La lettura di Morti senza sepoltura di Ottavia Salvador e
Fabrizio Denunzio (con uno scritto inedito di Abdelmayek Sayad, ombre corte editore), essenzialmente del suo primo capitolo,
scritto da Ottavia Salvador, mi coglie dopo un’esperienza particolare che ho
vissuto recentemente in Bosnia:
la contemplazione per alcuni minuti, in uno squallidissimo obitorio, del volto di un migrante della rotta
balcanica, ucciso dal confine.
Il confine non è la frontiera, non è una striscia
di terra fra due Stati. È un ampio dispositivo: un sistema, un meccanismo. Nel nostro caso, va
dalla Turchia all’Europa. Il confine, inoltre, è anche un comportamento
culturale, psicologico, sociale, un
modo di rapportarsi all’altro, all’estraneo, allo straniero. Ne siamo
tutti partecipi.
Il confine è un dispositivo attraverso cui si
esercita il potere dello Stato di riconoscere o disconoscere il diritto alla
vita. Fa parte del dispositivo confinario il sistema di cosiddetto di
accoglienza, nelle sue varie strutture, dall’appartamento, al campo, ai Centri
per il Rimpatrio (CPR): sono strumenti di riconoscimento/disconoscimento di
questo diritto fondamentale. Il lager vero e
proprio è solo la forma acuta di tale dialettica necropolitica.
Tentavamo Lorena ed io di fare di quel volto, di quel corpo, un uomo morto
e non un cadavere, ricordando lo sguardo di Alì vivo, penetrante e insieme
perso in un viaggio senza ritorno…. Adesso era una maschera dalla mascella
legata.
Perché avevamo chiesto di vederlo? In realtà, senza dircelo, compivamo una
commemorazione silenziosa: celebravamo
il lutto per la scomparsa di Alì di fronte al suo corpo, ne facevamo un
ricordo presente nella nostra vita. Il corpo di Alì verrà poi rimpatriato. I
suoi familiari e compaesani potranno così celebrare il rito funebre e
seppellirlo.
Scrive Ottavia Salvador:
“Il volto di un altro ci mette in relazione a un ulteriore altro invisibile
… il cui volto è in un ‘noi’ all’origine di una relazione politica che si fonda
sulla possibilità dell’universalità” (p. 19).
Questa relazionalità fondativa di ciò che l’essere umano è – in questo
senso la politica è una dimensione “ontologica” – si coglie in maniera
particolarmente intensa di fronte alla permanenza memoriale del morto nel
rituale funebre, quando è autentico e non pura formalità, come in generale da
noi oggi; come era, invece, e forse e in parte ancora è, in popolazioni
cosiddette primitive. La persona
morta non è il cadavere. Il morto si manifesta solo nel rito funebre,
nel fare il lutto, che è una restituzione dello scomparso: “una sorta di
coesione continuativa tra la comunità dei vivi e quella trascendente dei morti”
(p. 8), come si vede bene, ad esempio, in molte culture africane. Questa
coesione continuativa può divenire, in molti casi, un impegno politico essenziale: “Ora lottare – scrive ancora
Ottavia – significa fare in modo che di Majid ci si ricordi” (p. 36) (Majid,
come Alì, è un migrante ucciso dalla frontiera: in questo caso la frontiera
interna del CIE di Gradisca d’Isonzo, in modi non chiariti dall’inchiesta,
durante una rivolta, nella notte fra il 12 e il 13 agosto 2013).
Il primo capitolo del libro mi ripresenta una questione che, da sempre, mi
sta molto a cuore: la rimozione
del morire e della morte, la loro irrappresentabilità nella cultura
moderna di matrice europea – ma chiamiamola con il suo nome: capitalismo.
Questo capitolo – il cuore del libro – è molto intenso ed efficace perché fa
sorgere una meditazione anche filosofica sulla morte dentro una ricerca sul
terreno, fatta di incontri, di storie vissute e di episodi di lotta, che
porterà anche alla produzione di uno splendido documentario (“Ogni anima
muore. Elegia per Majid”, di O. Salvador).
Ottavia tocca una problematica nota come “lotta per il riconoscimento“. Al di là della storia di questo concetto filosofico e
delle sue varianti (da Hegel a Honneth), l’esperienza sul campo con i migranti
– che vivo ormai da anni insieme a Lorena -, mi ha aiutato a capire che esso può dare nominare la richiesta implicita
di coloro che percorrono la rotta balcanica e, ovviamente, quella ancora più
drammatica del Mediterraneo, per non parlare dell’America Latina. “Lotta per il riconoscimento” di che cosa?
Del diritto, intrinseco a ogni essere umano, di vivere una vita degna d’essere
vissuta.
Il fondamento di ciò che chiamiamo Potere, in
senso lato – che sia uno Stato, un fondo d’investimenti o un’azienda come Amazon o
Apple, un qualunque datore di lavoro, un padre di famiglia o un capo clan
– è prima di tutto la possibilità
di esercitare un comando sul diritto di vivere: a te, che dipendi, do la possibilità vivere,
ma solo a certe condizioni. Queste condizioni, però, non sono estrinseche.
Implicano la costruzione di un’identità, sociale, civile, che oggi è
soprattutto proprietaria: “Homo sine pecunia est imago mortis” ,
chiosa Ottavia. E mi viene in mente l’equivoco in un albergo di Bihac,
Bosnia, in cui noi, vedendo entrare un individuo in sandali, maglietta e
calzoncini, barba arruffata, pelle scura, pensammo: “Questo è un migrante che
cerca di infilarsi in bagno”. Subito accorre servizievole, invece, un
cameriere: era un ricco turista saudita.
Altre forme, altre forme di soggettivazione, sono escluse: questo può anche
spiegare l’accanimento, oggi, contro l’esperienza di Rojava.
Nel campo della costruzione di questa identità
socio-statuale-proprietaria esiste però la possibilità del conflitto. Il
conflitto sociale, il conflitto di classe, il conflitto politico, è sempre
anche una lotta per il riconoscimento di forme diverse di soggettivazione, di
modi di vita dalle maglie più ampie di quelle inizialmente imposte da chi
detiene il potere di farlo. La forma di governamentalità cosiddetta
“democratica”, che ora tende a ridursi e forse a scomparire, è stata, nella
seconda metà del Novecento, il campo e il frutto di questo conflitto.
La lotta per il riconoscimento è anche, nel suo
fondo, un conflitto per la vita e per la morte. Lo si coglie dal diverso grado
di esposizione al rischio di morte dei gruppi sociali: basti pensare alle morti
sul lavoro o anche alla maggior esposizione femminile alla violenza (che è la forma
più antica di esposizione al rischio). L’esempio più evidente sono gli Usa,
dove i neri sono
esposti alla morte, ad esempio per mano della polizia, o a quella morte
sociale, con varie gradazioni, che va dalla disoccupazione al carcere, in
percentuale molto maggiore rispetto ai bianchi (e, ovviamente, i bianchi poveri
lo sono di più dei bianchi ricchi).
Nell’insieme, questo conflitto permanente produce la dinamica storica di
ciò che chiamiamo diritti. Ciascuno di questi diritti implica un processo di costruzione della “persona” del
cittadino, un processo d’identificazione burocratica, giuridica, sociale
ma anche, inevitabilmente, emozionale, che si articola materialmente in
una carta d’identità, in un
certificato di residenza, in un passaporto, in tutta una serie di documenti. Se
qualcuno ha provato il panico della perdita di un borsello con tutti i
documenti e i soldi, ad esempio in una lontana città orientale, e la corsa
frenetica in cerca di un consolato….
Esistono, però, persone che sono fuori dei
circuiti di riconoscimento degli Stati e della possibilità di conflitto per
acquisire diritti: il migrante, il profugo che varca i confini non autorizzato. Il migrante, il
profugo, l’apolide, chi non è degno di vivere nella società, non è più degno di
vivere tout court. Mutatis mutandis, mi viene in mente la morte
di Walter Benjamin a
Port Bou. Benjamin vive tuttora, ben oltre la sua morte, e continua a parlarci.
Per i molti, moltissimi morti non degni di lutto, non è così. Come Karnail Singh, che voglio qui
ricordare, migrante decennale disoccupato, con foglio di via per mancato
rinnovo del permesso di soggiorno secondo la legge Bossi-Fini, trovato morto il
9 novembre 2017, in un parcheggio nel centro di Pordenone.
Fuori del circuito identitario dello Stato si è esposti alla morte. Perché
lo Stato, in quanto potere storico di riconoscimento del diritto di vivere, ha
sempre a che fare in ultima istanza con la morte, come minimo nei termini del
lasciar morire: se tu non sei
riconosciuto dallo Stato puoi morire nell’indifferenza: sei socialmente
invisibile. Come quel ragazzo pakistano, a Trieste, con i piedi feriti,
che, pur dopo essere stato portato in ospedale e, in seguito, in questura per
l’identificazione, era stato deposto in strada e lasciato lì, seduto per terra
perché non in grado di camminare, fra l’indifferenza dei passanti, finché
qualcuno, in grado di vedere i fantasmi, non era in qualche modo intervenuto.
La sopravvivenza senza protezione, in una condizione precaria, subumana, è
tuttavia anche funzionale, perché può essere in ogni momento sfruttata senza
limiti (di legge), ridotta in servitù, in schiavitù. Il confine è anche questo.
Se ogni azione politica radicale è azione per il riconoscimento, per
l’affermazione al di fuori e contro lo Stato, del diritto fondamentale di
vivere in modo degno per ciascuno e per tutti (i due aspetti si implicano), ciò
si coglie al massimo nell’azione del migrante profugo, di colui che attraversa
i confini senza averne il diritto (statale), ma spinto da condizioni belliche,
politiche o ambientali d’invivibilità, prodotte da un tipo di civiltà che si può ben definire necrofila. In tal
senso l’azione del profugo, di cui ci ha colpito la “disperata speranza”, vista
tante volte sui volti e sui corpi di ritorno o alla fine del game intorno alla stazione di
Trieste – il gioco, lo chiamano:
mettere in gioco la vita! -, è una lotta per rinascere, una lotta per il
riconoscimento extrastatuale, che implica
il superamento dello stato come attore dominante del riconoscimento.
Ogni politica statuale, grande o piccola, è
necropolitica, per dirla con Achille Mbembe, perché lo Stato e, in generale,
ogni forma di potere, è in ultima analisi fondata sul potere di proteggere o
non proteggere dalla precarietà del vivere, quindi, in fondo, dalla morte.
Se scorriamo la vicenda storica dell’homo sapiens fino a noi, vediamo
subito che è intessuta di massacri e di genocidi, paradossalmente ma
intrinsecamente legati alla paura della morte. La paura della morte produce il bisogno di controllare la vita, la
sua riproduzione e, di conseguenza, il tentativo di dominarla mediante
l’organizzazione sociale. Il
capitalismo è l’ultima e più intensa manifestazione di questo bisogno di
controllo che, per il suo rifiuto dei limiti essenziali entro cui
la vita prende forma, diventa suicidario.
Le migrazioni, e in particolare, le migrazioni
attuali sono uno dei movimenti centrali che mostrano la necessità di superare
la nostra forma di civiltà, che produce guerre e devastazioni sociali e
ambientali di ogni tipo al punto da rendere prevedibile l’estinzione o comunque
un gravissimo danno per le possibilità di vita umana e generale. Questi “disgraziati”
che affrontano la rotta mediterranea o quella balcanica sono, indipendentemente
dalla loro consapevolezza, la contestazione
del sistema degli Stati nell’attuale contesto mondiale, in cui
sono, in modi differenti, articolazioni della polizia del Capitale.
Sulla base della mia esperienza, leggo il game come una critica pratica radicale,
mettendo in gioco il corpo, del sistema dei confini e del potere dello Stato.
È una critica pratica del potere tout court. Chi va in game afferma nei fatti,
esponendo il proprio corpo anche alla morte, il desiderio di una libertà e un’uguaglianza al di là di ogni
ordinamento statuale.
Noi dobbiamo raccogliere questo gesto.
Ciò rimanda alla necessità politico-esistenziale
di una nuova visione del morire e della morte. Non si può affrontare la questione
della trasformazione sociale, della politica – della “rivoluzione”, se vogliamo
ridare un significato a questo significante ormai vuoto – senza affrontare la
questione della morte. Una società, che, da anziano “militante”, potrei anche
chiamare comunista, dovrebbe essere una società che non teme la morte, che non
la considera un mero negativo, ma la accoglie come compimento della vita, sua
forma temporale, e quindi una società in cui sia possibile per ciascuno e per
tutti portare a compimento la propria vita. Il valore assoluto di ciascun
essere umano dipende dal fatto che ognuno di noi esiste una volta sola
nell’arco dell’intera vicenda umana. Per questo ciascun essere umano è unico.
Perché è mortale, perché nasce e muore una volta sola, quindi perché è finito.
Perciò l’accettazione della propria mortalità, della propria finitezza è la
base dell’impegno a costruire la propria singolare storia di vita, è l’appello
a una ricerca di sé negli altri e
con gli altri che può e deve compiersi soltanto con la morte.
Il riconoscimento del cadavere e la sua cura
funebre appaiono come l’estremo tentativo di affermare l’unicità e insieme la relazionalità
di ogni esistenza contro la genericità della vita biologica, che riassorbe
l’unicità e l’unità del corpo in altre forme di vita. Questo avviene
attraverso un rito che rinsalda una collettività nel ricordo di colui che non
c’è più, proprio perché la morte sancisce, paradossalmente, nella traccia
inscritta in coloro che lo ricordano, il valore insostituibile di ciascuno in
quanto unico. La mancanza di questa traccia, l’indegnità di lutto, che colpisce
moltissimi, forse la maggior parte degli esseri umani, è l’annientamento finale
del senso di una vita. È una Auschwitz generalizzata al cuore della nostra ‘civiltà’.
Nel rito funebre si coglie assai bene come
l’unicità di ciascuno implichi la sua relazionalità. Con la morte il soggetto
scompare, ma rimane, per così dire, la sua parola, la sua traccia negli altri. L’unico strumento
che un essere umano ha nei confronti della finitezza della vita, che, prima o
poi, lo porterà alla morte, è il suo fondamento dialogico: ciascuno diventa se stesso in un permanente
dialogo di riconoscimento, che implica anche una lotta, a partire dalla
fase fondativa dell’infanzia, in cui il nuovo nato ancora informe acquista le
basi della propria forma soggettiva in una relazione intrinseca con chi si
prende cura di lui.
Ciò che esprime l’unicità e l‘unità di un soggetto è dunque la finitezza,
cioè la mortalità, che fa di ciascuno un unicum, che appare una volta sola, nel
percorso singolare tra la sua nascita e la sua morte. La finitezza pone subito
un’altra questione essenziale: quella del compimento dell’esistenza, di ciò che
si chiama il suo senso. Nel rito della sepoltura a essere posta è proprio la
questione del compimento del tempo di vita del singolo.
Che la vita individuale sia finita vuol dire che può e deve giungere a
compimento. Vivere con pienezza
umana è fare un percorso che giunge a un compimento. E non è una questione di
quantità – una lunga vita – ma di qualità: una vita degna di essere
vissuta.
Il potere, in quanto tale, è necrofilo. Il fondamento di
questo tipo asimmetrico di relazione, che chiamiamo potere, è la paura, la non
accettazione, il rifiuto della morte, che spinge ossessivamente al tentativo
spasmodico di controllare la vita (la riproduzione, la donna, la natura).
Questo tentativo porta alla violenza e quindi alla morte. Una società senza potere sarebbe
necessariamente una società in grado di accogliere la morte e, viceversa, una
società in grado di accogliere la morte sarebbe una società senza potere.
Vita e morte non sono opposti: questo è un errore ontologico. Sono due nomi
dello stesso: vivere è morire, andare verso la fine-compimento di se stessi.
Morire, andare nel tempo, passare,
è vivere: costruire se stessi in un permanente dialogo con gli altri.
La morte per chi resta e il morire per chi sta morendo dovrebbero
essere vissuti come il compimento di una vita unica, perché si
dà una volta sola tra la nascita e la morte, appunto. Una vita unica infinita è
un non senso: ciò che dà senso è l’unicità di ogni istante, cioè la sua
finitezza.
Una politica radicale dovrebbe tener presente e
non rimuovere la questione del morire e della morte. Dovrebbe mirare alla
costruzione di una dimensione sociale in cui la morte sia, appunto, per tutti
un compimento e non una frattura.
La situazione dei profughi in Bosnia/Croazia | Lorena Fornasir e Gian
Andrea Franchi
Riceviamo attraverso la Fondazione Micheletti di Brescia testimonianze
drammatiche sulla situazione dei profughi/rifugiati in Bosnia e Croazia: si
tratta di un messaggio inviato con telefonino da un migrante in cerca di
salvezza e del rapporto di viaggio di due volontari italiani, Lorena Fornasir e
Gian Andrea Franchi.
TERZO RAPPORTO DAI CONFINI BOSNIA/CROAZIA | 9-10-11 luglio 2018
Testimonianza di B.
“Ciao amici,
ieri sera ero nel “game” in Croazia. (espressione usata per descrivere la corsa verso l’altra parte del confine).
Ad un certo punto ci hanno arrestato. È stato terribile.
Eravamo tutti completamente bagnati. Quando si sono avvicinati siamo tornati subito nella “jungle”.
Eravamo vicino ad una fattoria, e siamo dovuti rimanere in piedi tutta la notte. Ci siamo nascosti. Erano a tre metri da noi ma non sono riusciti a trovarci, hanno comunque aspettato fino a mattino. Hanno sparato, ma non ci siamo mossi.
Per 5 ore sono stato in piedi sullo stesso posto fermo immobile.
Potete immaginare, 5 ore?
Se ci fossimo mossi ci avrebbero trovato, hanno aspettato tutta la notte.
La mattina quando è giunta la luce del sole, ci hanno trovato. Il poliziotto mi ha messo l’arma alla testa dicendo “pensi di poterti nascondere da me? Vuoi che ti fotto?”
Buttandomi a terra e mettendomi il piedi sulla schiena.
Gli ho detto di essere un vigile del fuoco (nel paese di origine) e che volevo solamente richiedere asilo.
Mi ha immediatamente gridato “puoi fare a botte con me?” Colpendomi al volto e dicendomi di stare zitto.
Sono rimasto in silenzio.
Successivamente hanno rotto tutti i telefoni. Ci hanno fatto sedere in un’auto che ci ha riportato indietro, ma non sul confine. A 23 chilometri da Kladuša.
Abbiamo poi camminato per 7 ore per ritornare al campo di Kladuša.
Non siamo né animali né criminali. Vogliamo solamente vivere una vita decente, ma loro ci trattano come criminali.
Hanno colpito un uomo di fronte a sua moglie ed al suo bambino. Chi può fare tanto? Chi?
ieri sera ero nel “game” in Croazia. (espressione usata per descrivere la corsa verso l’altra parte del confine).
Ad un certo punto ci hanno arrestato. È stato terribile.
Eravamo tutti completamente bagnati. Quando si sono avvicinati siamo tornati subito nella “jungle”.
Eravamo vicino ad una fattoria, e siamo dovuti rimanere in piedi tutta la notte. Ci siamo nascosti. Erano a tre metri da noi ma non sono riusciti a trovarci, hanno comunque aspettato fino a mattino. Hanno sparato, ma non ci siamo mossi.
Per 5 ore sono stato in piedi sullo stesso posto fermo immobile.
Potete immaginare, 5 ore?
Se ci fossimo mossi ci avrebbero trovato, hanno aspettato tutta la notte.
La mattina quando è giunta la luce del sole, ci hanno trovato. Il poliziotto mi ha messo l’arma alla testa dicendo “pensi di poterti nascondere da me? Vuoi che ti fotto?”
Buttandomi a terra e mettendomi il piedi sulla schiena.
Gli ho detto di essere un vigile del fuoco (nel paese di origine) e che volevo solamente richiedere asilo.
Mi ha immediatamente gridato “puoi fare a botte con me?” Colpendomi al volto e dicendomi di stare zitto.
Sono rimasto in silenzio.
Successivamente hanno rotto tutti i telefoni. Ci hanno fatto sedere in un’auto che ci ha riportato indietro, ma non sul confine. A 23 chilometri da Kladuša.
Abbiamo poi camminato per 7 ore per ritornare al campo di Kladuša.
Non siamo né animali né criminali. Vogliamo solamente vivere una vita decente, ma loro ci trattano come criminali.
Hanno colpito un uomo di fronte a sua moglie ed al suo bambino. Chi può fare tanto? Chi?
Prendono tutto dai rifugiati. Soldi, telefoni.
Sono ladri, non poliziotti.
Sono ladri, non poliziotti.
Buona notte.”
16/17 luglio 2018
Velika Kladusa 9 e 10 luglio 2018
È il nostro terzo viaggio in Bosnia; stiamo andando verso Velika Kladusa e
poi scenderemo a Bihac.
Facciamo fatica a contemplare il paesaggio, pur così dolce, ampio e verde.
Il nostro sguardo cade piuttosto sui boschi, sul limitare fra prato e macchia,
sui pendii, e ogni volta ci chiediamo se ‘loro’ ce la faranno. Altrimenti, il
prezzo è pesante: ricacciati, picchiati, derubati, deportati.
Noi siamo europei, anzi appariamo come turisti europei, graditi portatori
di ricchezza. Al confine croato/bosniaco di Velika Kladusa transitiamo
tranquilli, forti della nostra identità documentabile.
La cittadina di oltre 40.000 abitanti è più sparsa rispetto a Bihac e, ci
sembra, con edifici nuovi o maggiormente restaurati. Poche sono le case rimaste
con le tracce di proiettili e granate. Le strade e i locali sono animati fino a
tarda sera, pieni di gente che appare convivere pacificamente con la massa dei
profughi in continuo movimento da un posto all’altro.
Sappiamo che varie famiglie accolgono dei ragazzi o alcuni nuclei
partecipando a un clima di accoglienza e di iniziative private che vanno
dall’offrire vestiario, cibo o preparare dei pasti. Sappiamo, però, che
l’amministrazione comunale vieta i contratti di affitto di case o stanze ai
rifugiati ponendo con ciò una restrizione a possibili progetti avanzati da
associazioni e onlus che di volta in volta si affacciano in modo propositivo.
Lungo la strada che ci porta al centro di Kladusa incrociamo vari ragazzi
zoppicanti, ammaccati, sconvolti, frastornati, che stanno rientrando dal
fallimentare tentativo di entrare in Europa. Quello che chiamano “the game”, il
gioco per cui vinci o perdi nella “jungle”, li ha traditi e sanzionati.
Sappiamo che ritenteranno, non hanno altra scelta se non marcire nel campo di
terra e fango ai margini di ogni possibile vita.
Raggiungiamo in breve la postazione delle “docce”, un ex macello che dei
bravissimi volontari hanno trasformato in uno spazio meno degradante ma sempre
squallido. Gli orribili ganci appesi alle volte del soffitto sono una metafora
della vita di questi migranti appesa al filo di una scommessa quasi
impossibile.
Troviamo Samyr seduto su una pietra, la postura congelata, la schiena a
ridosso del muro color prugna, nel volto una smorfia di inconsolabile
sconforto. “Vengo dalla Siria. Sono stato torturato, ho perso
tutto. Ho camminato 10 giorni per arrivare in Slovenia. I poliziotti mi hanno
scoperto nei boschi. Quando ho sentito i loro passi, mi sono trovato di fronte
4 uomini senza uniforme, ma ormai era troppo tardi. Sotto la maglietta avevano
il distintivo della polizia. Mi hanno ammanettato e incarcerato per 2 giorni in
un container senza acqua e cibo. Poiché mi hanno preso le impronte ho chiesto
l’asilo. Mi hanno invece deportato in Croazia dove sono stato trattato in modo
crudele e dove la polizia mi ha rotto il cellulare e derubato. La polizia
croata mi ha poi accompagnato vicino al confine con la Bosnia. Mi hanno detto:
vai cammina, sono solo 5 km per arrivare a Kladusa. Invece erano 25 km…”.
Il suo racconto è simile a quello dei tanti, innumerevoli ragazzi che
tentano la via dei boschi. Poco distante, un gruppetto è seduto a terra tra
rifiuti e sporcizia. Si sono tolti le scarpe, i loro piedi sono pieni di
piaghe, le braccia e le gambe portano i segni di maltrattamenti e i tagli delle
sterpaglie dei boschi attraverso cui avevano tentato la fuga. Nel tardo
pomeriggio giunge il team di “SOS Kladusa”, Adis serbo di Banja Luka e
Petra austriaca, che si occupano della gestione del “campo”, del reperimento e
costruzione di chiodi e legni per costruire lo scheletro delle tende fatte di
teli di plastica e di tante altre infinite cose. Adis gode un buon
riconoscimento non solo da parte dei rifugiati ma anche da parte della polizia
locale poiché mantiene una sorta di ordine e organizzazione fra le centinaia di
persone.
Verso le cinque della sera, giunge su una piccola Volkswagen per
distribuire le scarpe dividendosi i compiti con Petra. Mentre Petra, in piedi
sul bagagliaio della macchina ritira il “tagliando” e consegna le scarpe
“prenotate”, Adis cura le piaghe ai piedi e le ferite dei ragazzi che hanno
perso il “game” e ritornano – dopo le deportazione dall’Italia, o dalla
Slovenia che deporta in Croazia che deporta in Bosnia – contusi, picchiati,
maltrattati, derubati di tutto e con i cellulari fracassati.
Yasir ci testimonia: «sono stato nelle mani dei croati, mi hanno
preso nella “jungle”. Mi hanno portato via i pochi soldi che avevo, mi hanno
picchiato e rotto il cellulare perché il mio non era buono. Se avessi avuto un
telefono buono me lo avrebbero rubato. Ci fracassano i cellulari per impedirci
di usare le mappe gps nella foresta. Senza gps ci perdiamo e siamo in balia di
tutti i pericoli, anche della gente che se ci vede chiama la polizia»
Entrambi collaborano con le volontarie di “No Name Kitchen”. Le
due associazioni si sono spartite le consegne: le ragazze spagnole raccolgono
una a una le richieste con nome del profugo e numero di scarpe di cui
necessita, mentre Adis con Petra le procurano per poi distribuirle uno o due
giorni dopo. Le volontarie di “No Name Kitchen” si sono assunte
anche il compito delle docce per cui, a giorni alterni, uomini e donne possono
lavarsi con l’acqua fredda di fronte all’ex macello, in uno spazio organizzato
e suddiviso con teli di plastica in 4 “cabine”. Organizzano, inoltre, la
lavanderia ritirando il capo da pulire e rilasciandone un altro pulito. Portano
tutta la biancheria nella loro casa, la lavano e asciugano per riconsegnarla
alla doccia successiva. Con tutti i rifugiati intrattengono relazioni
empatiche, fresche, genuine, solari oltre che professionali. A sera, quando
cala il sole, svolgono delle attività ludiche con i bambini del campo che,
sfortunatamente ed ovviamente non vanno a scuola e vivono nella deprivazione.
Ci raccontano che il problema sanitario più preoccupante, oltre alle
allergie, ai funghi, agli esiti delle violenze subite dalla polizia croata, è
la scabbia ormai diventata endemica. Poter avere calzini puliti da distribuire
è una forma modesta ma necessaria di prevenzione, difficile però da reperire.
Per questo motivo, il mattino seguente compreremo insieme decine e decine e
decine di calzini oltre a biancheria intima e medicine, mentre occupiamo la
serata con Adis e Petra a comperare scarpe, soprattutto quelle con la suola che
non scivola per chi ha deciso di affrontare la foresta.
Apprendiamo che ora a Kladusa, a differenza del nostro primo viaggio
avvenuto circa 20 giorni fa, nel campo interviene un medico, Samir, di MSF, per
3 volte alla settimana. Per i quattro giorni restanti cura i rapporti con
l’ospedale di Kladusa rendendo possibile la cura dei casi più importanti.
Samir, tuttavia, si lamenta per la troppa burocrazia cui deve attenersi come
operatore di MSF.
La visita al campo è sempre uno shock. Tra qui ed altre postazioni fra cui
un hangar poco distante, pare ci siano tra le 600 e le 800 persone in un numero
sempre variabile fra chi arriva e chi se ne va. Restano soprattutto le
famiglie, tante, troppe, con bambini piccoli, anche neonati, impossibilitate ad
affrontare fiumi e foreste con i figlioletti così piccoli. I minori non
accompagnati sono molti. Nei loro visi l’espressione è pietrificata, c’è chi si
muove in modo meccanico, chi nervoso, chi chiede il sacco a pelo perché non
riesce più a stare in questo inferno e vuole tentare il “game”. Tutti chiedono
ombrelli perché qui piove tanto e i teli di plastica fanno acqua da tutte le
parti.
Un gruppo di otto ragazzi curdi, cucina il chapati in
improvvisate teglie su fuochi di sterpaglie. Vogliono raggiungere l’Europa ma
per ora hanno solo accumulato due anni nei camps della Serbia
e 3 mesi di detenzione in Bulgaria. Accanto a loro, steso a terra con una
coperta che lo ricopre, il corpo di un ragazzo che aveva tentato la salvezza ed
in vece, ci raccontano, la polizia croata l’ha preso e picchiato duramente con
i manganelli sulla schiena, sulle gambe, sulle braccia. Poi, naturalmente,
derubato e deportato a 30 km da Velika Kladusa. Ora giace qui, inerme,
dormiente, evitando il risveglio che lo riporterà alla realtà.
Quando arriviamo al campo, i bambini, soprattutto loro, compaiono per primi
correndo scomposti. Alcuni ti arrivano addosso con quel vezzo di
indifferenziata amicizia chiedendoti tutto e nulla, attaccandosi alle tue mani
o gambe come a voler trarre una presa corporea che li agganci alla vita che non
hanno. Altri bimbi, invece, non si separano dalle madri, non alzano
lo sguardo o ingannano sé stessi vagando nella polvere alla ricerca di qualcosa
che non c’é. Il loro è un tempo pieno di vuoto che si fa corpo nello sguardo a
volte assente, a volte vacuo. Spicca oggi una bellissima bambina di
6 forse 7 anni, i capelli neri e lunghi raccolti con un elastico dietro la
nuca. Indossa un vestitino color rubino che contrasta con lo squallore e la
polvere del campo. Nei suoi occhi una tristezza senza nome, nel suo volto non
un sorriso. Vedere un bambino che non sorride è come guardare allo specchio la
nostra civiltà che sparge morte
Questa Europa tanto desiderata è in realtà un trauma di Stato inscritto nel
corpo
Bihac 11 luglio 2018
A Bihac ci sono due grandi edifici fatiscenti che ‘ospitano’ i rifugiati,
costruiti prima della guerra e rimasti poi abbandonati da quasi trent’anni,
quindi in grave stato di degrado. Uno dei due, a pochi metri dal fiume in cui
ci si lava e anche si beve, non è seguito né dalla Croce Rossa, né da altre
associazioni.
Ci avvicina un uomo, che ci mostra una mano con tracce vistose di
bruciature. Ci dice di essere stato torturato nel suo paese: la Siria. Si
accompagna a un altro profugo, che sembra essersi assunto un qualche compito
collettivo, il quale ci racconta che in questo fiume, in alcuni punti molto
largo e con rapide insidiose, pochi giorni fa è annegato uno di loro. Il suo
nome è Sayed.
Ci informa subito, palesemente turbato, che tre ragazzi, alle cinque del
mattino, forse in dormiveglia, sono caduti dal terzo piano: visto l’edificio
molto alto e completamente privo di schermi e ringhiere di qualsiasi tipo per
finestre, porte, terrazze e scale, la cosa purtroppo non stupisce. E’ stata
chiamata un’ambulanza. Il più grave, con gravi fratture, è stato trasportato a
Sarajevo, gli altri due all’ospedale di Velika Kladusa.
Un particolare si aggiunge come nota dolorosa in più a queste vicende
tragiche: la madre del ragazzo trasportato a Sarajevo ha cercato al cellulare
il figlio che, ormai, non poteva più rispondere. Ha chiamato allora un amico
apprendendo quello che gli era accaduto.
Come si sarà sentita questa madre lontana migliaia di chilometri?
Impotenza, dolore, rabbia si mescolano fra noi ad altre emozioni creando un legame
di comunanza con Sayed e con gli altri due siriani che si sono fermati con noi
assieme a lui. Impossibile in questo frangente elaborare tanta tragicità.
Osserviamo da fuori questo edificio. La volta precedente eravamo entrati
notando la grave pericolosità delle trombe vuote fra piano e piano, il cemento
marcito, l’acqua infiltrata che colava, i buchi enormi che si aprivano come
voragini nei pavimenti. Allora erano poche decine, poco più di una cinquantina
Ora, dentro questa struttura, vivono circa cinquecento persone (dato della
Croce Rossa di Bihac)
Nel cosiddetto Dacki Dom, l’altro e più grande edificio
fatiscente che ospita ‘ufficialmente’ i rifugiati, c’è l’intervento regolare
della Croce Rossa e, ora, di altre associazioni come IOM, Medici senza frontiere
e Save the Children. L’elettricità è stata recentemente ripristinata dal
Comune, i servizi sanitari, posti nel cortile, sono stati migliorati rispetto
al nostro viaggio precedente, ma sempre inadeguati, dato l’aumento del numero
degli occupanti che è salito da 500 a 900 persone. Ricordiamo che si tratta
dello scheletro di un edificio destinato a una scuola o casa per la gioventù,
con varie locali non agibili perché pericolanti o con pericolosissimi larghi
buchi sul pavimento, con porte che danno sul vuoto, con ambienti in cui il
cemento marcio lascia passare l’acqua. Immaginiamoci l’autunno piovoso e,
peggio, l’inverno in un territorio in cui nevica molto.
A nostro parere, questa condizione pessima, non ha tanto a che fare con
l’indifferenza delle istituzioni locali, quanto con la povertà generale del
cantone di Bihac.
Salendo la rampa interna di scale, al primo piano, ci si rende conto della
pericolosità del palazzo. Sprovvista di corrimano, la scalinata è completamente
esposta. Ci sono molti bambini che giocano. Ci sembra che nell’ultimo periodo
siano aumentate le famiglie con bambini: almeno trenta ci dicono, ma non c’è
un’indagine precisa. Un bambino gioca a nascondino fra le scale, si sporge
pericolosamente, e ci rendiamo conto che quel vuoto potrebbe inghiottirlo in un
baleno. Scendendo, al piano terra, ci colpisce un bambino che gioca con un
carro armato, facendo ‘bum, bum!’.
In uno degli stanzoni dei piani superiori, incontriamo due ragazzi che
cominciano a parlare con noi. Ci raccontano: “Abbiamo 18 e 24 anni. Veniamo
dalla Siria. Siamo nei Balcani da due anni e mezzo, prima bloccati in un campo
in Serbia. 15 giorni fa siamo riusciti ad arrivare a Trieste e abbiamo
manifestato la nostra volontà di chiedere asilo. La polizia ci ha preso le impronte,
ci ha fatto le foto, ci ha trattenuto per un giorno in Questura. Poi ci hanno
deportato in Slovenia, che ci ha deportato in Croazia. La polizia croata ci ha
picchiato, ci ha rubato quel poco che avevamo, compreso il cibo, ci ha rotto il
cellulare, preso i documenti. Hanno anche aizzato i cani. Poi ci hanno
deportato verso la Bosnia e ora siamo di nuovo qua, a Bihac”.
Dopo averci raccontato la loro storia i due ragazzi ci invitano a mangiare
con loro una sorta di zuppa che stanno preparando su un fuoco improvvisato
dentro una coltre di fumo.
La gran parte degli ‘ospiti’ di questa pericolante struttura mangia invece
collettivamente, ai tavoli di uno stanzone, il cibo portato dalla Croce Rossa
(una minestra di legumi, ci sembra, con un pezzo di pane – le volte scorse
avevamo visto anche pezzi di carne) –, dopo aver fatto una lunghissima fila che
dura almeno due ore nel cortile (pensiamo a quando piove!). Il tutto è
sorvegliato da due imponenti poliziotti vestiti di nero. Alcuni, invece,
preferiscono cucinarsi da soli, in altri stanzoni. “Il cibo della Croce
rossa non è buono”, ci dicono. Ma forse intendono dire che preferiscono un
cibo più legato alla loro cultura, come abbiamo visto in questi gironi
dell’inferno: stavano infatti cuocendo il ‘chapati’.
Attorno al Dacki Dom il parco è ora occupato da moltissime
tende, tipo igloo. Incontriamo uno stand di Save the Children che cerca di
occupare i bambini con alcune attività ludiche. Anche qui, però, come a
Kladusa, i bambini ci appaiono senza infanzia. Una ragazzina alta e
molto magra, sicuramente adultizzata, dall’espressione seria e composta, ci
chiede di portarla con sé perché vuole raggiungere la mamma e la sorellina di
sei mesi che vivono in Germania. Cerchiamo di capire come mai è qui, ma non è
facile. Il suo inglese è stentato. Troppi altri bambini, inoltre, ci tirano da
tutte le parti frugando dentro le nostre borse, impedendoci di mantenere la
giusta attenzione. Lei ci porta verso una tendina per farci conoscere colui che
dice essere suo padre (sperando davvero che sia suo “padre”): un uomo sulla
quarantina che non spiaccica una parola. Forse conoscerà anche lui l’inglese,
ma perché mai dovrebbe fidarsi di noi?
Chi siamo noi se non degli intrusi che fanno domande e foto, come ci
contestava un altro ragazzo con un ascesso al dente che lo tormenta da
giorni. “Potevamo portarlo in ospedale? Potevamo aiutarlo? Perché tutti
vengono qua, ci fotografano e poi se ne vanno mentre noi restiamo bloccati in
questo inferno? Perché non aprite i confini?” ci chiedeva. Un altro amico
di questo ragazzo, disteso su un lercio materasso sulla rampa di una scala, ci
guardava con lo sguardo di chi non si attende nulla. Due enormi cisti, se di
cisti si tratta, gli avevano invaso la fronte e l’occhio. Stava lì, inerme,
restio al nostro contatto, in compagnia della sua vulnerabilità.
Tornando alla ragazzina che ci chiedeva di portarla con noi, le lasciamo un
sacco a pelo per il freddo della notte e, chissà, per tentare la salvezza.
Come lei, tantissimi altri minori non accompagnati, ragazzini che appaiono
avere 16 anni ma forse ne avranno 14 o 15, si aggirano tra il parco e la strada
che porta al confine. La sensazione è che si portino addosso una disperata
solitudine.
Non esiste un sistema di registrazione dei minori non accompagnati mentre
si stima che siano almeno trenta le famiglie con bambini che vivono
nell’edificio chiamato Dom
Oltre alla Croce Rossa, a Bihac opera MSF con interventi sia nel Dom (3
volte settimanali), sia alla sede della Croce rossa (4 volte settimanali)
mentre l’IOM gestisce tre case per famiglie.
Sarebbe voluta intervenire a Bihac anche l’associazione sanitaria ungherese
Smilinghelpers, le cui bravissime operatrici – l’infermiera Adrienne Schmidt e
la medica Judit Mogyoròs – abbiamo conosciuto in piazza Victoria ad Atene; ma
per loro è stato impossibile non avendo l’autorizzazione per svolgere attività
medica in Bosnia.
Regolarmente, una volta alla settimana, interviene con aiuti e volontari
l’onlus italiana One bridge to Idomeni.
Il nostro contributo
Il nostro contributo come volontari indipendenti si basa sulla raccolta
fondi svolta attraverso una rete costituita ad hoc.
Grazie alle donazioni di molte persone, abbiamo raccolto e consegnato:
nel nostro secondo viaggio (15-16-17 giugno 2018) a Bihac: 1425
euro depositati sul conto della Croce Rossa locale per acquisto di
beni di prima necessità
in questo terzo viaggio ( 9-10-11 luglio 2018) abbiamo raccolto 2.380,00
euro
La raccolta fondi è stata suddivisa tra KLADUSA e BIHAC.
A Velika Kladusa abbiamo comperato beni per un totale di 2.891,60
marchi bosniaci
- il 9
luglio abbiamo acquistato 38 paia di scarpe per 1.203,55 marchi bosniaci assieme
a “SOS team Kladusa”
- il
10 luglio 2018, con l’associazione “No Name Kitchen” abbiamo
comperato almeno 300 paia tra calzini calzini, mutande, canottiere, poi
medicine, colori per bambini per un totale complessivo di 1.688,05
marchi bosniaci
a Bihac ( 11 luglio 2018) abbiamo consegnato e depositato
sul conto corrente della Crveni križ grada Biha?a ossia
la Croce Rossa locale un totale di 1.717 marchi bosniaci
Ringraziamo tutte le persone conosciute e sconosciute che hanno creato con
noi una comunità solidale permettendoci di portare aiuti concreti ai profughi
confinati in Bosnia.
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