Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2010
sul numero 870 di
Internazionale.
Stiamo vivendo una crisi di enormi proporzioni e di portata globale. Non mi
riferisco alla recessione economica cominciata nel 2008, ma a una crisi che
passa inosservata e che alla lunga sarà molto più dannosa per il futuro della
democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione.
Sono in corso cambiamenti radicali in quello che le società democratiche
insegnano ai giovani, e su questi cambiamenti non si riflette abbastanza.
Attirati dal profitto, molti paesi, e i loro sistemi scolastici, stanno
escludendo alcuni saperi indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se
questa tendenza continuerà, gli stati di tutto il mondo produrranno generazioni
di macchine docili, utili e tecnicamente qualificate, invece di cittadini a
pieno titolo, in grado di pensare da soli, mettere in discussione le
consuetudini, e comprendere le sofferenze e i successi degli altri.
Quali sono questi cambiamenti radicali? Gli studi umanistici e artistici
stanno subendo pesanti tagli sia nell’istruzione primaria e secondaria sia in
quella universitaria, in quasi tutti i paesi del mondo. In un momento in cui
gli stati devono eliminare il superfluo per rimanere competitivi sul mercato
globale, le lettere e le arti – considerate accessorie dai politici – stanno
rapidamente sparendo dai programmi di studio, dalle menti e dai cuori di
genitori e studenti. E anche quelli che potremmo definire gli aspetti
umanistici della scienza e delle scienze sociali – l’aspetto creativo e
inventivo, e il pensiero critico rigoroso – stanno passando in secondo piano,
perché si preferisce inseguire il profitto a breve termine garantito da
conoscenze pratiche adatte a questo scopo.
Stiamo inseguendo i beni materiali che ci piacciono, e ci danno sicurezza e
conforto: quelli che lo scrittore e filosofo indiano Rabindranath Tagore
chiamava il nostro “rivestimento” materiale. Ma sembriamo aver dimenticato le
capacità di pensiero e immaginazione che ci rendono umani, e che ci permettono
di avere relazioni umanamente ricche invece di semplici legami utilitaristici.
Se non siamo educati a vedere noi stessi e gli altri in questo modo,
immaginando le reciproche capacità di pensiero ed emozione, la democrazia è
destinata a entrare in crisi perché si basa sul rispetto e sull’attenzione per
gli altri. Questi sentimenti a loro volta si basano sulla capacità di vedere le
altre persone come esseri umani e non come oggetti.
Non nego che la scienza e le scienze sociali, in particolare l’economia,
siano altrettanto importanti per la formazione dei cittadini. Anche queste
discipline possono essere permeate di elementi che formano uno spirito
umanistico: la ricerca del pensiero critico, la sfida dell’immaginazione,
l’empatia per le esperienze umane più diverse e la comprensione della
complessità del mondo in cui viviamo. Un mondo in cui le persone si trovano a
confrontarsi nonostante le distanze geografiche, linguistiche e nazionali.
Eppure, più che in ogni altra epoca del passato, tutti noi dipendiamo da
persone che non abbiamo mai visto e che a loro volta dipendono da noi. I
problemi che dobbiamo affrontare – economici, ambientali, religiosi e politici
– sono di portata mondiale.
Nessuno può dirsi estraneo a questa interdipendenza globale. Scuole e
università di tutto il mondo hanno un compito urgente e molto importante:
aiutare gli studenti a vedere se stessi come membri di una nazione eterogenea e
a comprendere la storia e il carattere dei diversi gruppi che compongono un
mondo ancora più eterogeneo. La conoscenza non è una garanzia di buona
condotta, ma l’ignoranza garantisce una condotta cattiva.
Per essere cittadini del mondo servono veramente gli studi umanistici? Di
certo servono molte conoscenze che si possono ottenere senza un’istruzione
umanistica. Tuttavia, per essere cittadini responsabili serve molto di più: la
capacità di valutare i dati storici, di applicare e valutare criticamente i
princìpi economici, di confrontare le varie opinioni sulla giustizia sociale,
di parlare lingue straniere, di comprendere la complessità delle grandi
religioni mondiali. Un elenco di fatti, senza la capacità di valutarli, può
essere dannoso quanto l’ignoranza.
Socrate disse che “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”.
In una democrazia viziata dalla retorica roboante e diffidente verso il
ragionamento, Socrate perse la vita proprio per la sua fedeltà all’ideale
dell’interrogazione critica. Oggi il suo esempio è al centro della teoria e
della pratica dell’insegnamento delle materie umanistiche nella tradizione
occidentale. Alcune sue idee sono rintracciabili anche nei princìpi formativi
in India e in altre culture non occidentali. Agli studenti universitari vengono
spesso offerti corsi di materie umanistiche perché si pensa che li stimolino a
pensare e a ragionare in modo autonomo invece di conformarsi alla tradizione e
all’autorità. La capacità di ragionare in maniera socratica è importante per
ogni tipo di democrazia, ma lo è in modo particolare nelle società dove sono
presenti persone di etnie, caste e religioni diverse. L’idea di assumersi la
responsabilità dei propri ragionamenti e di scambiare idee con gli altri in
un’atmosfera di rispetto reciproco è essenziale alla soluzione pacifica delle
divergenze sia all’interno di un singolo paese sia in un mondo sempre più
polarizzato dai conflitti etnici e religiosi. Ma l’idea-le socratico è
gravemente minacciato in un mondo orientato alla massima crescita economica.
La capacità di pensare e argomentare in modo autonomo può sembrare superflua
se si cercano risultati quantificabili da sfruttare dal punto di vista
commerciale. Inoltre, è difficile valutare l’abilità socratica attraverso i
test scolastici standardizzati. Dato che gli studenti sono sempre più spesso
valutati attraverso prove di questo tipo, è facile che si finiscano per
trascurare gli aspetti socratici del programma di studi e dell’educazione. La
cultura della crescita economica ha una forte inclinazione per i test
standardizzati e non tollera gli insegnamenti che non sono rapidamente
valutabili in quel modo.
Il rischio delle lezioni frontali
Il metodo socratico è una pratica sociale. L’ideale sarebbe che ispirasse il
funzionamento del maggior numero possibile di istituzioni sociali e politiche.
È anche una disciplina che potrebbe essere insegnata a scuola o all’università.
Richiede molti sforzi da parte degli insegnanti perché prevede frequenti scambi
con gli studenti, ma spesso dà risultati commisurati all’investimento. Questo
tipo d’insegnamento è ancora abbastanza comune negli Stati Uniti, con il
modello basato sulle liberal arts, ma è
molto meno diffuso in Europa e in Asia, dove gli studenti entrano
all’università per specializzarsi in una disciplina e non sono tenuti a seguire
corsi di cultura generale. Inoltre nei paesi asiatici ed europei i docenti
tengono spesso lezioni frontali, che richiedono una partecipazione minima o
pari a zero da parte degli studenti e non danno feed-back.
In ogni caso, introdurre il modello socratico nella scuola primaria e
secondaria non è un’utopia. È un compito alla portata di una comunità che
rispetta i suoi bambini e il funzionamento della democrazia.
All’inizio del settecento alcuni intellettuali in Europa, in Nordamerica e
in India hanno cominciato a prendere le distanze da un modello educativo basato
sull’apprendimento meccanico. Hanno cercato invece di condurre esperimenti in
cui i bambini erano soggetti attivi e critici. Le teorie europee più innovative
– come quelle di Jean-Jacques Rousseau, Johann Pestalozzi e Friedrich Fröbel –
hanno avuto un’influenza determinante negli Stati Uniti attraverso i lavori di
Amos Bronson Alcott e Horace Mann, nell’ottocento, e di John Dewey, il più
importante fautore del metodo socratico negli Stati Uniti, nel novecento.
Diversamente dai suoi predecessori europei, Dewey visse e insegnò in una
democrazia solida, e il suo principale obiettivo era la formazione di cittadini
rispettosi gli uni degli altri. Gli esperimenti di Dewey hanno lasciato un
segno profondo sull’istruzione primaria negli Stati Uniti.
La storia ci mostra che l’insegnamento dei valori socratici produce
cittadini critici, curiosi e in grado di resistere all’autorità e alle
pressioni sociali. Ma cosa sta succedendo oggi? In molti paesi europei e
asiatici, soprattutto in India, Socrate non è mai stato popolare o è diventato
obsoleto molto presto. Negli Stati Uniti, grazie a Dewey, la situazione è
leggermente migliore, ma le cose stanno cambiando rapidamente e ci avviciniamo
sempre di più alla scomparsa dell’idea-le socratico.
Per capire bene la complessità del mondo non si possono usare solo la
logica e le conoscenze fattuali. Le persone hanno bisogno di un terzo elemento,
strettamente correlato ai primi due, che possiamo chiamare immaginazione
narrativa. È la capacità di pensarsi nei panni di un altro, di essere un
lettore intelligente della storia di quella persona, di comprenderne le
emozioni, le voglie e i desideri. Coltivare l’empatia è stato uno dei punti
chiave delle migliori concezioni moderne di istruzione democratica. Buona parte
di questo insegnamento è dato dalla famiglia, ma anche la scuola e l’università
svolgono una funzione importante. Per questo, devono attribuire una posizione
di primo piano alle materie umanistiche, letterarie e artistiche, utili a una
formazione di tipo partecipativo che attivi e perfezioni la nostra capacità di
vedere il mondo attraverso gli occhi di un altro.
Quest’abilità si sviluppa nei bambini attraverso il gioco immaginativo. Il
gioco è un tipo di attività che si svolge nello spazio tra persone, quello che
il pediatra e psicanalista britannico Donald Winnicott chiama “spazio
potenziale”. Qui le persone (prima bambini, poi adulti) sperimentano l’idea
dell’alterità in modi molto meno pericolosi di quanto potrebbe essere
l’incontro con altre persone. Nel gioco, la presenza dell’altro diventa una
fonte di piacere e di curiosità, che a sua volta contribuisce allo sviluppo di
atteggiamenti sani in amicizia, in amore e, più tardi, nella vita politica.
Come osservava acutamente uno dei pazienti di Winnicott, “l’aspetto allarmante
dell’uguaglianza è che diventiamo entrambi bambini e il problema è: dov’è il
padre? Noi sappiamo dove siamo solo se uno di noi è il padre”. Il gioco insegna
alle persone a vivere con gli altri senza bisogno di controlli: mette in
relazione le esperienze di vulnerabilità e di sorpresa alla curiosità e allo
stupore, invece di cadere in una paralizzante ansietà.
Nella reazione degli adulti a un’opera d’arte complessa, Winnicott vedeva
una continuità con il piacere che i bambini provano nel gioco. Secondo lui la
funzione dell’arte in tutte le culture umane è nutrire e ampliare la capacità
di empatia.
Molti educatori moderni si sono resi conto ben presto che, una volta finita
la scuola, il più importante contributo delle arti alla vita di una persona è quello
di rafforzare le risorse emotive e immaginative, ovvero la capacità di
comprendere se stessi e gli altri. Per vedere le arti al centro dell’istruzione
primaria abbiamo dovuto, però, attendere il novecento, con gli esperimenti
scolastici di Tagore in India e di Dewey negli Stati Uniti.
Secondo Dewey, non bisognava insegnare ai bambini a contemplare le opere
d’arte come se fossero qualcosa di estraneo al mondo reale. E neanche a credere
che l’immaginazione fosse qualcosa di pertinente solo al dominio dell’irreale e
del fantastico. Al contrario, dovevano abituarsi a cogliere la dimensione
fantasiosa in ogni loro interazione, e a vedere le opere d’arte come uno dei
tanti ambiti dove si coltiva l’immaginazione.
Tagore, invece, sosteneva che il ruolo fondamentale delle arti era
coltivare l’empatia e faceva notare che questa funzione pedagogica era stata
sistematicamente ignorata e severamente repressa da modelli scolastici
standardizzati. Le arti, secondo Tagore, alimentano sia la formazione interiore
sia l’attenzione e la sensibilità verso gli altri. Questi due momenti si
sviluppano allo stesso tempo, perché difficilmente si può capire l’altro se non
ci si sa guardare dentro.
Zone d’ombra
Tutte le società in tutte le epoche storiche hanno avuto le loro zone d’ombra,
hanno trattato alcuni gruppi in modo ottuso. Parlando del suo romanzo Uomo invisibile (Einaudi 1956), lo scrittore
statunitense Ralph Ellison lo definì “una zattera di speranza, intuizione e
divertimento”, grazie alla quale la cultura statunitense avrebbe potuto evitare
“i tronchi sommersi e i mulinelli” che stanno tra noi e il nostro ideale
democratico. Attraverso l’immaginazione, diceva Ellison, riusciamo a sviluppare
la capacità di cogliere la piena umanità delle persone che incontriamo tutti i giorni
e con cui abbiamo rapporti superficiali o, peggio, viziati da stereotipi. E gli
stereotipi abbondano in un mondo come il nostro, che ha crea-to nette
separazioni tra gruppi e dove la diffidenza ostacola ogni incontro. Il romanzo
di Ellison aveva come tema e come obiettivo polemico lo “sguardo interiore” del
lettore bianco. L’eroe è invisibile alla società dei bianchi, ma ci spiega che
la sua invisibilità è dovuta a una lacuna nell’istruzione e nell’immaginazione
dei bianchi, non a un fatto biologico.
Negli Stati Uniti di Ellison il tema caldo era quello della razza. Per
Tagore, invece, la zona d’ombra culturale era la condizione intellettuale e la
capacità di agire delle donne. Per questo si impegnò molto per promuovere la
curiosità e il rispetto reciproco tra i sessi.
Ellison e Tagore affermano che, per comprendere a pieno le discriminazioni
e le diseguaglianze sociali, non basta essere informati. Bisogna anche mettersi
nei panni di chi è discriminato, un’esperienza resa possibile dal teatro e
dalla letteratura. Dalle riflessioni di Tagore e di Ellison deduciamo che le
scuole e le università, quando trascurano le lettere e le arti, trascurano
anche delle opportunità molto importanti di comprensione democratica.
Dobbiamo coltivare “lo sguardo interiore” degli studenti. In altre parole,
la funzione delle discipline umanistiche nelle scuole e nelle università è
duplice: migliorano in generale le capacità di gioco e di empatia, e lavorano
in particolare su alcune zone d’ombra culturali.
L’immaginazione è strettamente legata alla capacità socratica di esercitare
il pensiero critico sulle consuetudini scomparse o inadeguate. Difficilmente
una persona riesce a rispettare la posizione di un’altra se non comprende la
concezione della vita o le esperienze da cui questa posizione scaturisce. Ma le
discipline umanistiche fanno anche di più. Rendendo piacevoli gli atti di
comprensione, sovversione e riflessione culturale, aiutano a dialogare con i
pregiudizi del passato, invece di instaurare un rapporto caratterizzato solo
dalla paura e dalla diffidenza.
Questo è quello che intendeva Ellison quando definiva Uomo invisibile “una zattera di speranza,
intuizione e divertimento”. Il divertimento è fondamentale per l’artista che
vuole offrire intuizione e speranza.
In tutte le democrazie moderne, l’interesse nazionale esige un’economia
forte e una cultura di mercato fiorente. Un’economia florida a sua volta
richiede le stesse capacità della buona cittadinanza. I sostenitori di quella
che chiamerò “istruzione a scopo di lucro” o “istruzione finalizzata alla crescita
economica” invece hanno adottato una versione impoverita di quello che sarebbe
necessario per raggiungere i loro stessi obiettivi. Ma dato che un’economia
forte dev’essere un mezzo per raggiungere finalità umane, e non un fine in sé,
la questione più importante è la stabilità delle istituzioni democratiche.
La maggior parte di noi non vorrebbe vivere in un paese ricco che ha
rinunciato a essere democratico. Eppure si moltiplicano le voci favorevoli a un
sistema scolastico che promuove lo sviluppo nazionale sotto forma di crescita
economica. È il modello abbozzato da un recente rapporto della commissione
Spellings, creata dal ministero dell’istruzione di Washington per fare il punto
sul futuro della scuola superiore.
L’istruzione a scopo di lucro richiede conoscenze di
base, come scrivere e fare di conto. La parità di accesso non è importante
Lo stesso modello è promosso in molti paesi europei, che assegnano i fondi
alle facoltà scientifiche e tecniche, tagliandoli a quelle umanistiche. Lo
stesso tema è al centro del dibattito sull’istruzione in India e nella
maggioranza dei paesi emergenti.
Gli Stati Uniti non hanno mai avuto un modello di formazione scolastica
puramente orientato alla crescita economica. Alcune caratteristiche distintive
di questo sistema resistono bene al tentativo di rimodellarle. A differenza di
quello che succede in altri paesi, l’università statunitense dà ampio spazio
alle materie umanistiche, soprattutto nei primi due anni di corso.
Questo modello caratterizza anche l’istruzione secondaria e non è un
residuo di vecchie forme di distinzione di classe. Fin dall’inizio, infatti, i
responsabili dell’istruzione negli Stati Uniti ebbero ben chiaro lo stretto
legame tra gli studi umanistici e la preparazione di cittadini bene informati, indipendenti
e democratici. Questo modello è ancora abbastanza solido, ma è sotto attacco a
causa della crisi economica.
L’istruzione finalizzata alla crescita economica richiede conoscenze di
base, come scrivere e fare di conto. In seguito, alcune persone dovranno
acquisire saperi più complessi, in informatica e nuove tecnologie. La parità di
accesso all’istruzione non è importante: un paese può crescere anche se i
contadini poveri rimangono analfabeti, come succede in molti stati dell’India.
Questo è sempre stato il problema del modello di sviluppo basato sul pil:
trascura la distribuzione della ricchezza e finisce per valutare positivamente
paesi dove esistono disparità allarmanti.
Questa situazione si riflette anche nella scuola: una volta formata un’élite
competente in termini tecnologici e commerciali, alcuni paesi possono far
crescere il loro pil senza preoccuparsi della distribuzione della conoscenza.
Anche in questo caso, almeno in teoria, gli Stati Uniti non si sono fatti
condizionare dal paradigma della crescita. Nella tradizione della scuola
pubblica statunitense, le pari opportunità per tutti – sebbene mai rea-lizzate
con determinazione – sono sempre state uno degli obiettivi ufficiali, e sono
difese anche dai politici più sensibili al richiamo del primato economico, come
gli autori del rapporto Spellings.
Oltre a una preparazione di base per molti, e una formazione più avanzata
per pochi, l’istruzione finalizzata alla crescita economica avrà bisogno almeno
di una forma rudimentale di conoscenza della storia e delle vicende economiche.
Ma questa narrazione storica ed economica dovrà evitare ogni seria riflessione
su classe, razza e genere, e ogni tipo di giudizio sulla reale utilità degli
investimenti stranieri per i contadini poveri o sulla possibilità che la
democrazia possa sopravvivere senza garantire a tutti le stesse opportunità.
Il pensiero critico non è veramente importante nell’istruzione a scopo di
lucro. La libertà di pensiero degli studenti è pericolosa quando quello che si
vuole è un gruppo di lavoratori obbedienti e professionalmente preparati, in
grado di realizzare i progetti di un’élite che punta tutto sugli investimenti
stranieri e sullo sviluppo tecnologico. Gli educatori che hanno come obiettivo
solo la crescita economica non vogliono che si studi la storia delle
ingiustizie di classe, casta, genere e appartenenza etnica o religiosa, perché
questo spingerebbe a riflettere in modo critico sul presente. Non vogliono
nemmeno una riflessione seria sul diffondersi del nazionalismo, sui danni
prodotti dalle ideologie nazionaliste o sul modo in cui la dimensione etica
rimane in secondo piano rispetto alla presunta superiorità della tecnica.
Che dire poi delle lettere e delle arti, tanto apprezzate dagli educatori
democratici? L’istruzione finalizzata alla crescita economica non dà valore a
questo tipo di formazione, perché è apparentemente inutile rispetto alla
ricerca del successo economico. Ma i sostenitori della crescita non si limitano
a trascurare gli studi umanistici. In realtà li temono. Una persona istruita e
in grado di provare empatia per l’altro è un nemico particolarmente pericoloso
dell’ottusità, e l’ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di
sviluppo economico che ignorano le diseguaglianze.
È più facile trattare le persone come oggetti da manipolare se non si è mai
imparato a vederle in un altro modo. Come disse Tagore, il nazionalismo
aggressivo ha bisogno di annebbiare la coscienza morale. Ha bisogno di persone
che non apprezzano l’individualità, che ripetono gli slogan del gruppo, che si
comportano e che vedono il mondo come docili burocrati. Le arti sono un grande
nemico dell’ottusità, e gli artisti (a meno che non siano sottomessi o
corrotti) non sono servi di nessuna ideologia. Chiedono invece all’immaginazione
di superare i confini e di vedere le cose in modo differente.
Intelligenze flessibili
Per gli studi umanistici vale quanto si è detto per il pensiero critico: sono
essenziali per la crescita economica. I più importanti formatori di dirigenti
d’azienda hanno capito da tempo che una buona capacità di immaginazione è il
pilastro di una buona cultura degli affari. L’innovazione richiede intelligenze
flessibili, aperte e creative. La letteratura e le arti stimolano queste
facoltà. Quando mancano, la cultura aziendale perde colpi in fretta. Sempre più
spesso, al momento dell’assunzione i laurea-ti nelle materie umanistiche sono
preferiti a studenti che hanno avuto una formazione rigorosamente
professionale, proprio perché si pensa che abbiano una mente più elastica e
creativa.
Musica, danza, disegno e teatro sono le strade maestre del piacere e delle
capacità di espressione. E per incoraggiarle non serve una grossa spesa. Anzi,
un tipo di formazione basata sullo sviluppo della capacità di pensiero e di
immaginazione di studenti e insegnanti potrebbe essere più conveniente, perché
ridurrebbe il senso di anomia e la perdita di tempo che deriva dalla mancanza
di impegno personale. Come ha dichiarato recentemente la preside di Harvard,
Drew Faust, “le persone hanno bisogno di comprensione e di prospettive almeno
quanto hanno bisogno di lavoro. Il problema non è se di questi tempi possiamo
permetterci di credere in questi obiettivi, ma se possiamo permetterci di non
crederci”.
L’errore di Nehru
Oggi in alcuni casi le università statunitensi alimentano la cittadinanza
democratica meglio di cinquant’anni fa. A quei tempi gli studenti sapevano poco
del mondo e delle minoranze del loro paese. Nuove aree di studi, convogliate
nelle materie umanistiche, hanno migliorato la comprensione dei paesi non
occidentali, dell’economia globale, dei rapporti tra persone di razze diverse,
delle dinamiche di genere, della storia dell’immigrazione e delle lotte di
nuovi gruppi per il riconoscimento e l’uguaglianza. Tuttavia, non possiamo ritenerci
soddisfatti dello stato di salute degli studi umanistici. Nonostante le
donazioni filantropiche, la crisi economica ha spinto molte università a fare
tagli in questo settore, perché non è considerato essenziale.
In Europa le cose vanno ancora peggio. L’imperativo della crescita
economica ha spinto la maggior parte dei governi a riorientare i loro sistemi
universitari – in termini di insegnamento e di ricerca – secondo l’ottica della
crescita. In India le materie umanistiche sono sempre state poco considerate da
quando Nehru, negli anni quaranta, ha deciso di rendere la scienza e l’economia
i pilastri del futuro del paese. Nonostante il suo amore per la poesia e la
letteratura, Nehru concluse che le modalità emotive e immaginative della
conoscenza dovessero cedere il passo alla scienza, e il suo punto di vista
prevalse sugli altri.
Nell’insegnamento primario le esigenze del mercato globale hanno spinto
tutti i pae-si a mettere l’accento sulle conoscenze tecniche e scientifiche,
mentre le arti e le lettere sono state riformulate per diventare a loro volta
delle conoscenze valutabili con questionari a scelta multipla. In un paese come
l’India, che aspira alla crescita, o in uno come gli Stati Uniti, che vuole
mantenere i suoi posti di lavoro, le competenze umanistiche sono considerate
superflue. I programmi d’insegnamento hanno sacrificato l’immaginazione e lo
spirito critico per concentrarsi solo su quello che è strettamente utile alla
preparazione degli esami.
Gli Stati Uniti del presidente Barack Obama hanno la possibilità di
cambiare la situazione, promuovendo una concezione dell’istruzione più
complessa. Nei suoi discorsi sulla scuola, il presidente sottolinea il problema
dell’uguaglianza, parlando dell’importanza che tutti i cittadini siano in grado
di inseguire il “sogno americano”. Ma inseguire un sogno presuppone dei
sognatori: intelligenze educate a pensare criticamente alle alternative e a
immaginare obiettivi ambiziosi, non solo in termini economici, ma anche di
dignità umana e dimensione democratica.
Per il momento Obama ha parlato di reddito individuale e di crescita
economica nazionale, affermando che l’istruzione di cui c’è bisogno è proprio
quella che serve a questi due obiettivi. Ancora più preoccupante è il fatto che
abbia ripetutamente elogiato paesi come Singapore, più avanzati degli Stati
Uniti nella formazione tecnologica e scientifica. “Stanno investendo meno tempo
a insegnare cose che non servono, e più tempo a insegnare cose che servono. Stanno
preparando i loro studenti non al liceo o all’università, ma alla carriera. Noi
no”, ha detto Obama. “Cose che servono” equivale a “cose che preparano alla
carriera”. Una vita fatta di rispetto e ricca di contenuti, una cittadinanza
attenta e scrupolosa, non sono mai citate come finalità per cui valga la pena
investire tempo.
Quando le persone cominciarono a interessarsi alla partecipazione
democratica, le scuole in tutto il mondo furono ripensate per istruire quel
tipo di giovane che avrebbe funzionato bene in una forma di governo così
esigente: non un gentiluomo raffinato, pieno del sapere del tempo andato, ma
una persona che fa parte di una comunità di uguali in modo attivo, critico,
riflessivo ed empatico, e che sa confrontarsi con gli altri sulla base della
comprensione e del rispetto verso persone della più diversa estrazione. Oggi
possiamo ancora dire che ci piacciono la democrazia e la partecipazione
politica, e ci piacciono anche la libertà di parola, il rispetto della
differenza e la comprensione dell’altro. Formalmente rispettiamo questi valori,
ma non pensiamo quasi mai a quello che dovremmo fare per trasmetterli alle
generazioni future e garantirne la sopravvivenza.
(Traduzione di R. Falcioni)
Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2010
sul numero 870 di
Internazionale. È tratto dal libro “Non per profitto” (Il Mulino 2011).
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