Una bellissima lettera che Jung inviò ad una sua amica in seguito alla perdita
di suo marito…
Il senso ultimo di questa lettera ci indica l’importanza di dover
continuare a vivere, nonostante ciò che può succederci di spiacevole
durante il nostro cammino. In tal senso possiamo leggerla anche come un vero e
proprio inno alla vita, all’esistenza, ma…
…Ma Jung tiene a precisare, così come fa a più riprese nella sua opera,
come esistere non basta, è necessario vivere,
ovvero dobbiamo porci nei confronti del nostro mondo interno ed esterno in
maniera tale da compiere ciò che la propria natura e la propria “ghianda” (processo di individuazione) ci chiede di
vivere, altrimenti produrremo quella vita non vissuta di cui
accenna, e che io ho chiamato lutti interiori.
In ultimo, questa è una lettera che potrebbe sembrare di mera
consolazione, ma che in realtà mette proprio in guardia da quelle
“consolazioni” troppo spicciole e comuni che ci vengono fatte in
momenti di forte perdita e disagio, e ci indica la necessità – nonostante un
evento doloroso – di continuare a vivere, di ricercare il significato
della vita incessantemente, di rispondere a questo imperativo
categorico chiamato VITA!
BUONA LETTURA!
«Mia cara amica,
lei si chiede, e mi chiede, come possa la vita continuare dopo un evento così doloroso come solo può esserlo il distacco dall’amato, dalla persona cioè alla quale abbiamo unito il nostro desiderio e con la quale abbiamo affidato tutto noi stessi nelle mani del futuro. È questo è un interrogativo al quale, debbo confessarle, non so dare risposte.
lei si chiede, e mi chiede, come possa la vita continuare dopo un evento così doloroso come solo può esserlo il distacco dall’amato, dalla persona cioè alla quale abbiamo unito il nostro desiderio e con la quale abbiamo affidato tutto noi stessi nelle mani del futuro. È questo è un interrogativo al quale, debbo confessarle, non so dare risposte.
Per quanto vittoriosa sia la fede, per quanta temperata, pure essa non
sovrasta l’enigma della morte.
Quando la morte si manifesta sul nostro cammino, quando ci sottrae il
nostro bene, è violenza insostenibile dalla quale sempre siamo sconfitti. E per
quanto profonda possa essere, come lei gentilmente mi attribuisce, la
conoscenza dell’animo umano, ebbene essa ci conduce solo là dove non si può che
ammettere, per quanto a malincuore, la propria ignoranza.
Ugualmente lei mi impone di osare, e giustamente. Ebbene, per cominciare,
debbo avvisarla di non prestare orecchio alle facili consolazioni che
certamente riceve e riceverà e che sempre più d’altra parte si vanno facendo
folla intorno a noi, complice la stessa psicologia di cui vorremmo essere
fedeli e umili testimoni.
Le consolazioni consolano anzitutto i consolatori. Consentono a
essi di coltivare l’illusione di essere immuni da ciò che agli altri è toccato
in sorte, e ancor più d’essere saggi, prudenti e avveduti.
Così sentendosi al riparo e al sicuro, essi conservano la loro buona
reputazione al prezzo di qualche buona parola. Ma, può esserne certa, se
fossero onesti con se stessi, come dicono di esserlo, con gli altri, dovrebbero
ammettere sinceramente che le consolazioni che offrono, consapevoli o meno che
ne siano, nascondono null’altro che commiserazione per sé e risentimento per la
vita.
Ecco dunque un primo consiglio: né commiserazione per sé né risentimento
per la vita.
Benché oscuro sia lo sfondo sul quale la morte si manifesta, altrettanto
oscuro quanto quello della vecchiaia e della malattia, per non dire di quello
del peccato e della stoltezza, ebbene è lo stesso sfondo sul quale si staglia
il sereno splendore della vita.
Per la nostra salute mentale sarebbe perciò un bene non pensare che la
morte non è che un passaggio, una parte di un grande, lungo e
sconosciuto processo vitale: sia nei giorni dolorosi nei quali precipitiamo per
la perdita di chi ci è caro sia nei giorni tristi nei quali siamo sorpresi dal
pensiero della nostra stessa morte.
La nostra morte è un’attesa o, se vuole, una promessa che non è mai
compiuta. Per questo essa non ci impone di vuotare la nostra vita ma piuttosto
di procedere alla sua pienezza.
Mentre la morte ci toglie ciò che ci è più caro, al
tempo stesso ci restituisce a ciò che ci è più prezioso. Non è il
mistero della morte che siamo chiamati a sciogliere: piuttosto è quello della
vita.
La vita è un imperativo assoluto al quale nessuno deve sottrarsi. Per quanto
ostico ci paia il compito, per quanto insostenibile, per quanto ostile,
abbandonarci a noi stessi, abbandonare noi stessi non è contemplato tra
le molte possibilità.
È la vita che dobbiamo piuttosto, direi addirittura, arrenderci alla vita e
al suo costante fluire. A questo scorrere non possiamo imporre alcun argine, né
potremmo tentare di deviarlo o di mutarne la traiettoria. Ciò sarebbe assai
sciocco e per molti versi pericoloso.
Se vogliamo inimicarci la vita, se vogliamo davvero averla contro sappiamo
come fare: rinunciamo a viverla. Vi sono numerosi modi per ottenere questo,
l’ultimo dei quali, il più stupido e spietato, è troncarla con le
nostre stesse mani. Questo è il supremo peccato.
Se ci teniamo al di sopra di questo baratro potremo sempre, in ogni caso,
imporre alla vita un corso predeterminato, forzarla o sospenderla, in una
parola dirigerla.
Abbiamo infiniti compiti che possiamo imporci e infinite mete verso le
quali orientarci. Tutto ciò fa pur sempre parte della nostra vita, ma è ciò che
la nostra vita ci chiede? La vita che abbiamo scelto per noi potrebbe
infatti rivelarsi ben diversa da quella che avrebbe scelto noi.
Il problema è allora questo: giunto alla fine dalla mia vita che cosa mi
ritrovo tra le mani? Se trovo solo il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è
stato non sarà gran cosa. Ma potremmo trovare ben di più, ben di peggio.
Ogni vita non vissuta accumula rancore verso di noi,
dentro di noi: moltiplica le presenze ostili.
Così diventiamo spietati con noi stessi e con gli altri. Intorno a noi non
vediamo che lotta, cediamo e soccombiamo alle perfide lusinghe dell’invidia. Si
dice bene che l’invidia accechi il nostro sguardo è saturo delle vite degli
altri, noi scompariamo dal nostro orizzonte. La vita che è stata
perduta, all’ultimo, mi si rivolterà contro.
Perciò, l’ultima cosa che vorrei dirle, mia cara amica, è che la
vita non può essere, in alcun modo, pura rassegnazione e malinconica
contemplazione del passato. E’ nostro compito cercare quel significato
che ci permette ogni volta di continuare a vivere o, se preferisce, di
rispondere, a ogni passo, il nostro cammino.
Tutti siamo chiamati a portare a compimento la nostra vita meglio che
possiamo.»
(C.G.Jung, citato in “Jung parla. Interviste ed incontri”, Adelphi, Milano,
1999)
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