker, 14 ottobre 2013.
(7) Cfr. Sylvain Cypel, «En Israël, la Cour suprême conforte les partisans
de la colonisation», Orient XXI, 27 aprile 2015, https://orientxxi. info
(8) Cfr. in particolare il rapporto di B’Tselem su Gerusalemme,
www.btselem.org/jerusalem
(9) Si legga «Il vangelo secondo Mandela», Le Monde diplomatique/il
manifesto, luglio 2010.
(10) Si legga Olivier Pironet, «A Gaza, un popolo in gabbia», Le Monde
diplomatique/il manifesto, settembre 2019.
(11) Aluf Benn, «This is Israel’s most failed and pointless Gaza operation
ever. It must end now», Haaretz, 18 maggio 2021.
(12) Zvi Bar’el, «Looking for Gaza victory against Hamas, Israel lost the
battle for Jerusalem », Haaretz, 15 maggio 2021.
(13) Si legga Akram Belkaïd, «Idillio tra i paesi del Golfo e Israele», Le
Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2020.
Alain Gresh è il Direttore del giornale
online Orient XXI.
https://ilmanifesto.it/vignetta/le-monde-diplomatique-giugno-2021/
(Traduzione di Marianna De Dominicis)
I risultati di ricerca
di Google suggeriscono che la kefiah palestinese sia un simbolo del terrorismo
- Azad
Essa
L’iconica
kefiah palestinese, una sciarpa a scacchi in bianco e nero che di solito viene
indossata intorno alla testa o al collo, è il copricapo preferito dai
terroristi, secondo Google.
Gli utenti
dei social media hanno aspramente criticato martedì il popolare motore di
ricerca dopo che i risultati per “quali tipi di copricapo o sciarpe indossano i
terroristi” hanno elencato la kefiah come primo risultato.
La kefiah è
un simbolo del nazionalismo palestinese reso famoso negli anni ’60 dal defunto
leader palestinese Yasser Arafat. È ampiamente considerata un simbolo della
resistenza palestinese ed è spesso indossata come segno di solidarietà.
Nadim
Nashif, direttore esecutivo di 7amleh, The Arab Center for Social Media
Advancement, ha dichiarato a Middle East Eye che la scoperta ha evidenziato
come le grandi aziende tecnologiche stiano plasmando le narrazioni negative dei
palestinesi.
“Anche se
non è chiaro come la Ricerca di Google abbia associato la kefiah al terrorismo,
7amleh ha studiato e documentato come le politiche di Google – sia in Google
Maps, YouTube o nel Knowledge Panel di Google – discriminano i palestinesi,
diffondono disinformazione e perpetuano stereotipi razzisti e disumanizzanti,
contrari alle leggi e alle norme sui diritti umani “, ha detto Nashif.
“La kefiah
è stata per decenni un copricapo storico di arabi e palestinesi, utilizzata
inizialmente dagli agricoltori e successivamente diventata un simbolo del
nazionalismo palestinese … associare questa icona storico-culturale al
terrorismo, è razzista e disumanizzante”.
Il gruppo
ha affermato di aver presentato un reclamo ufficiale a Google e di essere in
attesa di un aggiornamento da parte dell’azienda.
Google non
ha risposto alla richiesta di chiarezza o commento di MEE.
Google e
Amazon firmano un accordo da 1,2 miliardi di dollari con Israele
Mentre
alcune sezioni dei social media si sono indignate per la scoperta,
lunedì Amazon Web Services (AWS) e Google hanno firmato un accordo da1,2
miliardi di dollari con Israele.
Il
progetto, chiamato Nimbus, vedrà le due società tecnologiche fornire servizi
cloud al settore pubblico israeliano e all’esercito israeliano.
L’accordo,
confermato ad aprile ma firmato solo lunedì, è arrivato pochi giorni dopo che
un gruppo di dipendenti di Google, soprannominato la diaspora ebraica in Tech,
aveva esortato il CEO Sundar Pichai a porre fine ai contratti commerciali che
violano i diritti umani dei palestinesi.
La lettera,
firmata inizialmente da almeno 250 dipendenti, invitava Google a proteggere e
sostenere la libertà di parola, incluso il rifiuto dell’insinuazione che le
critiche a Israele fossero antisemite.
“Chiediamo
alla leadership di Google di rifiutare qualsiasi definizione di antisemitismo
che ritenga che la critica a Israele o al sionismo sia antisemita”, si legge
nella lettera.
Gli
sviluppi all’interno di Google vanno di pari passo con sforzi simili in Apple,
dove circa 1.000 persone hanno esortato il CEO Tim Cook a rilasciare una
dichiarazione a sostegno dei diritti dei palestinesi.
La lettera
chiedeva ad Apple di riconoscere che “milioni di palestinesi attualmente
soffrono sotto un’occupazione illegale”.
“Affare
vergognoso”
L’attivista
palestinese-americano Nerdeen Kiswani ha detto a MEE che l’accordo ha mostrato
il “disprezzo” che entrambe le società hanno per le vite palestinesi.
“Oltre
50.000 palestinesi a Gaza sono stati sfollati e oltre 200 sono stati
assassinati”, ha detto. “Invece di mostrare preoccupazione o solidarietà per la
difficile situazione palestinese, Google e Amazon si sono uniti per
firmare il vergognoso accordo da un miliardo di dollari con Israele, mentre i
palestinesi continuano a soffrire”.
Allo stesso
modo, Nashif di 7amleh ha affermato che l’accordo ha mostrato “come le aziende
tecnologiche stanno consentendo le violazioni dei diritti umani e sviluppando
politiche per mascherare queste attività illegali.
“AWS
[Amazon Web Services] non dovrebbe fornire servizi cloud alle aziende che
lavorano con governi e forze armate per sviluppare tecnologie di sorveglianza e
spiare palestinesi e altri attivisti e organizzazioni per i diritti umani”.
Sia Google
che Amazon non hanno risposto alla richiesta di MEE di commentare l’accordo.
La critica
all’interno del mondo tecnologico arriva tra innumerevoli accuse di censura di account
o post filo-palestinesi sui social media, inclusi Facebook, Instagram e
Twitter.
La scorsa
settimana, i ricercatori hanno detto a MEE che anche la comprensione della
reale portata dei danni del bombardamento aereo israeliano di 11 giorni a Gaza
era difficile da accertare, perché molti strumenti di mappatura open source,
tra cui Google, non hanno aggiornato le loro mappe con immagini ad alta
risoluzione.
Senza
offrire una spiegazione, Google ha detto a MEE che non aveva intenzione di
aggiornare le mappe di Gaza.
Trad:
Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”
-Invictapalestina.org
Gruppi ebraici che
favoriscono i crimini di guerra di Israele non possono negare le proprie
responsabilità per questi crimini - Jonathan Cook
Ecco
qualcosa che si può dire con grande sicurezza. È razzista, antisemita, se si
preferisce, ritenere gli ebrei, individualmente o collettivamente, responsabili
dei crimini di Israele. Gli ebrei non sono responsabili dei crimini di guerra
israeliani, anche se lo Stato Sionista presume di implicare gli ebrei nei suoi
crimini dichiarando falsamente che rappresenta tutti gli ebrei nel mondo.
Ovviamente,
non è colpa degli ebrei se Israele commette crimini di guerra, o se Israele usa
gli ebrei collettivamente come scudo politico, sfruttando la sensibilità sulla
sofferenza storica degli ebrei per mano di non ebrei per immunizzarsi dalla
vergogna internazionale.
Ma ecco
qualcosa che si può dire con uguale certezza. Gli apologeti di Israele, siano
essi ebrei o non ebrei, non possono negare ogni responsabilità per i crimini di
guerra di Israele quando aiutano attivamente e incoraggiano Israele a
commettere quei crimini, o quando cercano di demonizzare e mettere a tacere i
critici di Israele in modo che quei crimini di guerra possano essere perseguiti
in un clima politico più favorevole.
Tali
apologeti, che purtroppo sembrano includere molte delle organizzazioni
comunitarie in Gran Bretagna che affermano di rappresentare gli ebrei, vogliono
avere la loro fetta di torta e mangiarla.
Non possono
difendere Israele in modo acritico in quanto commette crimini di guerra o
cercare modifiche legislative per aiutare Israele a commettere quei crimini,
che si tratti dell’ultimo bombardamento israeliano di civili a Gaza, o delle
sue esecuzioni di palestinesi disarmati che protestano per i 15 anni di blocco
israeliano dell’enclave costiera, e accusare chiunque li critichi di essere un
antisemita.
Ma questo è
esattamente quello che sta succedendo. E sta solo peggiorando.
Un
aumento dell’antisemitismo?
Quando ieri
è stato attuato un cessate il fuoco, che ha portato a un temporaneo
rallentamento dei bombardamenti di Gaza da parte di Israele, i gruppi ebraici
filo-israeliani nel Regno Unito hanno avvertito ancora una volta di
un’impennata dell’antisemitismo che attribuivano a una rapida crescita del
numero di proteste contro Israele.
Questi
gruppi hanno i soliti potenti alleati che fanno eco alle loro affermazioni. Il
Primo Ministro Britannico Boris Johnson ha incontrato giovedì i leader della
comunità ebraica a Downing Street, impegnandosi, come riportato da Jewish News,
“a continuare a sostenere la comunità di fronte ai crescenti attacchi di
antisemitismo”.
Tra i
presenti c’era il Rabbino Capo Ephraim Mirvis, un sostenitore di Johnson che ha
avuto un ruolo attivo nell’aiutarlo a vincere le elezioni del 2019 rinnovando
le calunnie antisemite prive di fondamento contro il Partito Laburista di
Jeremy Corbin giorni prima del voto. Comprendeva anche la Campagna contro
l’antisemitismo, che è stata intrapresa specificamente per mascherare i crimini
di Israele durante i suoi bombardamenti del 2014 su Gaza e da allora ha
diffamato ogni attivismo di solidarietà palestinese come antisemitismo.
Era
presente anche il Jewish Leadership Council (Consiglio Direttivo Ebraico –
JLC), un’organizzazione di coordinamento per i principali gruppi della comunità
ebraica britannica. In un articolo sul quotidiano israeliano Haaretz su questo
presunto aumento dell’antisemitismo nel Regno Unito, il vicepresidente del JLC,
Daniel Korski, ha esposto la narrativa ridicola e opportunista che questi
gruppi di comunità stanno cercando di vendere, con un successo apparentemente
sempre maggiore tra l’élite politica e mediatica.
Indignazione
popolare per Gaza
Korski ha
espresso grave preoccupazione per la proliferazione di manifestazioni nel Regno
Unito volte a fermare il bombardamento israeliano di Gaza. Durante 11 giorni di
attacchi, più di 260 palestinesi sono stati uccisi, inclusi 66 bambini. Gli
attacchi aerei israeliani mirati hanno colpito più di una dozzina di ospedali,
inclusa l’unica clinica Covid a Gaza, decine di scuole, diversi centri di
informazione e decine di migliaia di palestinesi sono rimasti senza casa.
Il senso di
indignazione popolare per l’assalto israeliano è stato accresciuto solo dal
fatto che il Primo Ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, aveva chiaramente
progettato un confronto con Hamas fin dall’inizio per servire i suoi interessi
personali immediati: Impedire ai partiti dell’opposizione israeliana di unirsi
per destituirlo.
Nei suoi
cinici calcoli personali, i civili palestinesi sono stati sacrificati per
aiutare Netanyahu a mantenere il potere e migliorare le sue possibilità di
eludere la prigione mentre si trova sotto processo con accuse di corruzione.
Ma per
Korski e gli altri leader della comunità presenti all’incontro con Johnson, le
appassionate manifestazioni di solidarietà con i palestinesi sono la loro
principale prova per l’aumento dell’antisemitismo.
Inni alla
“Palestina Libera”
Queste
organizzazioni comunitarie citano alcuni episodi che indubbiamente si
qualificano come antisemitismo, alcuni gravi, altri meno. Includono gridare
“Palestina Libera” alle persone perché sono identificabili come ebrei, qualcosa
che presumibilmente accade soprattutto ai religiosi ultra-ortodossi.
Ma la
principale preoccupazione di questi leader ebraici, dicono chiaramente, è il
crescente sostegno pubblico ai palestinesi di fronte all’intensificarsi
dell’aggressione israeliana.
Citando
David Rich, della Community Security Trust (Fiduciaria per la Sicurezza
Collettiva), un’altra organizzazione ebraica ospitata da Johnson, il quotidiano
Haaretz riferisce che “ciò che ha veramente scosso la comunità ebraica è che
ogni giorno si tengono manifestazioni su questa questione in tutto il paese: il
bombardamento di Gaza da parte di Israele.”
Sembra
evidente che quando i leader della comunità ebraica guardano i servizi
televisivi che mostrano i manifestanti intonare “Palestina Libera”, lo sentono
come un attacco personale, come se loro stessi venissero importunati per
strada.
Non serve
essere degli psicologi per chiedersi se questo riveli qualcosa di preoccupante
sui loro sentimenti interiori: Si identificano così completamente con Israele
che anche quando qualcuno chiede che i palestinesi abbiano gli stessi diritti
degli israeliani, lo percepiscono come un attacco collettivo agli ebrei, come
antisemitismo.
Eccezione
per Israele
Quindi
Korski arriva al nocciolo della questione: “Come ebrei siamo orgogliosi della
nostra eredità e allo stesso tempo non siamo in alcun modo responsabili delle
azioni di un governo a migliaia di chilometri di distanza, indipendentemente
dai nostri sentimenti o dai legami con esso”.
Ma la
logica di quella posizione è semplicemente insostenibile. Non si può legare
intimamente la propria identità a uno Stato che commette sistematicamente
crimini di guerra, non si possono classificare le manifestazioni contro quei
crimini di guerra come antisemitismo, non si può usare la propria posizione di
“leader della comunità ebraica” per rendere tali accuse più credibili e
sfruttare la propria influenza pressando i leader mondiali per cercare di
mettere a tacere le proteste contro Israele e poi dire che “non si è in alcun
modo responsabili” per le azioni di quel governo.
Se usano la
propria posizione per impedire a Israele di essere sottoposto a indagine sulle
accuse di crimini di guerra, se cercano di manipolare il dibattito pubblico con
accuse di antisemitismo per creare un ambiente più favorevole in cui quei
crimini di guerra possono essere commessi, allora parte della colpa per quei
crimini di guerra ricade su di loro.
È così che funziona
la responsabilità in ogni altra sfera della vita. Ciò che chiedono gli
apologeti di Israele è un’eccezione per Israele e per se stessi.
Lobby con
l’appoggio del Regno Unito
In un’altra
osservazione rivelatrice che cerca di giustificare le affermazioni di
un’impennata nell’antisemitismo, Korski aggiunge: “Non vediamo lo stesso tipo
di esternazioni quando si tratta dei Rohingya, degli Uiguri o della Siria, e
questo fa sentire molti ebrei che si tratta di loro in quanto ebrei”.
Ma ci sono
molte ragioni per cui non ci sono manifestazioni altrettanto grandi nel Regno
Unito contro le sofferenze dei Rohingya e degli Uiguri, ragioni che non hanno
assolutamente nulla a che fare con l’antisemitismo.
Gli
oppressori dei Rohingya e degli Uiguri, a differenza di Israele, non vengono
generosamente armati dal governo britannico, non ricevono copertura diplomatica
e accordi commerciali preferenziali dalla Gran Bretagna.
Ma
altrettanto importante, gli Stati che opprimono i Rohingya e gli Uiguri, a
differenza di Israele, non hanno lobby attive e ben finanziate nel Regno Unito,
con l’appoggio del Primo Ministro. Cina e Myanmar, a differenza di Israele, non
hanno lobby britanniche che etichettano con successo le critiche nei loro
confronti come razzismo. A differenza di Israele, non hanno lobby che cercano
apertamente di influenzare le elezioni per proteggerli dalle critiche. A
differenza di Israele, non hanno lobby che collaborano con la Gran Bretagna per
introdurre misure per aiutarli a portare avanti la loro oppressione.
Il
Presidente del Consiglio dei Deputati, Marie van der Zyl, ad esempio, durante
l’incontro di questa settimana ha insistito con Johnson per classificare tutti
i rami di Hamas, non solo la sua ala militare, come organizzazione
terroristica. Questo è il desiderio insoddisfatto di Israele. Una tale
decisione renderebbe ancora meno probabile per la Gran Bretagna essere in grado
di prendere ufficialmente le distanze dai crimini di guerra di Israele a Gaza,
dove Hamas dirige il governo, e ancor più probabilmente si unirebbe a Israele
nel dichiarare le scuole, gli ospedali e i dipartimenti governativi di Gaza
tutti obiettivi legittimi per gli attacchi aerei israeliani.
Assurde
congetture
Se si fanno
pressioni per ottenere favori speciali per Israele, in particolare favori per
aiutarlo a commettere crimini di guerra, non si può certo dissociarsi da quei
crimini. Vi si è direttamente implicati.
Anche David
Hirsch, un accademico dell’Università di Londra che è stato strettamente
collegato agli sforzi per armare l’antisemitismo contro i critici di Israele,
specialmente nel Partito Laburista sotto la guida del suo precedente leader
Jeremy Corbyn, cerca di giocare a questo trucco.
Dice ad
Haaretz che l’antisemitismo sta presumibilmente “aumentando” perché gli
attivisti della solidarietà palestinese hanno rinunciato a una soluzione a due
Stati. “Un tempo c’era una lotta in Palestina di solidarietà tra una politica
di pace, due Stati che vivono fianco a fianco, e una politica di denuncia di
una parte come essenzialmente malvagia e sperando nella sua sconfitta totale”.
Ma quelle
che Hirsch sta facendo sono solo congetture: Sta suggerendo che gli attivisti
della solidarietà palestinese sono “antisemiti”, la sua idea del male, perché
sono stati costretti da Israele ad abbandonare la loro causa a lungo
caldeggiata di una soluzione a due Stati. Questo solo perché i successivi
governi israeliani si sono rifiutati di negoziare qualsiasi tipo di accordo di
pace con la dirigenza palestinese più moderata immaginabile sotto Mahmoud Abbas,
quella che ha telegrafato con entusiasmo il suo desiderio di collaborare con
Israele, definendo addirittura “sacro” il “coordinamento della sicurezza” con
l’esercito israeliano.
Una
soluzione a due Stati è morta perché Israele l’ha resa morta, non perché gli
attivisti della solidarietà palestinese sono più estremisti o più antisemiti.
Inneggiando
alla “Palestina Libera”, gli attivisti non chiedono la “sconfitta totale” di
Israele, a meno che Hirsch e le stesse organizzazioni della comunità ebraica
credano che i palestinesi non potranno mai essere liberi dall’oppressione e
dall’occupazione israeliane fino a quando Israele non subirà una tale
“sconfitta totale”. L’affermazione di Hirsch non ci dice nulla sugli attivisti
della solidarietà palestinese, ma ci dice molto su ciò che realmente motiva
queste organizzazioni della comunità ebraica.
Sono questi
lobbisti filo-israeliani, a quanto pare, più che gli attivisti della
solidarietà palestinese, che non riescono a immaginare i palestinesi che vivono
dignitosamente sotto il governo israeliano. È perché capiscono fin troppo bene
ciò che Israele e la sua ideologia politica del sionismo rappresentano
veramente, e che ciò che è richiesto ai palestinesi per la “pace” è una
sottomissione assoluta e permanente?
Maggiormente
consapevoli
Allo stesso
modo, Rich, del Community Security Trust, dice degli attivisti della
solidarietà palestinese: “Anche i moderati sono diventati estremisti”. In cosa
consiste questo estremismo, presentato ancora una volta dai gruppi ebraici come
antisemitismo? “Ora il movimento di solidarietà con i palestinesi è dominato
dall’idea che Israele sia uno stato di apartheid, genocida e colonialista”.
O, in altre
parole, questi gruppi ebraici filo-israeliani affermano che c’è stata un
aumento dell’antisemitismo perché gli attivisti della solidarietà palestinese
vengono influenzati e istruiti da organizzazioni per i diritti umani, come
Human Rights Watch e l’israeliana B’Tselem. Entrambi hanno recentemente scritto
rapporti che classificano Israele come uno stato di apartheid, nei territori
occupati e all’interno dei confini riconosciuti di Israele. Gli attivisti non
stanno diventando più estremisti, stanno diventando più consapevoli.
E nel
sostenere una presunta ondata di antisemitismo, Rich offre un’altra intuizione
inavvertitamente rivelatrice. Dice che i bambini ebrei soffrono di “abusi”
online, sono vittima di antisemitismo, perché trovano sempre più difficile
partecipare ai social media.
“Gli
adolescenti sono molto più veloci ad aderire ai movimenti sociali; abbiamo
appena avuto Black Lives Matter, Extinction Rebellion, #MeToo, ora i bambini
ebrei scoprono che tutti i loro amici si stanno unendo a questi movimenti di
solidarietà palestinese in cui non si sentono i benvenuti o vengono scelti
perché sono ebrei”.
In modo
fantasioso, Rich sostiene che i bambini ebrei cresciuti in famiglie e comunità
sioniste che hanno insegnato loro esplicitamente o implicitamente che gli ebrei
in Israele hanno diritti superiori ai palestinesi vengono discriminati perché
le loro sconsiderate idee di supremazia ebraica non si adattano a un movimento
pro-palestinese basato sull’uguaglianza.
Questo è
assurdo come sarebbe stato, durante l’era di Jim Crow, che i suprematisti
bianchi americani si lamentassero del razzismo perché i loro figli venivano
fatti sentire fuori posto nei forum sui diritti civili.
Tali
affermazioni sarebbero ridicole se non fossero così pericolose.
Demonizzati
come antisemiti
I
sostenitori sionisti di Israele stanno cercando di capovolgere la logica e il
mondo. Stanno invertendo la realtà. Stanno proiettando le proprie assurde
ipotesi razziste su Israele sugli attivisti della solidarietà palestinese,
coloro che sostengono la parità di diritti per ebrei e palestinesi in Medio
Oriente.
Come hanno
fatto con la definizione dell’IHRA (Alleanza Internazionale per la Memoria
dell’Olocausto), questi gruppi ebraici stanno distorcendo il significato di
antisemitismo, spostandolo dalla paura o dall’odio per gli ebrei a qualsiasi
critica nei confronti di Israele che infastidisca gli ebrei filo-israeliani.
Mentre
assistiamo all’amplificazione acritica di questi argomenti da parte di
importanti politici e giornalisti, ricordiamo anche che è stato l’unico grande
politico a scostarsi da questa narrativa priva di senso, Jeremy Corbyn, che
divenne il principale bersaglio, e vittima, di queste calunnie di
antisemitismo.
Ora questi
gruppi ebraici filo-israeliani vogliono trattarci tutti come Corbyn,
demonizzandoci come antisemiti a meno che non tacciamo anche se Israele ancora
una volta brutalizza i palestinesi.
Traduzione:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
I rabbini riscrivono la
Bibbia Abramo e Mosè forse non esistono
Abramo, il patriarca ebreo, probabilmente non è mai esistito. E
neppure Mosè. L' intera storia dell' Esodo, come viene raccontata nella Bibbia,
quasi sicuramente non avvenne. La stessa cosa vale per il crollo delle mura di
Gerico. Anche Davide, invece di essere l' impavido re che trasformò Gerusalemme
in una potente capitale, è molto più probabile che fosse un capo di provincia,
la cui fama fu esagerata molti anni dopo per dare un nucleo di convergenza a
una nazione agli albori della sua storia. Queste sbalorditive affermazioni,
risultato di scoperte effettuate dagli archeologi che hanno scavato in Israele
e dintorni negli ultimi 25 anni, sono condivise anche dai rabbini non
ortodossi. Ma finora non c' è era stato nessun tentativo di diffondere queste
idee o di discuterne con i laici. Ora invece la "United Synagogue of
Conservative Judaism", che rappresenta un milione e mezzo di ebrei
tradizionalisti degli Stati Uniti, ha appena pubblicato una nuova Torah
commentata, la prima per i tradizionalisti in oltre 60 anni. Intitolata
"Etz Hayim" ("L' albero della Vita" in ebraico), il libro
offre un' interpretazione dei testi sacri che tiene conto delle più recenti
scoperte archeologiche, filologiche, e antropologiche, e degli studi sulle
culture antiche. Nelle intenzioni degli autori che hanno lavorato alla sua
compilazione, il libro rappresenta uno dei più considerevoli sforzi mai effettuati
per introdurre in ambito religioso il concetto di Bibbia prodotta dell' uomo
invece che documento divino. Accanto al normale testo in ebraico, c' è in
parallelo la traduzione in inglese (a cura dello scrittore Chaim Potok).
Inoltre ci sono un' esegesi pagina per pagina, note esplicative sulle usanze
ebraiche e, alla fine, 41 saggi di eminenti rabbini e studiosi su argomenti
vari, che vanno dai manoscritti della Torah alle prescrizioni alimentari, dall'
ecologia all' escatologia. Questi saggi, letti durante le prediche nelle
funzioni del Sabbath, senza alcun dubbio coglieranno di sorpresa molti fedeli.
Per esempio, il saggio sulla "Mitologia nell' antico Medio Oriente"
di Robert Wexler, rettore dell' University of Judaism di Los Angeles, riporta
che sulla base dei moderni studi, sembra improbabile che la storia della Genesi
si svolse realmente in Palestina. Più probabilmente, continua Wexler, ebbe
luogo in Mesopotamia, l' influenza della quale è molto evidente nel racconto
del Diluvio Universale. Quest' ultimo probabilmente non fu altro se non un'
eccezionale piena dei periodici allagamenti creati dal Tigri e dall' Eufrate. E
per quanto riguarda Noè, il racconto dovette ispirarsi all' epica di Gilgamesh
in Mesopotamia. Altrettanto stupefacente sarà per molti leggere il saggio
"Archeologia Biblica", del professor Lee Levine presso la Hebrew
University di Gerusalemme. «Nella storia egiziana non esiste riferimento alcuno
a un soggiorno del popolo di Israele nel loro paese. Le scarne testimonianze
sono del tutto trascurabili e indirette». Queste ultime, come per esempio la
diffusione di nomi ebraici, «sono lungi dal rappresentare un' adeguata conferma
del racconto biblico». Altrettanto ambigua, scrive Levine, è la testimonianza
della conquista e dell' insediamento di Caana, l' antico nome con il quale si
designava l' area comprendente Israele. Gli scavi archeologici, che hanno
provato senza ombra di dubbio che la città di Gerico non era circondata di mura
ed era disabitata, «chiaramente sembrano contraddire la violenta e totale
conquista raccontata nel Libro di Giosué. Ma quello che più conta è che siamo
in assenza di prove archeologiche» che confermino le grandiosi descrizioni
bibliche della città di Davide e di Salomone. Il concetto che il contenuto
della Bibbia non sia vero e non vada preso in senso letterale «è più o meno
chiaro e condiviso dalla maggior parte dei rabbini tradizionalisti», ha
osservato David Wolpe, un rabbino del "Sinai Temple" di Los Angeles e
uno dei collaboratori di "Etz Hayim". «Ma alcuni fedeli potrebbero
non voler conoscere la realtà nuda e cruda che ne deriva», ha proseguito. La
scorsa Pasqua ebraica, durante una predica agli oltre duemila fedeli riuniti
nella sua sinagoga, Wolpe disse molto esplicitamente che «quasi tutti gli archeologi
moderni concordano sul fatto che il modo in cui la Bibbia descrive l' Esodo non
è il modo in cui si verificò. Se davvero si verificò». Il rabbino fornì quella
che egli definisce «la litania delle disillusioni» sulle discrepanze narrative
e cronologiche, le contraddizioni, le improbabilità, e infine sull' assenza di
testimonianze certe. Inoltre, aggiunse che «scavando nella penisola del Sinai
gli archeologi non avevano trovato alcuna traccia delle tribù di Israele,
nemmeno un coccio di vasellame». Tra i fedeli la reazione al suo sermone andò
dall' ammirazione per il suo coraggio, allo sgomento, alla vera e propria
rabbia per la sua spudoratezza. Pubblicato su una rivista ebraica diffusa in
tutto il mondo, il suo lungo discorso gli attirò una valanga di lettere che lo
accusavano di minare i più fondamentali precetti dell' ebraismo. Ma ricevette
anche molti messaggi a favore. «Un' infinità di rabbini mi ha telefonato,
mandato email e mi ha scritto dicendomi: "Dio ti benedica per aver detto
quello che tutti noi crediamo"», ha detto Wolpe. Che attribuisce l'
"esplosione" provocata dal suo sermone alla riluttanza dei rabbini a
dire ciò che realmente pensano. (Copyright New York Times - la Repubblica.
Traduzione di Anna Bissanti)
Israele, l’apartheid digitale che controlla e silenzia i palestinesi - Nadim Nashif
[Traduzione a cura di Gaia Bugamelli dell’articolo originale pubblicato su openDemocracy]
Negli ultimi giorni, Instagram, Facebook e Twitter sono
stati oggetto di pressanti critiche, accusati di aver rimosso centinaia di account e post che documentavano le manifestazioni di protesta avvenute nel
quartiere di Sheikh Jarrah, dove 8 famiglie palestinesi sono state minacciate
di sfratto, e nei pressi della moschea di al-Aqsa, dove l’8 maggio le forze
armate israeliane hanno aperto il fuoco sui musulmani in preghiera.
Storie e post che riportavano l’hashtag #SaveSheikhJarrah sono stati cancellati, e account
che documentavano dal vivo con foto e immagini quello che stava accadendo sono
stati sospesi. In seguito, Instagram ha dichiarato che il contenuto era stato
rimosso a causa di un diffuso problema tecnico.
Nonostante ciò, noi di 7amleh, l’Arab Center for Social Media
Advancement, consideriamo queste censure come parte di un più
ampio tentativo, ormai di lunga data, di silenziare i palestinesi online.
Sono specifici input impartiti al sistema algoritmico
di questi social che individuano “contenuti inappropriati”, nonché la mancata
trasparenza nelle politiche di moderazione dei contenuti di queste piattaforme,
a permettere questa censura di massa indiscriminata.
A ciò va aggiungendosi il fatto che spesso e volentieri gli algoritmi di questi
network tendono a decontestualizzare i contenuti in arabo che interpretano, e
ciò non fa che potenziare il sistema di silenziamento, dal momento che
ancora molti contenuti vengono rimossi senza che vi sia alcun presupposto
legittimo.
Tali episodi esemplificano gli ostacoli con cui i
palestinesi devono fare i conti nell’universo digitale, e non possono essere
considerati separatamente dal più ampio contesto di apartheid imposto da Israele. Anzi, spesso sono proprio
queste difficoltà a riflettere il sistema di discriminazione e confinamento di
cui sono vittime i palestinesi.
Recentemente, diverse organizzazioni israeliane e
internazionali per i diritti umani, in particolare Human Rights Watch, hanno pubblicato rapporti che confermano come quello
istituito da Israele possa essere definito un sistema di apartheid secondo
tutti gli standard riconosciuti. Si tratta, di fatto, di quello che molte
organizzazioni palestinesi sostengono da anni ormai, trattandosi di un sistema di oppressione che presuppone il
dominio di un gruppo di persone su altre che vengono ripetutamente discriminate
e nei confronti delle quali continuano a verificarsi atti inumani.
È da anni che le organizzazioni palestinesi per i
diritti umani documentano e denunciano queste violazioni, sia a livello locale
che internazionale. Da oltre 70 anni, i palestinesi sono soggetti alle più
atroci violazioni dei loro diritti, tra cui la privazione
del diritto alla libertà di movimento e del diritto
all’istruzione, nonché la demolizione delle proprie case e l’imprigionamento di
oltre 1 milione di palestinesi nell’arco di 40 anni, tra cui
donne e bambini.
Apartheid digitale
Nell’era digitale, le relazioni di potere esistenti
non possono che riflettersi anche online. Ciò si verifica in tre diversi modi,
il primo dei quali riguarda il controllo da parte di
Israele delle infrastrutture del sistema di
telecomunicazione palestinese. Dal 1967, e nonostante gli accordi di
Oslo e di Parigi, Israele impedisce al settore delle telecomunicazioni
palestinese di controllare autonomamente le proprie infrastrutture, ostacolandone lo sviluppo in modo sistematico. Tutto ciò
comporta la scarsa qualità e l’alto costo dei servizi di telecomunicazione
disponibili oggi in Palestina.
Così, mentre il mondo va convertendosi al 5G, i
palestinesi nella West Bank rimangono vincolati
al 3G, mentre quelli nella striscia
di Gaza devono accontentarsi di una connessione 2G. Questo perché l’Autorità palestinese dipende
completamente dall’approvazione di Israele per importare certi pezzi e
attrezzature dall’estero, approvazione che non viene quasi mai concessa. Allo
stesso modo, erigere una torre cellulare o installare attrezzature sul terreno
richiede l’autorizzazione di Israele. Come se ciò non bastasse, tutte le fibre
e le linee di comunicazione in Palestina sono collegate all’infrastruttura
esistente in Israele da cui dipendono.
Anche i cittadini palestinesi di Israele non hanno
uguale accesso ai servizi e alle infrastrutture online. I villaggi beduini non
riconosciuti nel Negev non hanno alcuna rete internet o elettrica, mentre il resto della comunità
palestinese in Israele risente di un’infrastruttura di comunicazione meno
sviluppata rispetto a quella dei villaggi e delle città a maggioranza ebraica.
Silenziamento e censura
Un’altra strategia adottata da Israele per limitare la
libertà di espressione dei palestinesi e di molti attivisti per i diritti umani
consiste nel censurare i contenuti e le narrazioni
palestinesi online: una tattica complementare alla criminalizzazione e diffamazione di coloro che
sostengono la causa palestinese. Ciò viene reso possibile dalla costante
implementazione di leggi civili e ordini militari, che Israele mira a consolidare con una nuova legislazione alla quale sta attualmente
lavorando.
A partire dal 2015, Israele ha arrestato centinaia di
palestinesi ogni anno per motivi legati alla libertà di espressione, adottando
definizioni vaghe di incitamento all’odio e violenza, servendosi di
queste accuse per reprimere chiunque violi
le politiche dell’occupazione o ne chieda la fine.
Non è un mistero che Israele si coordini anche con organizzazioni
esterne per diffondere disinformazione online,
dispiegando troll e bot che lavorano sistematicamente per
censurare i palestinesi online attraverso la segnalazione coordinata e
indiscriminata di post che includono contenuti palestinesi, senza nemmeno leggerli.
Ciò fa luce sui diversi modi in cui Governi autoritari e repressivi investono
le proprie risorse nell’assoldare un numero spropositato di persone per
corrompere i sistemi di segnalazione online con lo scopo di beneficiarne.
Ciò che spaventa davvero però, è la tacita cooperazione delle grandi piattaforme di social media,
nonché la loro collaborazione con il Governo israeliano nella rimozione di
decine di migliaia di post palestinesi in risposta alle denunce della Cyber Unit israeliana. In molti casi
infatti, Facebook elimina post e contenuti su richiesta della
Cyber Unit israeliana, senza
ordini del tribunale, il che lascia i palestinesi incapaci di appellarsi alla
decisione. Come se non bastasse, il ministero israeliano degli Affari
Strategici collabora con istituzioni quasi-governative finanziate per mezzo
di campagne che screditano i sostenitori
palestinesi e le istituzioni per i diritti umani, e che diffondono notizie
inesatte e fuorvianti su Internet, soprattutto su siti come Wikipedia.
Sorveglianza
Negli ultimi anni, è diventato evidente come l’apparato di sicurezza israeliano abbia trasformato i palestinesi e i territori
occupati in un grande esperimento per le industrie di
sorveglianza e le unità militari digitali. L’intelligence
militare è stata anche utilizzata per sviluppare le industrie israeliane di
high-tech, esportando la produzione e la vendita di tecnologie di sorveglianza
e spionaggio militari in tutto il mondo – anche in altri regimi repressivi.
Nello sviluppare queste tecnologie e nel testarle sui palestinesi, Israele non
solo rafforza il suo controllo sulla Palestina ma
permette allo Stato e al settore privato di trarre profitto da questo controllo illegale.
Sia a Gerusalemme Est che nella West Bank sono
migliaia le fotocamere con tecnologia di riconoscimento
facciale. Recente lo scandalo sulla collaborazione tra Microsoft e AnyVision, una società
che fornisce fotocamere all’esercito israeliano. A seguito delle pressioni
della società civile, Microsoft ha ritirato il suo investimento nella società.
Nel 2016, numerosi furono i rapporti che testimoniavano lo sviluppo
di software e algoritmi atti a controllare gli account dei palestinesi sui
social media, nonché alla sorveglianza predittiva dei giovani.
Si tratta di episodi esemplificativi dell’abuso di potere che Israele esercita sui
palestinesi, un’oppressione che si esplica attraverso il controllo delle
infrastrutture e orientata a inasprire il divario tra le parti. L’apartheid
israeliano si rende evidente nel cyberspace, dove il regime perpetua continui
attacchi alla libertà di pensiero palestinese, arresti illegali a chi organizza
campagne di mobilitazione, e atti inumani che consistono nello spionaggio
costante degli utenti palestinesi, in ultima analisi privandoli del
proprio diritto alla privacy.
Purtroppo, tutte queste tattiche vengono esportate da Israele e dalle società israeliane
anche in altri Paesi dove
vigono regimi autoritari che opprimono il loro stesso popolo oppure occupano
altri territori. Date le strette relazioni tra i giganti della
tecnologia, orientati esclusivamente al profitto, e i regimi repressivi il cui obiettivo principale
è l’espansione del proprio controllo, le conseguenze potrebbero essere
disastrose sia per i diritti umani che per quelli digitali nello specifico.
Ciò di cui abbiamo urgente bisogno è, dunque, l’istituzione di standard internazionali che regolino,
chiariscano e garantiscano i diritti umani: trattati che vincolino nello stesso
modo i Governi e le corporation. Si tratta di un passaggio cruciale nell’ottica
di garantire uno spazio virtuale libero, giusto e sicuro, per i palestinesi e
per tutti i popoli oppressi nel mondo.
1948 – Documentario di
Mohammad Bakri
Mentre Jenin, Jenin è il
film che ha dato a Bakri la notorietà, non è stato né il primo né l’ultimo
documentario che abbia diretto. Pensato per coincidere con il cinquantesimo
anniversario della Nakba, il suo esordio come regista, 1948, ha portato sullo
schermo memorie che, altrimenti, non erano ancora state registrate dal cinema.
Se, da un lato, la Nakba
esiste all’ombra della maggior parte dei film palestinesi, è stata però
raramente rappresentata in modo così diretto. Il nucleo di 1948 sono le sue
interviste con i sopravvissuti della Nakba, inclusa gente scappata al massacro
di Deir Yassin e al-Dawayima e profughi di villaggi distrutti come Saffuriya.
La prima intervista del film è quella ad un’anziana donna, una sopravvissuta di
Deir Yassin. Di fronte alla cinepresa, la donna canta una lamentazione, mentre
una bandiera israeliana, ironicamente, sventola dietro di lei.
Assieme ai sopravvissuti della Nakba, 1948 presenta anche foto d’archivio,
interviste con famosi autori palestinesi (il poeta Taha Muhammad Ali e la
scrittrice Liana Badr) e scene dal monologo di Bakri, il Pessoptimist (basato
su un romanzo di Emile Habibi)
In occasione della Nakba –
che commemora la pulizia etnica della maggior parte degli abitanti arabi della
Palestina nel 1948 ad opera delle forze di occupazione sionista – proponiamo
questo appuntamento cinematografico soprattutto nel momento in cui la
popolazione palestinese sta resistendo all’attacco israeliano.
Il film è sottotitolato in italiano grazie al lavoro
dell’associazione Ibriq
https://www.youtube.com/watch?v=57zYYfYsX44
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