La riforma della prescrizione nei processi penali –
fortemente voluta dal M5S e dal suo ministro alla Giustizia, Alfonso Bonafede –
sta creando grande scompiglio tra i membri della maggioranza giallo-rossa. Che
cos’è la prescrizione? È una causa di estinzione dei reato: quando matura, non
si può più procedere nei confronti della persona accusata di aver commesso il
fatto; e matura quando questa persona non viene giudicata in modo definitivo
entro un determinato periodo di tempo, che varia a seconda del crimine per il
quale si procede.
Secondo Bonafede, la sua riforma deve essere attuata
dal 1 gennaio 2020: da quel giorno il conto alla rovescia della prescrizione
sarà bloccato dopo la sentenza di primo grado, perché in appello e in
Cassazione salterà l’estinzione per eccesso di durata. Tuttavia, siccome non è
ancora stato deciso niente per quel che riguarda l’accelerazione dei tempi dei
processi (notoriamente lunghissimi nel nostro Paese), questi – una volta
bloccata la maturazione della prescrizione – potrebbero durare all’infinito e
un imputato rischia di rimanere tale a vita. Saranno ben 30.000 all’anno i
procedimenti penali che non avranno più scadenza. Ecco l’effetto della
cosiddetta “legge spazzacorrotti”: è stata varata a inizio 2019 dalla
coalizione M5S-Lega, ma con l’efficacia differita di un anno, cosicché è
l’attuale governo a dover fronteggiare la smania giustizialista grillina.
Pd, Italia Viva e Leu non sono favorevoli a questa
sedicente riforma, che appare monca, non essendo accompagnata da una credibile
calibratura dei tempi del processo penale. Si tratta di ottenere una
velocizzazione indispensabile in uno Stato di diritto, sebbene in Italia vari
governi e coalizioni abbiamo provato in questi ultimi decenni a metterci mano.
Con scarsi risultati. Infatti l’estrema durata dei processi in Italia è stata
spesso al centro di ammonimenti e sanzioni milionarie da parte organismi
europei e internazionali.
In base ai dati della Commissione del Consiglio
d’Europa che si occupa dell’efficienza dei sistemi giudiziari, risulta in modo
chiaro che l’Italia sia nelle ultimissime posizioni della classifica. In testa
per l’esasperante lentezza ci sono la giustizia civile e amministrativa, mentre
quella penale è in teoria il settore più rapido della giustizia italiana: un
processo che attraversi tutti e tre i gradi di giudizio dura in media 3 anni e
9 mesi, però siamo comunque tra i peggiori. Nonostante tutto, i 5Stelle e il
ministro Bonafede insistono nello stare in groppa a questo loro cavallo di
battaglia, senza porsi in alcun modo un problema: ammesso e non concesso che
sia opportuno bloccare la prescrizione penale, bisognerebbe prima creare le
condizioni per cui i palazzi di giustizia italiani possano lavorare con tempi
meno allucinanti, garantendo finanziamenti, mezzi e personale.
Però, come è noto, la smania purificatrice dei
pentastellati (soprattutto quando i processi non riguardano i loro esponenti)
non è facilmente sedabile; cosicché il Movimento non intende ascoltare gli
attuali alleati e, ovviamente, ancora meno le opposizioni (inclusa la Lega, che
ha votato a favore della riforma ai tempi dell’alleanza con il M5S e ora finge
di non ricordarsene). L’ultima proposta del Pd consiste nell’indicare i tempi
massimi di durata dei processi nelle varie fasi; in caso di superamento, la
prescrizione ripartirebbe. Qualcosa di molto simile a quello che prevedeva la
riforma dell’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando, cancellata –
polemicamente – proprio da Bonafede.
Nell’attesa, qualcuno potrebbe ricordare all’attuale
ministro che l’articolo 111 della Costituzione impone di assicurare “la
ragionevole durata” dei processi. La pretesa di farli diventare eterni in nome
della propaganda populista, senza avere alcuna idea sugli strumenti e i soldi
necessari per rendere i processi più rapidi, dimostra quanta incosapevolezza ci
sia – in casa pentastellata – a proposito del rapporto tra decoroso
funzionamento della giustizia e credibilità di un sistema democratico.
Questa vicenda ricorda un caso accaduto, su un altro
fronte, nella Pianura padana tra Piemonte e Lombardia alla fine degli anni
Ottanta: i pesticidi usati in agricoltura inquinarono la falda freatica,
superando i limiti di contaminazione previsti dalla legge e rendendo necessaria
la chiusura degli acquedotti; più 500.000 persone furono rifornite con le
autobotti per un po’, finché qualcuno ebbe la brillante idea di innalzare per
legge il livello dei contaminanti. Risultato: l’acqua ridiventò “potabile” per
decreto, senza bisogno di risanare gli acquedotti. Ora si pensa di spazzare via
i corrotti e i criminali, veri o presunti, avvelenando i pozzi della giustizia
con i “processi a vita”, piuttosto che risanando l’arrugginita macchina
giudiziaria.
Nessun commento:
Posta un commento