E LA CHIAMANO ECONOMIA
La teoria economica classica distingue tre fattori di produzione: terra,
capitale e lavoro. La loro parabola è stata opposta. I primi due sono diventati
sempre più rilevanti, il terzo sempre meno. Prima a causa della rivoluzione
industriale, poi della globalizzazione neoliberista e oggi per la rivoluzione
informatica e robotica.
Da quando l’uomo ha messo piede sulla terra ha sperimentato che, per
procurarsi da vivere, non è sufficiente la sola forza muscolare. Altri due
elementi sono di fondamentale importanza: gli strumenti (oggi chiamati
tecnologia) e la terra (oggi, la natura e gli ecosistemi). Benché molto diversi
fra loro, da quando siamo entrati nell’«era dei mercanti», questi due aspetti
hanno finito per essere etichettati sotto la stessa categoria: il capitale.
Tant’è che, se parla il proprietario terriero, il suo capitale è la terra; se
parla l’allevatore, il suo capitale sono gli animali; se parla l’imprenditore
manifatturiero, il suo capitale sono le macchine. Una scelta non casuale: il
linguaggio è fra i più potenti condizionatori del pensiero.
Premesso che capitale è sinonimo di importante, fondamentale, senza
accorgercene siamo cresciuti con la convinzione che gli aspetti essenziali
dell’attività economica siano le macchine, i palazzi, i terreni, le miniere. In
una parola, diamo valore a ciò che il mercante reclama come «suo», mentre
disprezziamo tutto il resto. In particolare, lavoro e beni comuni. È il trionfo
del pensiero mercantile.
Senza mezzi
Un tempo, quando l’economia ruotava attorno all’agricoltura, il capitale di
riferimento era la terra. Oggi è rappresentato principalmente dalla tecnologia.
Sopra all’uno e all’altro, domina il denaro che, rappresentando la chiave di
accesso a qualsiasi bene, ha finito per essere il capitale per eccellenza.
Tant’è che il sistema bancario e finanziario oggi è il vero dominus dell’economia.
Ma ciò che interessa notare è che, nel corso della storia, si è assistito a
una separazione crescente fra capitale e lavoro. E non per rinuncia da parte
dei lavoratori a possedere i propri mezzi di produzione, ma per la
prepotenza di pochi a prendersi con la forza il capitale di tutti. Non a caso,
in molti paesi del Sud del mondo, i senzaterra continuano a lottare per
riprendersi ciò che i latifondisti hanno accumulato con il sopruso.
Gli storici riempiono pagine per raccontarci delle scorribande organizzate
dai vari sovrani per strapparsi le terre a vicenda, ma la vera guerra che si
dovrebbe studiare è quella combattuta all’interno delle singole comunità da
parte di pochi prepotenti per sottrarre terre ai propri conterranei. Con
l’obiettivo esplicito di ridurre la popolazione in povertà e costringerla a
lavorare al proprio servizio. Per un certo periodo addirittura in schiavitù.
Poi, per fortuna, lo spirito si è affinato e la schiavitù (intesa come
sopraffazione dell’uomo sull’uomo attraverso la proprietà della persona) non è
stata più ammessa. Ma non è cresciuta la condanna per la povertà e a
partire dal 1600 in Europa si sono intensificati i meccanismi per privare le
famiglie rurali dei propri mezzi di sostentamento. In Inghilterra sono famose
le leggi emanate per privatizzare le terre comuni, l’unica fonte di
sostentamento a disposizione dei nullatenenti. Improvvisamente milioni di
individui si sono trovati costretti a migrare verso le città in cerca di una
soluzione. Che passava per una sola strada: la vendita del proprio
lavoro, unica merce a loro disposizione. Del resto l’obiettivo era proprio
questo: permettere alla nuova classe dominante, che ora si basava sul capitale
industriale, di poter disporre di uno sterminato esercito di nullatenenti
costretti a svendersi. Alla fine il progetto di espropriazione ha sortito i
propri effetti: noi tutti siamo nullatenenti capaci di vivere solo se troviamo
qualcuno disposto a comprarsi il nostro lavoro. La condizione di spossessamento
è talmente diffusa che non ci facciamo neanche più caso: ci pare semplicemente
normale dipendere da qualcun altro per poter vivere, anche se vendere lavoro
significa vendere il proprio tempo ossia parte della nostra esistenza. Forse
servirebbe qualche riflessione in più sulla liceità del lavoro salariato.
L’economia dello scarto
Dopo averci ridotto al rango di nullatenenti e averci convinti che l’unico
modo per vivere è spendere al supermercato i soldi guadagnati vendendo il
nostro lavoro, è successo che il sistema ci ha strappato il tappeto da sotto i
piedi. Ci ha semplicemente informati che di lavoro per tutti non ce n’è, perché
il capitalismo non è organizzato per creare lavoro, ma per distruggerlo. Il
fatto è che per i capitalisti il lavoro è solo un costo da contenere, una merce
qualsiasi da comprare al prezzo più basso possibile. E poiché la legge di
mercato sancisce che il prezzo scende quando c’è più offerta che domanda, per
fare scendere il prezzo del lavoro bisogna creare più offerenti di lavoro di
quanto siano i posti disponibili. Un progetto definito da papa Francesco come
l’«economia dello scarto», e se fino a ieri gli scartati eravamo abituati a
vederli nel Sud del mondo, oggi li troviamo sempre più nelle nostre case, a
giudicare dalla crescita dei poveri e dei disoccupati.
Trasformato il lavoro in una variabile dipendente dall’andamento del
mercato e dai calcoli di convenienza del mercante, l’umanità è sprofondata in
una situazione d’insicurezza mai vista prima. Era brutta la condizione di
schiavi e servi della gleba, ma – paradossalmente – fra una frustata e l’altra
ci scappava anche la scodella di fagioli, perché il padrone aveva bisogno di
tutti e aveva interesse a che tutti gli abili al lavoro rimanessero in vita.
Oggi invece, il sistema può permettersi di dire a qualche miliardo di persone
che sono in sovrappiù e può condannarli a vivere rovistando fra i rifiuti
prodotti dai pochi ammessi.
Il capitalismo può essere raccontato come la storia di un sistema che si è
organizzato per creare disoccupazione e assicurarsi costantemente lavoro a buon
mercato. Ai primordi della rivoluzione industriale l’esercito di riserva venne
creato – lo abbiamo ricordato – con la privatizzazione delle terre comuni. In
seguito il pezzo forte è stata la tecnologia: l’introduzione di macchine sempre
più veloci ed autosufficienti capaci di sostituirsi ai lavoratori. Un processo
che si è intensificato con l’avvento dell’informatica come mostra l’avanzata
dei robot e dell’intelligenza artificiale in ogni ambito del vivere industriale
e umano. Nessuno sa ancora quanti posti di lavoro verranno distrutti dalla
robotizzazione. Qualcuno sostiene che alla fine sarà un’operazione a somma
zero: da una parte si perderanno posti, ma dall’altra se ne creeranno. A
rimetterci saranno le mansioni meno qualificate mentre crescerà la richiesta di
ingegneri, matematici, programmatori. Un ottimismo confortato dalla
constatazione che, in passato, nonostante l’introduzione delle macchine, alla
fine l’occupazione ha tenuto. Ma il contesto era diverso. Per cominciare c’era
un’Europa da ricostruire e molta strada da fare sul piano dei consumi. Inoltre
c’erano governi molto interventisti che attivavano tutti gli strumenti a
propria disposizione per stimolare gli investimenti. E per finire le imprese
erano molto più legate ai propri territori perché c’erano regole assai più
stringenti rispetto alla circolazione internazionale dei capitali e delle
merci. Ma gradatamente tutto questo è cambiato: il mercato si è saturato, il
neoliberismo ha tarpato le ali agli stati, merci e capitali hanno avuto licenza
di muoversi in piena libertà a livello mondiale. Le imprese, insomma, hanno
assunto il mondo intero come territorio di riferimento anche da un punto di
vista produttivo e tutte le carte hanno cominciato a rimescolarsi.
Disoccupati al Nord, sfruttati al Sud
Con la globalizzazione, miliardi di persone mantenute in povertà da
cinquecento anni di colonialismo, sono state riscoperte dal sistema delle
imprese, non come consumatori, ma come lavoratori a buon mercato. E l’intera geografia
internazionale del lavoro è stata ridisegnata. Marchi storici con una solida
filiera produttiva nei paesi in cui erano nati, hanno scoperto che è più
conveniente sbarazzarsi della produzione che mantenerla. La soluzione è
appaltarla a terzisti esterni reperiti ora in Corea del Sud, ora in Cina, ora
in Bangladesh, in base alle condizioni offerte. Così il mondo delle imprese si
è ristrutturato e la produzione frantumata, internazionalizzata, deflagrata: un
pezzo qua, un pezzo là; un anno qui, un anno là: sempre in movimento a seconda
dei calcoli di convenienza. Il risultato è più lavoro sfruttato al Sud e meno
lavoro garantito al Nord. Ovunque più concorrenza fra lavoratori disposti a
ridurre i propri salari e i propri diritti pur di ottenere un posto di lavoro.
E i risultati si vedono: nei paesi più ricchi, fra il 1975 e il 2011, la quota
di reddito nazionale andata ai salari è diminuita mediamente del 10%, passando
dal 67% al 56%. In Italia, la diminuzione è stata addirittura dell’11,8%,
contro il 6,2% della Francia e il 4,2% del Giappone. Una perdita a tutto
vantaggio dei profitti che sono cresciuti specularmente.
Poi gli immigrati
Anche l’immigrazione è usata per alimentare la discesa dei salari e dei
diritti. Ma al contrario di quello che si potrebbe pensare, non è l’apertura a
favorire lo sfruttamento, bensì la chiusura. Più si chiudono le frontiere, più
si creano ostacoli al rilascio dei permessi di soggiorno, più cresce
l’immigrazione clandestina e irregolare che va a finire tutta fra le braccia dell’economia
in nero e criminale. In Italia la politica degli ultimi governi, che ha ridotto
l’accoglienza, ha abolito i permessi di soggiorno per motivi umanitari, ha reso
più difficile il riconoscimento dello status di rifugiato, ha prodotto 650mila
irregolari. Un esercito di braccati che non potendo svolgere un lavoro regolare
finisce inevitabilmente fra le grinfie dei caporali che usano l’arma del
ricatto per portali nei campi e nei cantieri edili a lavorare per due euro
l’ora.
L’occupazione è citata da tutte le forze politiche come una priorità. Ma
spesso è solo strumentalizzata per giustificare investimenti pubblici inutili e
dispendiosi, o per avallare attività private socialmente inaccettabili e
ambientalmente dannose. E si può parlare di strumentalizzazione perché nel
contempo si rendono complici della costruzione di un ordine economico che dà
sempre più potere ai mercanti. Che è come affidare il servizio antincendio ai
piromani. La via d’uscita si può ottenere solo costruendo un altro potere
economico, di tipo pubblico, parallelo a quello dei mercanti. Oggi i mercanti
si sentono onnipotenti perché sanno di possedere il monopolio della produzione
e del lavoro. Ma quando si renderanno conto di non essere più così
determinanti, perché la gente trova altrove la soluzione ai propri problemi,
allora verranno a più miti consigli. Spesso per spengere gli incendi si usano i
controfuochi in modo da creare delle aree prive di vegetazione che impediscono
alle fiamme di avanzare. Dovremo adottare la stessa strategia anche in ambito
economico, per impedire al fuoco mercantilista di divorarsi tutto.
(prima parte – continua)
Fonte: Missioni Consolata
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