Rinas accende il telefono e fa partire un breve video: una cascata d’acqua, un ruscello, il verde caldo di alberi e arbusti. «Questo è quello che avevo vicino a casa mia, è Afrin». Sorride mentre ci mostra il luogo che ha abbandonato tre anni fa, in fuga con altre 300mila persone dal cantone curdo della Siria nel nord-ovest durante i mesi della brutale offensiva turca.
Ramoscello d’ulivo, l’avevano
ribattezzata gli alti comandi turchi. Di quell’offensiva restano centinaia di
migliaia di sfollati, distribuiti in tutto il Rojava, e un piano avanzato di
ingegneria demografica.
Fatma ha 70 anni, è la mamma di Rinas. È
venuta a Qamishlo a far visita al figlio, alla nuora e ai tre nipoti. Lei vive
ancora vicino Shabha, la sola zona che durante i bombardamenti accolse con
enormi difficoltà gli sfollati. Persone
senza rifugio, aiutate dalle comunità tra Aleppo e Afrin, con il governo di
Damasco che chiudeva la strada per il sud della Siria e l’Amministrazione
autonoma che tentava di imbastire un’accoglienza mentre resisteva ai turchi.
«Nei campi di Shabha ci sono 7.500
persone – ci spiega il Rojava Information Center – e 115mila nei villaggi della
zona. Decine di migliaia sono nei quartieri turchi di Aleppo. Un numero
imprecisato è fuggito in Europa e in Iraq». Fatma vive ancora là, fuori
Shabha, ha aperto un negozio di frutta e verdura: «Lì il campo lo avevamo
tirato su noi, gli sfollati. L’Amministrazione ci portava cibo, la
Mezzaluna rossa le medicine. Anche la Russia ci ha offerto aiuti, li abbiamo
rifiutati: avevano permesso che la Turchia ci attaccasse».
Ad Afrin aveva un ristorante («Era
famoso, veniva gente anche da Aleppo») e un appezzamento di terra. La loro grande casa ora è occupata dalle famiglie dei
miliziani filo-turchi, le unità islamiste dell’Esercito libero siriano (Els).
«All’inizio l’hanno usata come base dell’intelligence, ci interrogavano le
persone di Afrin rimaste e sospettate di legami con le Ypg. Ora ci vivono le
mogli di tre miliziani: su Facebook abbiamo trovato per caso le foto di
loro che fumano narghilè in salotto e indossano i nostri vestiti». Così Siam,
la nuora di Fatma, racconta cosa ne è stato di casa loro e dà senso al teorico
concetto di trasformazione demografica del cantone di Afrin.
Ha partorito la figlia Rojat sotto le
bombe, il 29 gennaio 2018, nove giorni dopo l’inizio di “Ramoscello
d’ulivo”: «Vivevamo nello scantinato da giorni. Ho iniziato ad avere le
doglie e siamo riusciti a raggiungere l’ospedale. Mi hanno fatto il cesareo e
mandato via, era pericoloso: in quell’ospedale curavano anche i combattenti di
Ypg e Ypj, era nel mirino dei turchi».
Lo scorso fine settimana ad Afrin
un attacco missilistico ha centrato l’ospedale di al-Shifa, ad Afrin.
Diciannove i morti, i reparti maternità e di pronto soccorso distrutti. Subito
è partito lo scambio di accuse, con la Turchia che indica le Sdf (le Forze
democratiche siriane, ombrello delle unità combattenti curde, arabe, turkmene,
siriache, assire) e le Sdf che negano qualsiasi coinvolgimento.
Di certo intorno ad Afrin la battaglia
non si è mai conclusa: in città sventolano le bandiere turche, a scuola si
studia il turco e la moneta ufficiale è la lira turca. Nel cantone sono state
trasferite famiglie arabe e turkmene, mentre ai residenti storici viene
impedito di tornare. Mentre
proseguono con macabra regolarità arresti, stupri e sparizioni.
Un’operazione di ingegneria demografica:
in un recente incontro 25 organizzazioni della società civile locale hanno
calcolato che solo il 20% della popolazione originaria – curdi ed ezidi,
cristiani e musulmani – vive ancora ad Afrin, il resto sono coloni. L’occupazione militare viene mantenuta in modi
diversi: impedendo il rientro, occupando case, distruggendo i campi e gli
uliveti e vessando che è riuscito a rimanere.
Fatma e Siam ci raccontano di rapimenti
e richieste di riscatto da parte dell’Els, milioni di lire siriane (decine di
migliaia di euro) per riavere indietro un parente o anche semplicemente il
trattore per continuare a lavorare la terra che rimane: «A molte famiglie gli
islamisti fanno pagare l’affitto sulle loro terre e le loro case, una sorta di
tassa per non farsele espropriare».
Un anno e mezzo dopo l’occupazione di
Afrin, la Turchia ha allargato la mira: il 9 ottobre 2019, dopo
l’ufficioso via libera americano passato per il ritiro delle truppe Usa dal
Rojava, Ankara ha lanciato una nuova offensiva. Si è conclusa poco
più di una settimana dopo, 500 morti (di cui almeno un terzo civili), 300mila
sfollati e la creazione della cosiddetta «safe zone», opaca terminologia per
definire l’occupazione permanente di un corridoio di terre al confine (lungo un
centinaio di chilometri) e delle città e le campagne di Serekaniye e Ain Issa.
All’epoca le Sdf si ritirarono,
accettando il cessate il fuoco capestro negoziato dall’allora presidente Trump,
per evitare un bagno di sangue peggiore. «Stavolta «il cielo non ci è
stato amico come contro l’Isis», ci aveva detto qualche giorno prima un
combattente siriaco cristiano: «Contro i caccia turchi gli Ak47 servono a poco».
Turchi e islamisti sono ancora lì,
perpetrando il loro modello-Afrin. Gli sfollati sono altrove. 14.714 abitanti di Serekaniye vivono nel campo profughi di
Washokani, alla periferia di Hasakah. Area desertica, sabbia, tende e
autogestione: «This is a little Serekaniye», ci dice Stera Rashek, responsabile
del campo e sfollata lei stessa. Perché qui, a Washokani, le 2.373 famiglie che
ci vivono hanno ricreato in piccolo il sistema di amministrazione autonoma del
resto del Rojava, quello che avevano sperimentato per anni nella loro
città.
«Abbiamo aperto il campo il 24 ottobre
2019. Subito dopo l’attacco turco, avevamo trovato rifugio in una cinquantina
di scuole, per questo l’Amministrazione ha deciso di aprire il campo, le scuole
andavano restituite ai bambini». Di scuole ora ce ne sono anche
a Washokani, a insegnare sono i maestri sfollati. Come nella clinica a lavorare
sono medici e infermieri sfollati. E come al suq, una strada di 200 metri fitta
di negozietti e forni: li hanno inaugurati i commercianti e i panettieri di
Serekaniye.
«Abbiamo i co-sindaci, le Asaysh (le
forze di difesa interna del Rojava), il consiglio, l’Assemblea del popolo, 106
comuni e le assemblee di quartiere. Dove per quartiere si intendono 20 tende. E
poi i comitati come nel resto del confederalismo democratico: ai giovani, alla scuola, all’ambiente, alla
salute. Discutono dei problemi da affrontare e presentano proposte al
consiglio: quel che possiamo risolvere da soli, lo risolviamo», continua Rashek.
Lei, come responsabile, è il volto
fuori, quella che incontra le istituzioni dell’Amministrazione nata una decina
di anni fa con il progetto di confederalismo democratico, fondato sulla
teorizzazione del leader del Pkk Abdullah Ocalan. È l’amministrazione che
finanzia il campo, da fuori non arriva nulla: ci sono organizzazioni locali
impegnate in piccole progetti ma di soldi dal resto del mondo non c’è traccia.
«Ci manca una cucina, si vive ancora in
tende di sei metri quadrati, non abbiamo ventilatori e i generatori non bastano
per i condizionatori – aggiunge Alaa, uno dei coordinatori del campo – E il
caldo nelle tende è insopportabile. Sul
piano medico, possiamo fornire solo il pronto soccorso. E metà dei bambini non
studia con continuità, le classi non bastano».
«Qua non stiamo male – ci dice Fawza,
nella sua tenda che da un anno è mezzo è cucina e camera da letto per cinque
persone – Ma vogliamo tornare a casa, a Serekaniye».
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