«In questa
stagione», gli disse Irina con uno sguardo trasognato, pensando alla sua terra
con trasporto e con un pizzico di molle nostalgia, «in Russia abbiamo l’usanza
di visitare i cimiteri. Portiamo dei panini, della frutta, un po’ di vodka, e
stiamo insieme ai nostri cari. Mettiamo una candela davanti alla tomba e
mangiamo con loro, parliamo con loro, gli uomini bevono la vodka. Poi, se
avanza qualcosa, lo raccogliamo da una parte e lo lasciamo lì.
I poveri e i
vagabondi lo sanno, e nel tardo pomeriggio passano a mangiare alla luce fioca
delle candele, e trascorrono un’ora di spensieratezza e di pace nella quiete
surreale del cimitero».
La luce
smorzata della sera entrava dalla serranda leggermente abbassata, e lottava con
il chiarore dell’abat-jour, riempendo l’aria di un calore diffuso. Giorgio era
stanco, ma anche appagato dall’amore del tardo pomeriggio. Non aveva pensieri,
solo una sensazione di confuso benessere che lo inondava con munificenza, senza
lasciare spazio nella sua mente per nient’altro che quella calma lenta e
generosa. Tornando dal bagno, Irina si era distesa al suo fianco, come era
solita fare, e aveva iniziato a parlargli.
Gli disse
che amava in modo particolare il mese di ottobre, che adorava la festa di
Halloween, anche se in Russia alle persone anziane non piaceva: «Non appartiene
alla nostra tradizione, dicono, ma io la trovo molto suggestiva. Non per la
parte riservata ai bambini, quella di dolcetto o scherzetto, ma per l’atmosfera
malinconica di fine ottobre, per quel residuo della calura estiva che ancora si
percepisce nel clima mite di metà autunno, che fa più sopportabile la cupezza
delle giornate e ci rende i morti più vicini, più familiari, e allo stesso
tempo meno perturbanti».
Parlava
lentamente, guardandolo negli occhi, senza sorridere, con una voce più bassa di
quello che, guardandola, ci si sarebbe potuti aspettare, e gli comunicava una
profonda serenità, come se in quella sera il tempo avesse smesso di essere una
dimensione irreversibile e si fosse trasformato in un attributo trascurabile
dell’esistenza, qualcosa che si potesse mettere in un canto e dimenticarsene.
Il tempo non esisteva più. Le cose, anziché accadere in una linea orizzontale
in cui era riconoscibile un prima e un dopo, sembravano galleggiare oziose nel
pomeriggio, così incantevoli nella loro incommensurabilità, nella loro assoluta
purezza che le collocava al di sopra di qualsiasi implicazione con tutto ciò
che è caduco: le parole scambiate pacatamente nella sera, l’amore di un’ora prima,
la stanza intima e raccolta, la luce bassa che svelava gli oggetti senza
rivelarli completamente.
Poi, gli
raccontò una storia che non avrebbe più dimenticato. Irina, pur essendo molto
giovane, era stata sposata per sette anni con Jozef, un uomo slovacco molto più
grande di lei, quasi anziano. Poi, a un certo punto, le cose avevano smesso di
funzionare, e lei era tornata a Mosca dalla sua famiglia. Ma aveva mantenuto un
buon rapporto con il suo ex. Ogni tanto lo andava a trovare, e trascorrevano
dei giorni insieme. D’estate, qualche volta, andava ancora in vacanza con
lui.«Ma solo come amica», teneva a precisare, ridendo, mentre lo raccontava.
«È uno dei
ricordi più romantici che ho. Era fine ottobre. Io e Jozef eravamo in macchina,
su una strada in collina, circondata da campi coltivati, appena fuori
Bratislava. Il sole era tramontato da poco, e la luce rosso scuro del
crepuscolo conferiva ai paesini lungo il percorso un aspetto surreale, come
incantato. A un tratto, dopo una svolta lungo la via, apparve il cimitero. Si
distendeva al di sotto del livello della strada, per cui ne avevamo una visuale
dall’alto, che ci consentiva di contemplarlo nella sua interezza. Era un
cimitero di campagna, piccolo, raccolto. Davanti a ciascuna tomba c’era un
lumino rosso, e l’insieme delle piccole luci del camposanto formava un chiarore
diffuso che lottava con quella appena più forte del crepuscolo, dandoci
l’impressione della fragilità delle cose che si consumano. Ci fermammo,
scendemmo dall’auto, e rimanemmo seduti per terra a guardare quello spettacolo
incantato. Non ho mai avuto in modo così forte il senso dell’eternità, e al
tempo stesso la percezione della provvisorietà, della bellezza delle cose
sospese. Ogni cosa appariva allo stesso tempo precaria e duratura. Ci sembrava
di ascoltare il canto sommesso di tutte quelle anime, che ci rivelava un
messaggio mesto di speranza. Tutto era così strano».
Irina
raccontava guardando dritta davanti a sé, come se tentasse di recuperare i
ricordi da una remotezza difficilmente accessibile. Le sue parole, tuttavia,
conservavano il nitore delle cose sfavillanti, dei ricordi che restano
custoditi in una sfera privilegiata del cuore, dove vengono preservate le
memorie più importanti e più preziose.Tutto sembrava prezioso. Il cimitero slovacco,
incorniciato dalla luminescenza scarlatta delle tombe e dei loro lumini tutti
uguali, si incastonava nella luce del crepuscolo come un monile sfolgorante in
una cavità sperduta della storia, e Giorgio lo vedeva risplendere nel lento
pomeriggio di ottobre in quella camera romana tanto distante e tanto
malinconica.
«A un certo
punto», continuò Irina, «si spense anche l’ultimo chiarore di quel crepuscolo
infinito, e l’aria rimase illuminata solamente dai lumini del cimitero. Era una
luce vacillante, che faceva tremolare l’atmosfera come se tutto fosse precario.
Sembrava che le anime dei morti ondeggiassero sulla collina e le donassero una
natura estatica, fluttuante, preservandola dal suo destino immobile di
staticità – il destino rigido delle rocce e delle pietre, condiviso con le cose
destinate a durare – e la elevassero alla condizione più alta delle creature
alate, che trascorrono la loro vita più nobile in una zona indecisa, a metà
strada tra la terra e il cielo.
Jozef mi
fece cenno di guardare in alto, e subito levai lo sguardo. Potei distinguere la
sagoma scura di un falco che sorvolava il cimitero proprio in quel momento.
Tracciava una traiettoria lineare, esatta, che tagliava l’aria in maniera
precisa ma impercettibile, come se disegnasse con un righello una linea
tenebrosa sopra un foglio oscuro. Guardai il falco che scompariva rapido nel
buio; poi guardai il cimitero illuminato, e mi sembrò che quella scena fosse il
simbolo di qualcosa, anche se non avrei saputo dire esattamente di cosa. Io e Jozef
ci stringemmo forte la mano, e rimanemmo lì seduti lungo il ciglio della
strada, sperduti in quella immensità. Ci guardammo profondamente negli occhi,
senza dire nulla, pensosi, sconosciuti a tutti, dinanzi alla pace così luminosa
e così compiuta di quel camposanto».
da qui
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