L’insediamento delle colonie di civili in Cisgiordania non è di per sé
contrario al diritto internazionale». Era forse dai tempi dell’imperialismo
inglese e francese di fine Ottocento che non si sentiva parlare con tanta
levità di "colonie". Quel che più conta, però, è che con quelle poche
parole Mike Pompeo, segretario di Stato degli Usa, è riuscito in una
quadruplice impresa. Ha liquidato decenni di politica estera americana che,
almeno a partire dal Memorandun Hansell del 1978, nelle «colonie» di Israele
vedeva un problema da risolvere e non un diritto da esercitare.
Ha ribadito la totale indifferenza di Washington, quando si tratta del
Medio Oriente e in particolare delle vicende di Israele, per ciò che pensa il
resto del mondo che, dall’Onu all’Unione Europea, considera invece illegali
quegli insediamenti. Per dirla con la Corte internazionale di giustizia, le
colonie violano l’articolo 49.6 della Convenzione di Ginevra che recita: «La
potenza occupante non potrà mai procedere alla deportazione o al trasferimento
di una parte della propria popolazione civile sul territorio da essa occupato».
Pompeo, inoltre, ha piantato l’ennesimo chiodo nella bara della soluzione a
due Stati, vicini e non belligeranti, che resta la più ragionevole per provare
a risolvere il conflitto tra israeliani e palestinesi. E ha mostrato l’enorme
fiducia che la dirigenza americana nutre nel controllo che può esercitare sui
vertici politici dei Paesi arabi, interessati alla causa palestinese quasi solo
a parole. L’amministrazione Trump, in meno di tre anni, ha rovesciato su
Israele una gerla enorme di regali.
Nel dicembre del 2017 ha riconosciuto Gerusalemme, compresa la parte Est
che per il diritto internazionale è dal 1967 «territorio occupato», quale parte
integrante di Israele e sua capitale indivisa. Poi (marzo 2019) ha deciso che
le Alture del Golan, territorio siriano, occupato anch’esso dopo la vittoria
militare del 1967, dovevano essere considerate a tutti gli effetti territorio
di Israele. Quindi (maggio 2019) ha elaborato un «piano di pace» che prevede,
tra l’altro, l’espulsione di arabi palestinesi da Israele verso una ipotetica
Nuova Palestina, che dovrebbe comunque essere sottomessa (almeno militarmente)
a Israele.
Ora è la volta degli insediamenti. Sarebbe limitante, però, leggere in
tutto questo solo la volontà di favorire il premier israeliano Benjamin
Netanyahu, ormai privo di una maggioranza in patria, ma perfettamente in linea
con le politiche della Casa Bianca. O il desiderio, nella campagna elettorale
permanente che accompagna la presidenza Trump, di compiacere i potenti gruppi di
pressione anti-palestinesi e filo-israeliani che tanta parte hanno nelle
fortune dei politici americani.
C’è questo, è fuor di dubbio. Ma c’è soprattutto un progetto abbastanza
preciso di riscrittura degli assetti del Medio Oriente. Il grande obiettivo strategico
degli Usa di Trump è contenere l’espansione dell’influenza iraniana sulla
regione. Più ancora, impedire che la Repubblica islamica si intitoli, con il
prestigio della religione e la forza delle milizie, la cosiddetta Mezzaluna
Fertile, cioè la vastissima area a predominio sciita che parte dall’Iran e, via
Iraq e Siria, arriva fino al Libano e allo Yemen.
È la stessa agenda di Israele e Arabia Saudita, che da anni sono mobilitati
su questo fronte. Un’agenda, però, che la potenza americana ha tramutato da
regionale a globale, convincendo due vecchi nemici (Israele e Arabia Saudita,
appunto) a diventare alleati e premendo in vario modo sugli altri Paesi perché
non ostacolino il progetto. Per esempio sostenendo al-Sisi nell’Egitto che dal
1979 rispetta il trattato di pace con Israele e ha forti relazioni con i
sauditi, o alternando lusinghe e minacce con Recep Tayyep Erdogan e la Turchia,
da sempre in rapporti critici con Israele e adesso anche con i sauditi.
Perché Israele e Arabia Saudita possano davvero trasformarsi nelle colonne
d’Ercole di questo gigantesco schema di difesa- offesa, è necessario che il
problema palestinese sparisca. Non che sia risolto, cosa complicatissima tra le
pretese di Israele, il revanscismo dei palestinesi e il cinismo e la miopia
politica di gran parte dell’una come dell’altra classe politica. Ma, appunto,
che sparisca. Come i continui interventi americani, in fondo, prevedono.
A ben vedere, non è nulla di nuovo. La storia degli ultimi decenni è ricca
di interventi in Medio Oriente condotti nella convinzione che basti applicare
sufficiente forza militare, politica o economica per cancellare problemi e
realtà vecchi magari di secoli. Ovviamente non è così. Israele non sparirà. E,
come non sono spariti gli ayatollah sciiti o i peshmerga curdi, non spariranno
nemmeno i palestinesi. Speriamo che non serva l’ennesima guerra per farcelo
capire.
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