Ecco i veri nodi dell’immigrazione in Italia - Maurizio Ambrosini
Il Rapporto annuale sugli stranieri nel mercato del
lavoro in Italia disegna un quadro in chiaroscuro, tra progressi e difficoltà.
Indica le tematiche che un eventuale nuovo governo dovrebbe affrontare, senza
continuare a inseguire aspetti marginali.
Il Rapporto sugli stranieri nel mercato del lavoro
Viviamo
giorni d’incertezza di fronte all’evoluzione politica del paese, ma non manca
la speranza di una svolta che segni una netta discontinuità nelle politiche
migratorie. Per oltre un anno, la discussione sul tema è stata polarizzata
sugli sbarchi dal mare e sull’asilo, salvo occasionalmente allargarsi alla
cronaca nera. Basta andare a rileggere il contratto su cui nacque il governo
Conte-Salvini-Di Maio. Migranti e rifugiati sono sistematicamente confusi e si
parla di “flussi migratori” per intendere gli arrivi dal mare. Oggi
scarsissimi, ma sempre minoritari anche negli anni scorsi rispetto alle altre
modalità d’ingresso: famiglia, studio, lavoro e diverse altre. Senza contare,
beninteso, i migranti interni all’Ue (1,5 milioni in Italia), che non hanno
bisogno di permessi per insediarsi nel nostro paese.
È dunque
importante, nel momento in cui potrebbe nascere un governo diverso,
confrontarsi con analisi statistiche, meglio se di fonte istituzionale, che ci
restituiscono un quadro più obiettivo e completo dell’immigrazione del nostro
paese. Tra queste va annoverato il Rapporto annuale sugli
stranieri nel mercato del lavoro in Italia, pubblicato dal ministero
competente, la cui nona edizione è uscita nei giorni scorsi.
Va ammesso che
nemmeno la partecipazione occupazionale degli immigrati sfugge al fuoco delle
polemiche. Quando non lavorano, sono bollati come parassiti mantenuti dalle
tasse dei contribuenti. Quando lavorano, sono accusati di rubare il pane agli
italiani, oppure di essere braccia a disposizione di biechi sfruttatori. Quando
intraprendono, si pensa che godano di indebiti vantaggi, di aiuti pubblici, di
esenzioni fiscali o altri favoritismi.
Il Rapporto
ministeriale aiuta a fare un po’ di chiarezza al riguardo. Il primo dato è che
l’occupazione regolare degli immigrati continua a crescere, anche se
moderatamente: 2,45 milioni, pari al 10,6 per cento dell’occupazione
complessiva. In altri termini, un lavoratore su dieci in Italia è straniero,
senza contare quelli che nel frattempo hanno acquisito la cittadinanza italiana
a dispetto della regolamentazione più restrittiva dell’Europa occidentale. In
generale, il tasso di occupazione degli immigrati è più alto di quello degli
italiani, uno dei pochi casi a livello Ocse, e alcune componenti nazionali
brillano per operosità: tra i filippini più di otto su dieci sono occupati;
cinesi, peruviani, srilankesi e ucraini superano o sfiorano un rapporto di
sette su dieci.
In alcuni
settori il contributo degli stranieri è particolarmente rilevante: 17,2 per
cento del totale in edilizia, 17,9 per cento in agricoltura e nell’industria
alberghiera; ma soprattutto 36,6 per cento nei “servizi collettivi e
personali”. Qui si colloca, infatti, tra le varie occupazioni del settore,
l’ingentissimo fenomeno del lavoro domestico e assistenziale a beneficio delle
famiglie italiane: un ambito in cui più di sette lavoratori su dieci sono
stranieri, o meglio straniere.
Il problema della sovra-qualificazione
Questa
grande risorsa per puntellare i difficili equilibrismi a cui tante famiglie
sono costrette ha però anche costi sociali e personali non indifferenti: per le
lavoratrici straniere, quale che sia il loro livello d’istruzione e la loro
esperienza professionale pregressa, il confinamento nel lavoro
domestico-assistenziale è un destino a cui non è agevole sottrarsi.
Ma il
problema della sovra-qualificazione vale anche per gli uomini: secondo il
rapporto, 63 laureati stranieri su 100 sono occupati in posizioni per cui
basterebbe un’istruzione inferiore, contro meno di 18 italiani laureati su 100.
Più grave è però un altro problema: il lavoro in parecchi casi non affranca gli
immigrati dalla povertà. In un quarto dei casi di immigrati in condizioni di
povertà assoluta (1,5 milioni), almeno una persona in famiglia ha
un’occupazione regolare.
Un’altra
seria incognita riguarda le nuove generazioni di origine immigrata: il loro
tasso di occupazione nell’Ue è del 69 per cento, in Italia soltanto del 28 per
cento. Si profila perciò un allarme per l’integrazione sociale futura dei figli
degli immigrati, che nessuno potrà cacciare da quello che ormai è il loro
paese.
Il rapporto
disegna dunque un quadro in chiaroscuro, di luci e ombre, progressi e
difficoltà. Sarebbe di vitale importanza per un nuovo governo mettere a tema i
nodi veri della questione immigrazione – quindi, per esempio, quello di nuovi
ingressi per lavoro in determinati settori – invece di inseguire aspetti di
fatto marginali, ma di elevata redditività propagandistica.
da qui
Quell’umanità perduta nella “guerra” ai migranti - Maurizio Ambrosini
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di
organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta. Avremmo invece
bisogno di tornare a un mondo in cui accogliere persone e sostenere chi chiede
aiuto è solo un’espressione di umanità.
Le conseguenze del caso Sea Watch
Il
Parlamento sta per pronunciarsi sul caso Matteo Salvini-Sea Watch e si sa già
come andrà a finire. Ma è l’occasione per una riflessione sul rapporto tra
azione umanitaria e radicalizzazione politica sul fronte controverso dell’asilo.
In questi giorni, Salvini ha rivendicato i meriti della sua gestione, in termini di quasi azzeramento degli sbarchi e delle morti in mare. In realtà, il crollo degli arrivi deriva principalmente dagli accordi con governo e milizie libiche dell’esecutivo Gentiloni-Minniti. Il ministro dell’Interno del governo Conte ha solo completato l’opera, facendo dell’Italia un paese che di fatto si sottrae sia al diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sia a consentire lo sbarco delle persone tratte in salvo, minorenni compresi, come prevede il diritto del mare. La confusione tra rifugiati, migranti economici, clandestini, tutti etichettati come spensierati turisti in viaggio di piacere nel Mediterraneo (“la pacchia è finita”, secondo i tweet di Salvini), è un tratto consolidato della comunicazione governativa sull’argomento. Si può obiettare che qualche micro-sbarco di tunisini continua ad avvenire, che l’inverno già di per sé riduce al minimo gli attraversamenti del mare con mezzi inadatti, ma il quadro non cambia: ha vinto la disumanità. Resta da vedere se questa politica ha migliorato la vita dei cittadini italiani, se ha promosso l’immagine del nostro paese sul piano internazionale. Se ha fatto dell’Italia un paese migliore.
Nel frattempo, la Sea Watch è stata scagionata dalle varie accuse che le erano state rivolte, con sollievo di molti simpatizzanti, malgrado l’aggiunta che siano invece riscontrabili irregolarità amministrative: in sostanza, dubbi sull’idoneità dell’imbarcazione a effettuare operazioni di salvataggio in mare. Il punto richiama però un inquietante scenario complessivo: ormai ogni operazione di salvataggio in mare è oggetto non solo di aspre polemiche politiche, ma anche di approfondite indagini da parte delle autorità inquirenti, con tanto di interrogatori degli equipaggi e dei migranti tratti in salvo, minorenni compresi.
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta, di cui si analizza con acribia degna di miglior causa la scelta di intervenire al posto delle autorità libiche, di dirigersi verso i porti italiani anziché tunisini o maltesi, di trarre in salvo le persone anche se non si è perfettamente attrezzati per farlo. Senza tralasciare la pioggia di accuse preventive da parte di diversi esponenti governativi, non solo il solito Salvini, spacciate subito come certezza che la Sea Watch avesse commesso gravi irregolarità.
È uno spettacolo mai visto prima in un paese a ordinamento liberale. Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi chiude i porti e tiene persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica. Il fatto che le accuse cadano poi una dopo l’altra, senza neppure arrivare (almeno finora) al dibattimento in aula, ne conferma la loro natura pregiudiziale e politicizzata.
Assistiamo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare, servire pasti caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza politica all’autorità statale.
Avremmo invece bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla Corte costituzionale francese in una storica sentenza del luglio scorso: il principio di fraternità vieta di criminalizzare la solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico. Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo stato non può perseguire.
In questi giorni, Salvini ha rivendicato i meriti della sua gestione, in termini di quasi azzeramento degli sbarchi e delle morti in mare. In realtà, il crollo degli arrivi deriva principalmente dagli accordi con governo e milizie libiche dell’esecutivo Gentiloni-Minniti. Il ministro dell’Interno del governo Conte ha solo completato l’opera, facendo dell’Italia un paese che di fatto si sottrae sia al diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sia a consentire lo sbarco delle persone tratte in salvo, minorenni compresi, come prevede il diritto del mare. La confusione tra rifugiati, migranti economici, clandestini, tutti etichettati come spensierati turisti in viaggio di piacere nel Mediterraneo (“la pacchia è finita”, secondo i tweet di Salvini), è un tratto consolidato della comunicazione governativa sull’argomento. Si può obiettare che qualche micro-sbarco di tunisini continua ad avvenire, che l’inverno già di per sé riduce al minimo gli attraversamenti del mare con mezzi inadatti, ma il quadro non cambia: ha vinto la disumanità. Resta da vedere se questa politica ha migliorato la vita dei cittadini italiani, se ha promosso l’immagine del nostro paese sul piano internazionale. Se ha fatto dell’Italia un paese migliore.
Nel frattempo, la Sea Watch è stata scagionata dalle varie accuse che le erano state rivolte, con sollievo di molti simpatizzanti, malgrado l’aggiunta che siano invece riscontrabili irregolarità amministrative: in sostanza, dubbi sull’idoneità dell’imbarcazione a effettuare operazioni di salvataggio in mare. Il punto richiama però un inquietante scenario complessivo: ormai ogni operazione di salvataggio in mare è oggetto non solo di aspre polemiche politiche, ma anche di approfondite indagini da parte delle autorità inquirenti, con tanto di interrogatori degli equipaggi e dei migranti tratti in salvo, minorenni compresi.
Il salvataggio di vite umane in pericolo da parte di organizzazioni indipendenti è diventato un’attività sospetta, di cui si analizza con acribia degna di miglior causa la scelta di intervenire al posto delle autorità libiche, di dirigersi verso i porti italiani anziché tunisini o maltesi, di trarre in salvo le persone anche se non si è perfettamente attrezzati per farlo. Senza tralasciare la pioggia di accuse preventive da parte di diversi esponenti governativi, non solo il solito Salvini, spacciate subito come certezza che la Sea Watch avesse commesso gravi irregolarità.
È uno spettacolo mai visto prima in un paese a ordinamento liberale. Salvare migranti e richiedenti asilo è diventato un attacco alla sicurezza e alla sovranità nazionale, mentre chi chiude i porti e tiene persone inermi bloccate a bordo per giorni, minorenni compresi, si presenta come difensore della patria: come se fosse in gioco la sicurezza della nazione rispetto a un’invasione nemica. Il fatto che le accuse cadano poi una dopo l’altra, senza neppure arrivare (almeno finora) al dibattimento in aula, ne conferma la loro natura pregiudiziale e politicizzata.
Assistiamo a una pericolosa politicizzazione della solidarietà. Che ha come logica conseguenza gli striscioni appesi in più occasioni da estremisti di destra di fronte a sedi della Caritas per attaccarne polemicamente l’impegno nell’accoglienza. A quanto pare, servire pasti caldi, organizzare corsi di italiano, mettere a disposizione docce e posti letto appaiono gesti eversivi o quanto meno forme di disobbedienza politica all’autorità statale.
Avremmo invece bisogno di fissare un punto, solennemente affermato dalla Corte costituzionale francese in una storica sentenza del luglio scorso: il principio di fraternità vieta di criminalizzare la solidarietà con i migranti, quale che sia il loro status giuridico. Fornire aiuto su basi umanitarie è una scelta che lo stato non può perseguire.
Le risposte informali
Anche sul
fronte opposto avviene un’evoluzione significativa. Quello che chiamavano
“l’umanitario” non è mai piaciuto alla gran parte degli intellettuali critici e
agli attivisti pro-rifugiati più radicali. Così come non piaceva il
volontariato: deboli interventi riparativi che non mettevano in discussione le
ingiustizie del sistema. Oggi li vediamo invece schierati in difesa delle Ong,
con lo stesso piglio assertivo delle condanne di ieri, così come vediamo gruppi
di attivisti impegnarsi in azioni concrete di aiuto, dai corsi di italiano alla
fornitura di pasti, che altri definirebbero con il vecchio termine
“volontariato”.
Tra l’altro, il decreto sicurezza, producendo un aumento delle persone prive di protezione legale, accrescerà l’esigenza di interventi di aiuto. Le persone comunque rimangono. Hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni. Se mancano le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Si pensi per esempio alla tendopoli romana del centro Baobab, che il governo ha sgomberato nei mesi scorsi. Chi crede che gli immigrati privati del diritto di asilo finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Quindi, più problematici per la società. Ben vengano dunque le iniziative che cercano di far fronte all’emergenza annunciata: in un momento come questo, tutte le energie che promuovono un supplemento di apertura e di accoglienza sono da salutare con favore.
Forse, però, avremmo bisogno di tornare a un mondo normale, in cui salvare vite, accogliere persone, sostenere chi chiede aiuto, non sia un gesto né di destra né di sinistra, ma soltanto un’espressione di umanità.
da
quiTra l’altro, il decreto sicurezza, producendo un aumento delle persone prive di protezione legale, accrescerà l’esigenza di interventi di aiuto. Le persone comunque rimangono. Hanno un corpo e cercano delle risposte ai loro bisogni. Se mancano le risposte istituzionali, sorgono quelle informali. Si pensi per esempio alla tendopoli romana del centro Baobab, che il governo ha sgomberato nei mesi scorsi. Chi crede che gli immigrati privati del diritto di asilo finiscano per cedere e tornare mestamente in patria, da sconfitti, dimostra di non conoscerli. Rimarranno, più disperati, arrabbiati, depressi. Quindi, più problematici per la società. Ben vengano dunque le iniziative che cercano di far fronte all’emergenza annunciata: in un momento come questo, tutte le energie che promuovono un supplemento di apertura e di accoglienza sono da salutare con favore.
Forse, però, avremmo bisogno di tornare a un mondo normale, in cui salvare vite, accogliere persone, sostenere chi chiede aiuto, non sia un gesto né di destra né di sinistra, ma soltanto un’espressione di umanità.
Se la sinistra attacca
la sinistra - Maurizio Ambrosini
È
interessante che per attaccare una sinistra già in difficoltà i grandi
commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli
immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e
spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa
C’è un genere letterario che va di moda di questi tempi: sparare sulla sinistra e sui suoi errori. Il gioco
funziona ancora meglio se a farlo è qualche intellettuale o comunicatore che
può vantare un curriculum una qualche militanza a sinistra, sottraendosi
all’accusa di parzialità ideologica.
Naturalmente uno degli argomenti preferiti dai
neo-fustigatori della sinistra in declino è l’immigrazione, con la contrapposizione tra ultimi e penultimi, tra
poveri italiani e poverissimi immigrati. Sono di questo tenore gli argomenti
sviluppati dal noto giornalista Federico Rampini nel suo recente libro La notte della sinistra, e
ripresi con grandi elogi da Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera. Le due illustri penne del giornalismo
italiano convergono su alcuni dei più inossidabili luoghi comuni della
xenofobia di sinistra, o sedicente tale.
Il primo è l’idea che i lavoratori nazionali fragili
subiscano la concorrenza degli immigrati arrivati clandestinamente, e che il problema sia un’immigrazione
senza controllo. In realtà, a essere senza controllo non sono i modesti
ingressi dall’Africa (circa 350.000 persone tra rifugiati e richiedenti asilo
su circa sei milioni di immigrati, irregolari compresi), ma eventualmente le
migrazioni interne all’Ue. Dalla Romania o dalla Bulgaria chiunque può entrare
in Italia senza bisogno di permessi e mettersi a cercare lavoro, regolare o in
nero. Nel Regno Unito l’hanno intuito e hanno cercato di porvi rimedio con la
Brexit, ma non è neppure detto che ci riescano.
Riprendendo il vecchio cliché dell’esercito industriale
di riserva, i due giornalisti
accusano la sinistra di aver assecondato la fame di braccia da sfruttare del
capitalismo più spietato. In realtà sono le chiusure formalmente rigide delle
frontiere a creare le condizioni dell’immigrazione irregolare, che poi si trova
a lavorare in nero. Senza contare il fatto che in buona parte, forse in
prevalenza stando alle sanatorie, gli immigrati non autorizzati trovano lavoro
non nei campi o nei cantieri edili, ma nelle famiglie italiane.
In terzo luogo, Rampini e Cazzullo rivalutano il noto
slogan salviniano «aiutiamoli a casa loro», citando il drenaggio dei medici africani a vantaggio
della sanità britannica. Ne concludono che l’emigrazione è dannosa per i Paesi
di origine. Qui bisogna distinguere: il brain drain esiste, e ci ricorda che le migrazioni
sono di tanti tipi diversi. Le persone che in patria hanno lavori e salari
inadeguati partono nella speranza di migliorare le condizioni di vita della
propria famiglia. Di fatto i migranti aiutano casa loro in modo pervasivo
grazie al denaro che mandano alle famiglie in patria: 642 miliardi di dollari
nel 2018 secondo le stime della Banca mondiale. Un fenomeno che supera di gran
lunga il valore degli aiuti pubblici allo sviluppo. Inoltre l’immigrazione in
Italia come in Europa è prevalentemente europea (e femminile), non proviene dai
Paesi più poveri del mondo, non riguarda i più poveri dei Paesi di provenienza.
È interessante che per attaccare una sinistra già in
difficoltà i grandi
commentatori se la prendano con l’apertura e la solidarietà verso gli
immigrati. Colgono un argomento che più di altri può trovare consenso e
spaccare ancora di più una sinistra incerta e divisa. Un serio esame di
sociologia delle migrazioni però non lo passerebbero.
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