Il 25 giugno del 1991 è una data memorabile. Da quel giorno infausto, con
la proclamazione d’indipendenza della Slovenia e della Croazia dalla
Federazione jugoslava – che aveva ancora un seggio all’Onu e un esercito
unitario – , si apriva la voragine sanguinosa della guerra interetnica
jugoslava. Una data che fa sentire la «barra del tempo», secondo Varlam
Shalamov, che cambiò l’agenda del mondo. Iniziavano gli anni Novanta,
precipitava la crisi nell’Urss, iniziava il conflitto in Iraq, si avviava dopo
la caduta del Muro la riunificazione della Germania. E la guerra tornava nel
Vecchio continente, nel sud-est dell’Europa, strategico ponte del
confronto-scontro con l’Oriente.
Ora che si comincia a riconoscere quello che abbastanza isolato
denunciava allora il manifesto, vale la pena raccontarne gli
sviluppi decisivi.
La Federazione jugoslava era formazione storico-politica originalissima, dovuta
anche alla straordinaria storia del movimento di massa partigiano che aveva
liberato il Paese dall’occupazione nazi-fascista e dai regimi e forze locali ad
esso collegati. Con la leadership di Tito il Paese era stato in equilibrio
nella guerra fredda; dalla rottura con Stalin nel 1948 aveva costruito un suo
collocamento internazionale promuovendo il Movimento dei Non Allineati;
all’interno aveva avviato, pur sempre a partito unico, una forma di democrazia
della rappresentanza, l’autogestione, piuttosto partecipata e popolare
La spina nel fianco restavano i diversi pesi economici, spesso mal
distribuiti, dei Paesi componenti della Federazione. Per questo, dopo una
unificazione sotto l’egida costituzionale della repubblica socialista, nel 1974
Tito e Kardely avevano apportato la modifica federale sostanziale
dell’autonomia delle sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia
Erzegovina, Montenegro, Serbia più due regioni autonome aggregate alla Serbia,
il Kosovo a maggioranza albanese e la Vojvodina con forte presenza di una
popolazione di origine ungherese). Dopo la morte di Tito nel 1980 il Paese
entrò in una fibrillazione economica fortissima, ci fu il ricorso al Fondo
monetario internazionale – che avrebbe presto richiesto la restituzione –
vennero adottate misure di austerità e a partire dal 1985 cominciarono vaste
proteste sociali e conflitti nei comparti produttivi (valga per tutti il caso
dell’Agrokomerc).
Il clima non poteva non ripercuotersi sulla compagine del partito, la Lega
dei comunisti, e sulla nuova struttura costituzionale che prevedeva in un suo
articolo il diritto di veto sulle decisioni federali per ogni Repubblica.
Accadde proprio così nei Balcani e in anticipo – una antefatto
premonitorio della storia non solo la deriva del passato – , quella che negli
anni più recenti è stata ed è la crisi dell’Unione europea: una divisione
dovuta alla crisi economica e sociale. Per la quale, di fronte ai nodi del
bilancio statale le regioni più «ricche», come la Slovenia, posero il veto
sulla condivisione dei costi della crisi verso le regioni più povere
(Montenegro, Kosovo, Macedonia (l’unica quest’ultima grazie ad un accordo tra
Milosevic e Kiro Gligorov a rimanere fuori dal conflitto almeno fino alla
guerra civile intestina tra albanesi e slovo-macedoni).
L’espressione politica di questo incrinarsi dell’originario rapporto di
solidarietà, di «fratellanza e unità», furono le prime elezioni multipartitiche
del 1990 con l’emergere dei partiti nazionalisti e indipendentisti, ovunque –
in Croazia si rese evidente la forza dei movimenti neo-ustascia anche grazie a
massicci finanziamenti occidentali fatti in nome della «democrazia»; mentre in
Serbia a fronte della prima crisi esplosa in Kosovo con le proteste sociali e
dei dei minatori, andava in porto l’operazione di maquillage di Slobodan Milosevic,
leader emergente della Lega che cavalcava in modo spregiudicato e
irresponsabile il rinascente nazionalismo serbo.
L’Unione europea nasceva allora. Maastricht era un nome impronunciabile, ma il timore
per le crisi esplosiva dell’Urss impegnò i Paesi europei ad una scelta
importante: la Commissione Badinter decise che non si dovevano riconoscere
proclamazioni di indipendenza fatte in modo unilaterale, con la violenza e nel
disprezzo del metodo democratico. Ecco. L’Europa dal 25 giugno del 1991 fece tutto
il contrario di quello che aveva deciso: riconobbe – in primis fu La Germania
di Kohl e Gensher insieme al Vaticano del polacco Wojtyla – le indipendenze di
Slovenia e Croazia che si erano dichiarate indipendenti sulla base di valori
etnici: «La Slovenia è la patria degli sloveni» e la «Croazia è la patria dei
croati» dichiaravano le prime costituzioni de nuovi Stati.
Via via tutti gli altri Stati della nuova Unione europea riconobbero queste
indipendenze su base etnica, senza chiedersi che fine avrebbero fatto le
popolazioni non slovene e non croate dentro Stati etnicamente puri. E infatti
cominciarono le proclamazioni dei serbi in Croazia, nella Baranja e in Krajina.
E questo aprì la voragine di quello che sarebbe stato il conflitto in Bosnia
Erzegovina dove tutte le etnie e le religioni erano rappresentate.
È proprio così. L’Unione europea nasce e si costruisce specularmente a partire
dalla distruzione della Federazione jugoslava.
Per una guerra dunque nella quale non è vero che non siamo intervenuti se non troppo
tardi, ma che invece abbiamo contribuito a fare esplodere e della quale siamo
co-responsabili insieme ai nazionalismi interni. È una responsabilità
sanguinosa di centinaia di migliaia di vittime, di stragi, pulizia etnica,
l’assedio di sarajevo, violenza sulle donne, tutti crimini per i quali
apparecchiati Tribunali ad hoc hanno incolpato solo i criminali locali ma non
ancora – e forse mai più – quelli internazionali. Perché anche qui la verità è
stata il primo bersaglio della guerra intestina.
Si poteva fare diversamente? Eccome se si poteva. Di fronte ad una realtà
jugoslava che vedeva ben19 nazionalità, almeno tre religioni (cristiano
ortodossa, musulmana e cattolica) e quattro lingue ma dove al primo censimento
del 1981 che chiedeva a quale etnia si apparteneva, milioni di persone si erano
pure dichiarate solo «jugoslave», bisognava agire con saggezza intimando che
quella area sarebbe entrata nell’Ue solo se avesse salvaguardato la sua unità.
L’Europa nascente – e non ancora gli Stati uniti in aperto disaccordo – fece tutto il
contrario: fece intendere con i riconoscimenti delle indipendenze su base
etnica, che quella realtà sarebbe entrata a pezzi e, anzi, doveva entrare solo
se divisa. Non solo, ogni Stato europeo cominciò a sostenere una Repubblica
contro l’altra (p.s. la Germania si schierò con Slovenia e Croazia, la Francia
con la Serbia ecc.). Divide et impera, insomma. Così possiamo affermare che la
costruzione unitaria dell’Ue avviene sulla distruzione della Federazione
jugoslava.
Fu una iniziativa scellerata tutta europea, per la quale stavolta gli Stati
uniti del segretario di Stato, il repubblicano James Baker e del grande inviato
Cyrus Vance , preoccupati del crollo di un Paese cardine dell’equilibrio con
l’Oriente e già alleato dell’Occidente per tutta la guerra fredda, provarono
fino all’ultimo a contraddire la tendenza; ma poi con la presidenza Clinton
tutto cambiò e gli Usa divennero sponsor di tutti i conflitti sul campo aprendo
in Bosnia perfino all’arrivo di mujaheddin dall’Afghanistan e ai ripetuti
interventi della Nato che finalmente trovava occasione di protagonismo; fino
alla pace di carta di Dayton a fine ‘95 che altro non fu che una spartizione su
base etnica.
La fotografia attuale degli staterelli nati dalla eterodeterminazione
sanguinosa della Federazione jugoslava ci dice che nessuno di questi Paesi da
solo ha un futuro. Non ce l’ha la Slovenia membro Ue alle prese con il leader
Janez Jansa allora dissidente di Mladina e guida delle milizie che assaltarono
senza pietà drappelli di soldati di leva jugoslavi, lo stesso che però ora è
legato a Orban e le piazze in protesta lo chiamano «dittatore»; e che i
conflitti sui coinfini tra Sterelli restano (il Golfo di Pirano conteso tra
Lubjana e Zagabria); che la crisi bosniaca, appesa alla spartizione, si riapre;
che la questione albanese nell’area resta irrisolta, anche nella nuova entità
della Macedonia del Nord; che la solitudine serba resta pericolosa; che il
Kosovo è uno Stato impresentabile. Ma tutti o quasi hanno un nuovo fiammante
bilancio della difesa: dopo il piccolo Montenegro, sono ormai tutti dentro la
Nato o in ottica atlantica. La vogliamo chiamare espansione della democrazia
liberale?
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