...Si su chelu fit in terra,
che l’aian serradu puru» |
...se il cielo fosse in terra,
avrebbero recintato pure quello» |
La testimonianza di Geraldina Colotti,
giornalista militante impegnata per i diritti del continente latinoamericano.
Il 31 ottobre sarebbe dovuta partire per Cuba con il volo Air Europa per
partecipare al Convegno antimperialista, organizzato dall’Istituto Cubano di
amicizia fra i popoli, ma il volo le è stato negato perché gli indesiderati non
possono neanche sorvolare i cieli sotto dominio degli Stati Uniti.
Ecco l’articolo di Geraldina Colotti
Washington ordina e Madrid s’inchina.
Leggere per credere. Avrei dovuto partire la mattina del 31 ottobre per Cuba,
con il volo Air Europa delle 10,30. Avevo ricevuto un invito dalla Rete degli
intellettuali, artisti e movimenti popolari in difesa dell’umanità, per
partecipare al Convegno antimperialista, organizzato dall’Istituto Cubano di
amicizia fra i popoli, che inizia il 1° dicembre. Avevo fatto il check in
online, e pagato la valigia in più con la carta di credito. Avevo ricevuto la
carta d’imbarco fino a Madrid e prenotato il posto fino a Cuba.
Dopo aver pagato trasporto e imballaggio
dei bagagli, mi dirigo allo sportello. Mi dicono che prima devo pagare il visto
per entrare a Cuba, lo faccio e torno per spedire i bagagli. Solo a quel punto
vedo l’impiegato leggere perplesso la scritta sul monitor: accesso negato.
Nessuno sa spiegarsi perché. Arriva la responsabile, telefona a Madrid. “Deve
chiamare Washington”, le rispondono.
Lei rimane basita, però compone quel
numero. Dopo un certo tempo, le dicono che a Cuba non ci posso andare “perché
gli Stati uniti proteggono le proprie frontiere”. Gli impiegati trasecolano.
Trasecolano anche allo sportello dei visti, ma il foglio della prenotazione
negata che mi faccio dare parla chiaro: “Pax ckin inhibiten by Usa authorities.
Pax Cannot leave”.
Telefono alla mia avvocata. Ci
ricordiamo che era già accaduto a un altro giornalista, attivo nella
solidarietà a Cuba: gli indesiderati non possono neanche sorvolare i cieli
sotto dominio degli Stati Uniti. Sicuramente c’entrano i miei trascorsi
politici di ex guerrigliera, ma questo avrebbe potuto avere un senso se avessi
fatto scalo in Nordamerica. E poi, mi hanno ridato il passaporto e i diritti da
molti anni, esercito la professione di giornalista. Inoltre avrebbero potuto
avvertire prima, al momento del pagamento, della prenotazione eccetera
eccetera.
Intanto, i soldi del biglietto sono
andati in fumo. Impossibile, ormai, presenziare al convegno: con grande
soddisfazione di quanti, anche a sinistra, s’impegnano nel silenziare le voci
scomode. Impossibile cambiare compagnia: tutte quelle che sorvolano i cieli
nordamericani ripeterebbero lo stesso scherzetto. Impossibile anche cambiare
itinerario a meno di non avere il portafoglio pieno.
Quando Washington ordina, l’Europa
s’inchina. Non è successo così con le sanzioni al Venezuela? “E’ gravissimo –
dicono i lavoratori dell’aeroporto. Di questo passo, dove andremo a finire?”
Soprusi e abusi aeroportuali - Pino Cacucci
Alcuni episodi
accaduti recentemente ad amici dello
scrittore testimoniano il livello
paranoico, illegale, inaccettabile delle disposizioni e delle pratiche “anti-terrorismo” disposte dagli
Stati Uniti d’America. Il solo (spesso inevitabile) sorvolo nello spazio aereo
a stelle e strisce espone i più innocenti turisti ad avventure kafkiane. Leggere per credere.
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Leggendo l’articolo “La palla al piede” di San- to
Barezini (“A” 432,
marzo 2019) ho provato scoramento e rabbia: scoramento perché i soprusi inflitti a malcapitati viaggiatori negli aeroporti
statunitensi godono di impunità totale,
rabbia per- ché, pur accumulandosi migliaia
di casi analoghi, in un crescendo di violenza
gratuita e ingiustiftcata, non vedo
montare un “movimento d’opinione” che protesti contro simili crimini.
E mi sono tornate
alla mente diverse
vicende che conosco personalmente, non solo per “sentito dire”.
Per esempio…
A loro insindacabile
giudizio
Il mio amico
R. ha vissuto in Messico
per vent’an- ni, dove faceva il falegname, poi ha deciso
di tornare a Milano,
e nel giro di un anno si è reso conto che non si era
perso granché, al contrario: così
è tornato in Messico
cogliendo al volo l’occasione di costruire
una casa in riva al Paciftco per un altro amico (R. oltre che falegname se la cava
anche come “direttore dei lavori”
afftdandosi a un albañil messicano che, da esperto
muratore, ne sa più di architetti e geo- metri), poi, suo padre
si è aggravato, e R. è tornato ancora una volta in Italia, seguendo
l’agonia del suo vecchio ftno
all’ultimo giorno. Ora,
nulla lo legava più a questo paese desolato. Ha acquistato un al- tro
biglietto, con la British perché
gli permetteva di portare un peso di bagagli superiore alle altre com- pagnie, e ha ftssato
anche il ritorno, di lì a quasi un anno, perché non aveva intenzione di tagliare i ponti
– o bruciare le navi, secondo
l’usanza di Cortés
– e si è imbarcato con l’intenzione di costruire un’altra casa in Messico, stavolta
la sua.
Durante lo scalo a Londra, R. è stato
avvicinato da due energumeni di una supposta
“sicurezza” che gli hanno chiesto le generalità, gli hanno ritirato
il boarding pass, immediatamente stracciato davanti ai suoi occhi,
e trascinandolo verso
il primo aereo
per Milano gli hanno soltanto
detto: “Lei non può sorvolare i cieli degli Stati Uniti”.
Il mio amico R. in Italia
aveva una schedatura come “sovversivo” risalente alla ftne degli
anni set- tanta. Una piccola condanna
per aver ospitato
qual- cuno che avrebbe fatto
meglio a non ospitare, ma si sa,
erano tempi confusi
e oscuri… Di fatto, R. non ha alcuna
pendenza con la giustizia, italiana
e mon- diale, e ne è prova il fatto che
ha viaggiato più
volte da una parte all’altra dell’Atlantico senza problemi. Però… sembra
che da qualche tempo gli Usa abbia- no inasprito le misure
“antiumanità” estendendo a loro
insindacabile arbitrio la sovranità anche
sui cieli che passano sopra
o di lato agli Usa,
e siccome tutti i voli
che dall’Europa vanno
a Città del Messico
seguono rotte
che lambiscono almeno
un pezzo di Florida
o il suo mare…
Dunque, il mio
amico R. non
sapeva più cosa
fare: non ci sono compagnie che gli garantissero di por- tarlo a Città del
Messico senza che venisse seque-
strato
e fatto rimbalzare indietro da gorilla
al servizio degli imperscrutabili capricci della “più grande de- mocrazia del mondo”. Ci ha riprovato, sottoponen- dosi a un interminabile viaggio nel Sud America, in modo da prendere voli che non
sorvolassero gli USA, ma
arrivando a Città del Messico
è stato comunque fermato perché la sua “segnalazione” era arrivata alle autorità aeroportuali messicane. E dopo ore di
fermo in una stanza – dove va detto che è stato
trat- tato con dignità e senza atteggiamenti minacciosi – si sono presentati dei funzionari che gli hanno noti- ftcato quanto segue: il suo nome
compariva in una lista “nera” della
sicurezza statunitense, ma il Mes- sico non
aveva alcun problema nei suoi riguardi, al punto che gli hanno rilasciato un attestato (ftrmato nientemeno che
dai servizi segreti
messicani, il Ci- sen, Centro de Investigación y Seguridad Nacional, che in quelle ore
si era preso
la briga di indagare sul suo
conto) in cui si dichiarava che poteva recarsi
e girare liberamente in Messico senza restrizioni. Ma dato che raggiungere il paese era diventato un cal-
vario (in un viaggio successivo è stato rispedito in- dietro da uno scalo europeo
e ha perso l’importo del biglietto), si è dovuto
rassegnare a vendere
la casa in Messico che nel frattempo aveva costruito perché
non può più tornarci liberamente, malgrado il suo “attestato” ufftciale.
“Sporca ebrea” parola del FBI
Il mio amico D. è un fotografo di fama interna- zionale. Argentino di cultura ebraica, parigino, pe- rennemente in viaggio
in tutti i continenti per il suo lavoro, insomma, un cittadino del mondo che
ogni tanto incontro nei luoghi più disparati, l’ultima volta in Spagna
pochi anni fa,
e prima ancora…
neanche me lo ricordo, lo conosco da tanto tempo
e mi rendo conto che a “casa
sua” non ci sono mai stato, né in quella
di Parigi né in quella
di Buenos Aires,
perché è sempre
per strada che ci riabbracciamo.
La madre di D. aveva
una settantina d’anni
quan- do qualche
anno fa transitava dall’aeroporto di Mia- mi, in Florida. Stava
tornando a Buenos
Aires dopo aver partecipato a una ftera turistica, essendo
lei agente di viaggio, dunque negli Usa ci andava spes- so. Alla
solita traftla di domande – “qualcuno le ha consegnato qualcosa nelle ultime ore? Ha tra i baga-
gli qualcosa che non le appartiene? Ha mai avuto
in- tenzione di attentare alla sicurezza degli Stati Uniti
d’America?” eccetera – la mamma di D.
rispondeva cortesemente, sorridendo tra il divertito e l’imbaraz- zato, perché molte di quelle domande
sono davvero sceme e inutili a qualsiasi ftne
“antiterroristico”.
Ma così va il mondo, in quest’epoca scellerata, e la mamma di D. si
sottoponeva di buon grado all’interrogatorio demenziale, ftnché… estenuata da quell’inftnità di sciocchezze, dopo ripetute richieste di spiegare perché la sua valigia
fosse “così pesante” (conteneva depliant
e fascicoli di agenzie turistiche, e si sa, la carta pesa,
più della cultura
stessa) e cosa potesse essere il misterioso marchingegno segnala- to ai raggi
X (pare si trattasse di un’aspirabriciole
da tavola, regalo scherzoso per qualche ftglio
o ni- pote), la mamma di D., dopo l’ennesima risposta
su depliant e aspirabriciole, forse lasciandosi andare
a un impulso istintivo della
proverbiale ironia ebraica, commettendo comunque
un errore fatale,
sempre con il suo sorriso amichevole rispondeva improvvi- damente: “E cosa vuole
che porti una donna della
mia età nella valigia, una bomba?”.
La scena è mutata nel giro di un istante. L’addetto alla “sicurezza” ha chiamato alcuni agenti dell’FBI, che hanno ammanettato la mamma di D., l’hanno
trascinata in una stanza “segreta”, le hanno cala-
to un cappuccio
nero sulla testa, l’hanno interroga- ta brutalmente – ce n’era
uno che amava
ripeterle “sporca ebrea”, segno
che i neonazi non si sono in- ftltrati solo nell’esercito Usa, come denuncia un’in-
chiesta del Pentagono, ma anche nell’FBI
– e inft- ne, la mamma di D. è stata rinchiusa in un carcere di “massima sicurezza” (tutto,
oggi, è “sicurezza” al massimo livello). Persino Amnesty International e la comunità ebraica
statunitense si sono mobilitate
per farla rilasciare, quando i familiari non sapevano
più dove fosse ftnita: desaparecida per
tre giorni. Nel frattempo, la mamma di D. non
poteva usufruire di un avvocato
perché non aveva con sé il denaro
in contanti per pagare
l’anticipo – sì, funziona così:
i diritti sono garantiti solo per chi ha i contanti per garantirseli subito
– e inftne, l’espulsione.
Da allora la mamma di D. riftuta
di parlare di quei giorni.
Non vuole ricordarli. Il trauma è stato tale che è diventata un’altra
donna: ha perso
l’allegria per cui era conosciuta da parenti e vicini, è tacitur-
na, spenta. L’amico D. mi ha scritto
di sua madre:
«La mia vieja era una tipa gioviale, un misto di rabbino, gaucho e leader sindacale, sempre di buo- numore, generosa
e disposta a sacriftcarsi per dare
una mano. Da allora è diventata un’altra, si è spen- ta, è rimasta traumatizzata dopo quel triste
episodio. Mai, mai ne ha parlato, e tu lo sai, c’è chi riesce a sfogarsi raccontando, mentre altri si rifugiano nel silenzio».
E l’amico
D., già che c’era, mi ha raccontato un altro episodio
della serie “soprusi
aeroportuali in nome
della sicurezza del mondo”.
Un ragazzo di Marsiglia stava sorvolando lo “spa- zio aereo Usa” suo malgrado, diretto altrove, su un velivolo di una compagnia
statunitense, quando ha avuto un attacco di diarrea. Chiuso
a lungo nel ba- gno, una hostess è andata a bussare ripetutamente alla porta. Esasperato per il malessere e l’insistenza
della cameriera-garante della sicurezza, il giovane marsigliese ha avuto la pessima idea
di rispondere alterato: “Lasciatemi cagare
in pace, che cazzo state pensando, che sto innescando una bomba
La parola “bomba”
è sufftciente a rendere questo
scritto immediatamente risucchiato e classiftcato
dai computer di Echelon. A bordo di quell’aereo, è costato al giovane
marsigliese l’immediato atterrag-
gio nell’aeroporto Usa più vicino,
il suo arresto, un interrogatorio “duro”, e l’espulsione (da dove? Lui non voleva
andare negli Usa…).
Nel suo caso,
il sin- daco di Marsiglia gli aveva procurato
un avvocato, e persino
l’allora presidente Chirac aveva rivolto una formale richiesta di spiegazioni al governo Usa.
Nulla di fatto, la diarrea gli
è passata, ma sui cie-
li statunitensi non ci passerà
più. E per andare in America Latina…
Non è dato sapere come
diamine si possa
fare, per i reietti dei
cieli e degli
aeroporti.
Ma
suo fratello era andato a Gaza
Concludo con un episodio
più recente. Il fratello
di un altro mio amico
– cittadino svizzero, in questo caso – che trascorre vari periodi all’anno in Messico,
stava andando
a trovarlo in un viaggio
di vacanza. Ma nello
scalo europeo, prima
di prendere l’aereo per Città del Messico, stessa scena: lo hanno rispe- dito indietro perché non poteva sorvolare i cieli sta- tunitensi. Quale la sua colpa, quali i suoi preceden-
ti? C’è voluto
l’ennesimo avvocato per saperlo (con costi non indifferenti, per giunta, le pratiche con gli USA
costano assai): il fratello del mio amico
si era recato a Gaza, faceva parte di organizzazioni di soli- darietà con il popolo
palestinese e – addirittura! – si era imbarcato sulla
Freedom Flotilla… Dunque,
la schedatura del Mossad israeliano era stata passa- ta alle autorità statunitensi, che per dispetto
gli im- pediscono di recarsi
in Messico. E forse “dispetto” non è il termine adeguato, forse bisognerebbe deft- nirla “rappresaglia”: perché
la sicurezza non c’entra,
come mai potrebbe minacciarla un cittadino svizzero mentre sorvola per pochi
minuti il mare davanti alla Florida entrando
nel Golfo del Messico?
Se ne deduce
che i fantomatici “organismi di sicu-
rezza” statunitensi possiedono le schedature di tutti, per motivazioni politiche, persino di chi 40 anni fa militava nella
sinistra “sovversiva” e ha riportato sep- pur lievi condanne: dai loro archivi
informatici non si esce
mai. Resta la curiosità di sapere quando
e come, un’autorità civile o militare italiana
abbia passato agli Stati Uniti tutti gli schedari degli
anni ‘70.
Sottolineo le “motivazioni politiche”, perché so di vari
casi di persone
che hanno riportato condanne per il reato di “trafftco internazionale di droga” e che,
scontata la pena, possono entrare
liberamente negli Stati Uniti. Ovvio: i narcos sono commercianti, non attentano
alla “sicurezza”…
Zerocalcare, invece, a Kobane, in Siria
Perché dobbiamo
sopportare tutto questo? Semplice: l’arroganza
e lo strapotere statuniten-
si non hanno limiti,
inutile appellarsi o tentare vie legali, loro
agiscono a insindacabile giudizio e non rispondono a nessuno
per i propri comportamenti. E sarebbe comprensibile (anche
se non accettabile) se impedissero così l’entrata
nel proprio territorio, ma come si può tollerare che
impediscano anche la libe- ra circolazione di cittadini senza
carichi pendenti né intenzioni “criminose” in altri paesi
(come il Messico) imponendo il divieto
di volare al di là dell’Atlantico? Infine, ricorderete il caso più recente di Zerocalcare che, invitato dalla Columbia University e dal New York Comicon, è stato respinto all’aeroporto (dopo aver regolarmente ottenuto
il visto e pagato l’impor- to relativo, il colmo) con la motivazione che si era recato a Kobane, cioè
in Siria, esperienze da cui ha poi tratto
la graphic novel Kobane calling. Un essere umano dotato di logica obietterebbe: ma i curdi
di Kobane non sarebbero alleati
degli Stati Uniti nella guerra contro l’Isis?
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