L’ingegno umano non si ferma davanti a nulla. Per esempio, presto i medici
emetteranno diagnosi non sulla base di sintomi o analisi, bensì contando
scrupolosamente, con apposita strumentazione, i peli sotto le ascelle del
paziente. E ogni biologo marino potrà scoprire nel fondo degli oceani
sconosciute specie ittiche misurando la velocità di caduta del mangime
nell’acquario di casa (incrociata, si capisce, con coefficienti numerici di
appositi prontuari). Fantasie? Per ora sì. Ma è più o meno quel che succede in
un ambito dello scibile umano, le (maiuscole indispensabili) Procedure Di
Valutazione Della Ricerca. Una fetta irragionevolmente alta del tempo di chi fa
ricerca (medici e biologi, ma anche archeologi e matematici) va perduto nel
misurare se stessi o altri in relazione a svariate competizioni per Qualcosa
(che sia una cattedra, un premio, una carica accademica, un finanziamento)
mediante indici numerici dedotti dalla mera superficie delle cose. Per esempio
contando quante volte il professor X viene citato, e non come viene
citato, né perché mai lo sia: donde il vivace traffico delle
citazioni di scambio. Sfuma nelle nebbie, poi, che cosa venga
citato; se e quanto fosse essenziale citarlo, in base alla novità, importanza,
dimostrabilità, solidità di quel che il prof. X ha scritto. Basta che venga
citato perché crescano gli indici sulla cui base sarà valutato. Tale colossale
sciocchezza, ammantandosi di scienza, ha perfino un nome: bibliometria.
Traduzione: giudicare un lavoro scientifico senza leggerlo, più o meno come il
leggendario mandarino cinese che giudicava i libri dall’odore che fanno,
bruciando.
Ma la peste della superficialità valutazionistica, il più capillare mercato
di fake news del pianeta, non si ferma qui. Infatti, nella
stanza accanto a quella del prof. X troveremo, intento non a studiare ma a
spaccare il capello degli indici di valutazione propri e altrui, il prof. Y,
suo collega di Facoltà, di dipartimento o d’istituto. X e Y rivaleggiano in
tutto, eppure sanno che il loro dipartimento (o Facoltà, o istituto) verrà
valutato sulla base di indici che mettono insieme non solo X e Y ma anche lo
stolto Z e il notorio cretino W: ma a tutti conviene che tali colleghi, pur
universalmente ritenuti imbecilli, abbiano comunque indici numerici che, sommati
a quelli dei colleghi che sono (o si ritengono) geniali, consenta all’istituto
(o dipartimento, o Facoltà) di accedere a un qualche finanziamento, di quelli
che i governi bandiscono etichettandoli invano con l’abusatissima parola
“eccellenza”. E quanti fra i comuni mortali sanno che occhiute conventicole di
studiosi, nominate da prestigiosi (?) ministri, si affannano non a produrre
nuovi risultati nelle proprie discipline, bensì a classificare le riviste del
settore in prima, seconda o terza fascia: ingegnoso artifizio, che serve a
“giudicare” un articolo non sulla base di quel che vi è scritto (bisognerebbe
leggerlo), ma sulla base della “fascia” di appartenenza della rivista in cui è
stato pubblicato. E per diventare professore bisogna superare le forche caudine
di un concorso in cui nulla vale quel che si è scritto, ma solo se un
prefissato numero di articoli abbia superato o meno la “soglia” (puramente
quantitativa) di lavori pubblicati in “fascia A”. Veglia su tali ipocrite
aberrazioni una sontuosa (in senso etimologico, da sumptus, spesa)
Agenzia di governo, intenta a costruire dal nulla i propri principi
imperscrutabili.
Nessuno creda che quanto sopra sia anche minimamente esagerato: le cose,
anzi, stanno ancor peggio. Ma nessuno creda nemmeno che tali perversioni siano
proprie dell’Italia: il nostro Paese ci è arrivato anzi tardi e male,
scopiazzando altri (come il Regno Unito) in nome di una retorica della
Valutazione secondo cui essa segna l’alba di una nuova età, dopo i secoli bui
in cui nessuno valutava né veniva valutato. Infatti, mai e poi mai Aristotele
valutò qualcun altro in termini numerici (non aveva i parametri dell’Agenzia,
poverino) : donde il suo ben noto insuccesso). Per non dire di Galileo, che non
fu mai valutato secondo bibliometria, ergo sarà stato un mediocre. Verità di
fede, per chi sia in preda alla febbre da Valutazione. Un morbo che, al pari di
altre forme di burocratizzazione della vita universitaria come il continuo
balletto di etichette fra Facoltà, Dipartimenti, Istituti, riduce il tempo per
pensare, leggere o sperimentare idee, per far ricerca di prima mano, insomma, e
senza essere posseduti dall’ossessione valutativa.
Ma se di fronte a tale indemoniata ossessione diciamo “il re è nudo”, corre
l’obbligo di spiegare perché. E la risposta è questa: perché è più comodo
valutare secondo numeri, parametri, impact factor, H-index e
altre pittoresche sciocchezze piuttosto che perder tempo a leggere uno per uno
i testi di X, Y, W e Z, prendendosi la responsabilità di giudicare che cosa c’è
di buono (o meno buono), entrando nel merito per poter argomentare,
comparativamente, se è meglio Y o X. Col rischio, certo, di sbagliare. Ma con
le correnti Procedure Di Valutazione c’è l’assoluta certezza di sbagliare, e
per giunta l’obbligo, che richiede una buona dose di cecità intellettuale, di
credere, sul serio o per mero conformismo di casta, che giudicare senza
leggere, in base a indici numerici e “soglie” immaginarie, costituisca la sola
Verità certificata.
Le Procedure Di Valutazione correnti comportano due vantaggi e due
svantaggi. Vantaggi: (1) non si perde tempo a leggere i lavori scientifici da
valutare, tanto ci pensano i numerini; (2) si evita di assumere una
responsabilità personale (soggettiva), perché i numerini sono “obiettivi”. Svantaggi:
(1) per esser sicuri di esser citati, molti evitano le ricerche d’avanguardia,
che comportano un alto rischio; trionfa così la ricerca main stream,
e con essa la morte dell’immaginazione scientifica e dell’innovazione; (2) la
scienza, la probità scientifica, il senso critico vanno a farsi friggere, e si
dedicano al frivolo esercizio della Valutazione energie e tempo che dovrebbero
essere investiti in insegnamento e in ricerca.
Lo svizzero Richard R. Ernst, premio Nobel per la chimica, ha scritto: «Lasciatemi
esprimere un desiderio supremo, che coltivo da tempo: spedire tutte le
procedure bibliometriche e i loro diligenti servitori nel più oscuro e onnivoro
buco nero di tutto l’universo, onde liberare per sempre il mondo accademico da
questa pestilenza. L’alternativa c’è: molto semplicemente, cominciare a leggere
i lavori scientifici anziché valutarli solo contando le citazioni». Per
liberarci dall’ossessione valutativa avremo mai, in questa Penisola troppo
spesso a rimorchio degli altri, un esorcista come questo?
[Testo apparso su Il Fatto Quotidiano del 26.10.2019]
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