Non ho ancora letto il libro che Alberto Saibene ha
dedicato al FAI, ma conoscendo la cultura e la sensibilità di Antonella Tarpino
non dubito che sia un libro da leggere (Il FAI e la sfida per un’Italia migliore).
Ho invece molti dubbi sul fatto che – al di là
dell’ottima fede di moltissimi cittadini che contribuiscono alla sua opera – il
FAI giochi oggettivamente dalla parte giusta, nella partita per un’Italia
migliore.
Il FAI possiede ormai un elenco imponente di siti
straordinariamente importanti: come l’abbazia di San Fruttuoso, la Villa dei
Vescovi a Padova, Villa Panza di Biumo, il Castello di Avio o il Castello della
Manta. Amministrandoli, conservandoli e aprendoli ai cittadini il Fondo svolge
un’azione davvero “sussidiaria” a quella dello Stato, un’azione preziosa per la
quale tutta la nazione dev’essere grata: perché sospinge questi luoghi
monumentali verso una dimensione pubblica, “remando” nel senso storico della
Costituzione.
Ma il FAI ha anche preso in concessione alcuni importantissimi
monumenti appartenenti allo Stato, come il Giardino della Kolymbetra ad
Agrigento e la Villa Gregoriana di Tivoli: e naturalmente c’è una grande
differenza tra le concessioni date ai privati for profit, e quelle
assegnate al FAI. Tuttavia, è importante notare che qui il FAI non compie
un’azione sussidiaria rispetto a uno Stato che fa il proprio dovere: ma,
invece, un’azione evidentemente sostituiva e suppletiva di uno Stato in
ritirata. E se questo può essere accettabile (o addirittura temporaneamente
necessario) come soluzione di emergenza, bisogna però avere ben chiaro che non
può configurarsi come un’alternativa “strategica” alla tutela pubblica: come
invece gli ultimi due presidenti del FAI (Ilaria Borletti Buitoni e Andrea
Carandini) hanno provato a sostenere, con posizioni in cui si può intravvedere
ciò che, in un contesto più largo, Giovanni Moro ha definito «una specie di
alleanza tra neoliberismo e cultura delle opere pie, contro lo Stato» (G.
Moro, Contro il non profit, Laterza, Roma, 2014, p. 160).
La proposta FAI di conferire una parte del patrimonio
culturale pubblico a una sorta di grande fondazione privata modellata sul National
Trust britannico appare, per esempio, regressiva: perché il nostro
modello è più avanzato di quello inglese sia sul piano cognitivo (perché è
basato sull’intreccio continuo tra tutela e ricerca scientifica: che una
fondazione privata difficilmente può assicurare), sia sul piano democratico
(perché è ancorato a un sistema forte di diritti della persona e attuato da un
personale selezionato attraverso pubblici concorsi), sia sul piano
dell’efficienza (lo dimostra il livello di conservazione incomparabilmente più
alto del tessuto storico delle nostre città, rispetto a quello delle
paragonabili città inglesi). È anche opportuno ricordare che, fin dalla legge
Ronchey, l’altra faccia delle concessioni for profit (cioè
della privatizzazione del patrimonio culturale) è stato l’uso del volontariato:
in questo solco un ricorso strutturale al non profit rischia
di essere non un’alternativa virtuosa, ma una inconsapevole copertura per la
commercializzazione del patrimonio, per lo sfruttamento dei nuovi schiavi della
cultura e per il simultaneo, e ormai definitivo, congedo di uno Stato in fuga.
Più in generale, l’idea di uno Stato che si avvale
«del terzo settore in modo strategico (così la allora presidente del FAI Ilaria
Borletti Buitoni, Il ruolo dei privati insostituibile sostegno per la
valorizzazione dei Beni culturali, «Il Sole 24 ore», 23 agosto 2013)
confligge frontalmente con il fatto che tutto il nostro modello costituzionale
è strutturato «in modo tale che è lo Stato il garante del benessere dei
cittadini, e l’accesso ai servizi è, almeno in linea di principio, una garanzia
universale e soprattutto una faccenda di diritti» (Moro, Contro il non
profit, cit., p. 41). E mentre siamo grati al FAI quando amplia l’orizzonte
dei nostri diritti aprendo al pubblico il patrimonio privato, dobbiamo
preoccuparci quando iniziamo a dover dipendere da una (pur benemerita) fondazione
privata per esercitare il nostro diritto di accedere a un patrimonio pubblico
di cui siamo proprietari in quanto cittadini italiani e contribuenti.
Giorgio Bassani diceva che Italia Nostra doveva
operare perché un giorno non ci fosse più bisogno di Italia Nostra. Perché,
cioè, una diffusa presa di coscienza dell’importanza strategica del patrimonio
culturale inducesse i cittadini italiani a pretendere che lo Stato facesse
finalmente la sua parte nella tutela e nella apertura dei nostri monumenti. Il mio
fondato timore è che invece il FAI operi, più o meno consciamente, perché un
giorno non ci sia più bisogno dello Stato.
Tutto questo divenne evidente quando Ilaria dell’Acqua
Borletti Buitoni si candidò al Parlamento da presidente in carica del FAI, e, dopo
aver donato ben 710.000 euro a Scelta Civica di Mario Monti, venne nominata
capolista in Lombardia. Dopo la sua, non sorprendente, elezione, Scelta Civica
chiese che diventasse ministra per i Beni culturali del governo di Enrico
Letta: ma, alla fine, dovette accontentarsi di uno dei due posti di
sottosegretario, ruolo in cui venne poi confermata da Matteo Renzi.
L’autobiografia della sottosegretaria Borletti Buitoni si intitola (con
ammirevole autoironia) Cammino controcorrente. Ma certo non andava
controcorrente l’ultimo punto delle Richieste del FAI ai politici formulate
durante la campagna elettorale in cui la Borletti Buitoni si era candidata: «La
gestione ai privati, la tutela allo Stato».
Quando i miei allievi, ottimi storici dell’arte che
hanno conseguito il dottorato di ricerca, non riuscendo a trovare un lavoro
pubblico nel patrimonio culturale (che muore per mancanza di conservatori)
vanno a fare i volontari al FAI penso che, no, questo non è l’inizio di
un’Italia migliore: ma è solo quello smontaggio neoliberista dello Stato, quel
nostro suicidio collettivo, di cui Luciano Gallino ha fornito le più penetranti
descrizioni.
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