sabato 26 giugno 2021

Nel Rojava si autogestisce anche l’assenza - Chiara Cruciati

 

Rinas accende il telefono e fa partire un breve video: una cascata d’acqua, un ruscello, il verde caldo di alberi e arbusti. «Questo è quello che avevo vicino a casa mia, è Afrin». Sorride mentre ci mostra il luogo che ha abbandonato tre anni fa, in fuga con altre 300mila persone dal cantone curdo della Siria nel nord-ovest durante i mesi della brutale offensiva turca.

Ramoscello d’ulivo, l’avevano ribattezzata gli alti comandi turchi. Di quell’offensiva restano centinaia di migliaia di sfollati, distribuiti in tutto il Rojava, e un piano avanzato di ingegneria demografica.

Fatma ha 70 anni, è la mamma di Rinas. È venuta a Qamishlo a far visita al figlio, alla nuora e ai tre nipoti. Lei vive ancora vicino Shabha, la sola zona che durante i bombardamenti accolse con enormi difficoltà gli sfollati. Persone senza rifugio, aiutate dalle comunità tra Aleppo e Afrin, con il governo di Damasco che chiudeva la strada per il sud della Siria e l’Amministrazione autonoma che tentava di imbastire un’accoglienza mentre resisteva ai turchi.

«Nei campi di Shabha ci sono 7.500 persone – ci spiega il Rojava Information Center – e 115mila nei villaggi della zona. Decine di migliaia sono nei quartieri turchi di Aleppo. Un numero imprecisato è fuggito in Europa e in Iraq». Fatma vive ancora là, fuori Shabha, ha aperto un negozio di frutta e verdura: «Lì il campo lo avevamo tirato su noi, gli sfollati. L’Amministrazione ci portava cibo, la Mezzaluna rossa le medicine. Anche la Russia ci ha offerto aiuti, li abbiamo rifiutati: avevano permesso che la Turchia ci attaccasse».

Ad Afrin aveva un ristorante («Era famoso, veniva gente anche da Aleppo») e un appezzamento di terra. La loro grande casa ora è occupata dalle famiglie dei miliziani filo-turchi, le unità islamiste dell’Esercito libero siriano (Els). «All’inizio l’hanno usata come base dell’intelligence, ci interrogavano le persone di Afrin rimaste e sospettate di legami con le Ypg. Ora ci vivono le mogli di tre miliziani: su Facebook abbiamo trovato per caso le foto di loro che fumano narghilè in salotto e indossano i nostri vestiti». Così Siam, la nuora di Fatma, racconta cosa ne è stato di casa loro e dà senso al teorico concetto di trasformazione demografica del cantone di Afrin.

Ha partorito la figlia Rojat sotto le bombe, il 29 gennaio 2018, nove giorni dopo l’inizio di “Ramoscello d’ulivo”: «Vivevamo nello scantinato da giorni. Ho iniziato ad avere le doglie e siamo riusciti a raggiungere l’ospedale. Mi hanno fatto il cesareo e mandato via, era pericoloso: in quell’ospedale curavano anche i combattenti di Ypg e Ypj, era nel mirino dei turchi».

Lo scorso fine settimana ad Afrin un attacco missilistico ha centrato l’ospedale di al-Shifa, ad Afrin. Diciannove i morti, i reparti maternità e di pronto soccorso distrutti. Subito è partito lo scambio di accuse, con la Turchia che indica le Sdf (le Forze democratiche siriane, ombrello delle unità combattenti curde, arabe, turkmene, siriache, assire) e le Sdf che negano qualsiasi coinvolgimento.

Di certo intorno ad Afrin la battaglia non si è mai conclusa: in città sventolano le bandiere turche, a scuola si studia il turco e la moneta ufficiale è la lira turca. Nel cantone sono state trasferite famiglie arabe e turkmene, mentre ai residenti storici viene impedito di tornare. Mentre proseguono con macabra regolarità arresti, stupri e sparizioni.

Un’operazione di ingegneria demografica: in un recente incontro 25 organizzazioni della società civile locale hanno calcolato che solo il 20% della popolazione originaria – curdi ed ezidi, cristiani e musulmani – vive ancora ad Afrin, il resto sono coloni. L’occupazione militare viene mantenuta in modi diversi: impedendo il rientro, occupando case, distruggendo i campi e gli uliveti e vessando che è riuscito a rimanere.

Fatma e Siam ci raccontano di rapimenti e richieste di riscatto da parte dell’Els, milioni di lire siriane (decine di migliaia di euro) per riavere indietro un parente o anche semplicemente il trattore per continuare a lavorare la terra che rimane: «A molte famiglie gli islamisti fanno pagare l’affitto sulle loro terre e le loro case, una sorta di tassa per non farsele espropriare».

Un anno e mezzo dopo l’occupazione di Afrin, la Turchia ha allargato la mira: il 9 ottobre 2019, dopo l’ufficioso via libera americano passato per il ritiro delle truppe Usa dal Rojava, Ankara ha lanciato una nuova offensiva. Si è conclusa poco più di una settimana dopo, 500 morti (di cui almeno un terzo civili), 300mila sfollati e la creazione della cosiddetta «safe zone», opaca terminologia per definire l’occupazione permanente di un corridoio di terre al confine (lungo un centinaio di chilometri) e delle città e le campagne di Serekaniye e Ain Issa.

All’epoca le Sdf si ritirarono, accettando il cessate il fuoco capestro negoziato dall’allora presidente Trump, per evitare un bagno di sangue peggiore. «Stavolta «il cielo non ci è stato amico come contro l’Isis», ci aveva detto qualche giorno prima un combattente siriaco cristiano: «Contro i caccia turchi gli Ak47 servono a poco».

Turchi e islamisti sono ancora lì, perpetrando il loro modello-Afrin. Gli sfollati sono altrove. 14.714 abitanti di Serekaniye vivono nel campo profughi di Washokani, alla periferia di Hasakah. Area desertica, sabbia, tende e autogestione: «This is a little Serekaniye», ci dice Stera Rashek, responsabile del campo e sfollata lei stessa. Perché qui, a Washokani, le 2.373 famiglie che ci vivono hanno ricreato in piccolo il sistema di amministrazione autonoma del resto del Rojava, quello che avevano sperimentato per anni nella loro città.

«Abbiamo aperto il campo il 24 ottobre 2019. Subito dopo l’attacco turco, avevamo trovato rifugio in una cinquantina di scuole, per questo l’Amministrazione ha deciso di aprire il campo, le scuole andavano restituite ai bambini». Di scuole ora ce ne sono anche a Washokani, a insegnare sono i maestri sfollati. Come nella clinica a lavorare sono medici e infermieri sfollati. E come al suq, una strada di 200 metri fitta di negozietti e forni: li hanno inaugurati i commercianti e i panettieri di Serekaniye.

«Abbiamo i co-sindaci, le Asaysh (le forze di difesa interna del Rojava), il consiglio, l’Assemblea del popolo, 106 comuni e le assemblee di quartiere. Dove per quartiere si intendono 20 tende. E poi i comitati come nel resto del confederalismo democratico: ai giovani, alla scuola, all’ambiente, alla salute. Discutono dei problemi da affrontare e presentano proposte al consiglio: quel che possiamo risolvere da soli, lo risolviamo», continua Rashek.

Lei, come responsabile, è il volto fuori, quella che incontra le istituzioni dell’Amministrazione nata una decina di anni fa con il progetto di confederalismo democratico, fondato sulla teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan. È l’amministrazione che finanzia il campo, da fuori non arriva nulla: ci sono organizzazioni locali impegnate in piccole progetti ma di soldi dal resto del mondo non c’è traccia.

«Ci manca una cucina, si vive ancora in tende di sei metri quadrati, non abbiamo ventilatori e i generatori non bastano per i condizionatori – aggiunge Alaa, uno dei coordinatori del campo – E il caldo nelle tende è insopportabile. Sul piano medico, possiamo fornire solo il pronto soccorso. E metà dei bambini non studia con continuità, le classi non bastano».

«Qua non stiamo male – ci dice Fawza, nella sua tenda che da un anno è mezzo è cucina e camera da letto per cinque persone – Ma vogliamo tornare a casa, a Serekaniye».

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