Inchiesta / In provincia di Cuneo è
terminata anche quest’anno la raccolta: 450mila tonnellate di frutta raccolte
da 40mila braccianti, la maggioranza dei quali africani. Una realtà ricca
produce accampamenti, caporalato, proteste e repressione. Perché?
I frutteti della provincia di Cuneo
producono oltre 450mila tonnellate l’anno. Sul bancone del fresco di un
supermercato, tuttavia, trovo pesche dalla Spagna, kiwi dal Cile, pere da
Sudafrica e Argentina.
Siamo nel cuore del Piemonte agricolo,
l’antico marchesato di Saluzzo: secondo alcuni la “Rosarno del Nord”, per altri
un distretto in crisi per colpa della concorrenza spagnola e dei supermercati
tedeschi. Con export verso tutta Europa settentrionale
e aziende che fatturano fino a 124 milioni l’anno, l’agricoltura del cuneese
non è certo povera.
Proprio per questo ha fatto scalpore
l’inchiesta “Momo”, un’indagine che risale allo scorso luglio e che ha
certificato l’esistenza del caporalato in Piemonte. Aziende importanti sono
finite sotto processo. Subito dopo, una lunga serie di controlli nei campi ha
fatto emergere irregolarità in serie. Le ultime ispezioni risalgono a qualche
giorno fa, con la raccolta ormai alle ultime battute.
La solita indifferenza
«La signoria vostra è multata per la
solita indifferenza mostrata rispetto ai migranti che raccolgono la frutta». Il
2 settembre, giorno dell’evento più atteso dell’anno, la fiera agricola, i
cittadini che parcheggiavano nello spiazzo del Foro Boario, trovavano sul
parabrezza un’insolita multa. Nei dintorni, un volantino altrettanto anonimo
denunciava: «Frutta della Granda: manodopera sottopagata, solo 3,50 l’ora».
Coldiretti Cuneo reagiva con una denuncia per diffamazione contro ignoti. «Non
si scherza con il futuro di migliaia di imprese e di lavoratori», hanno
sintetizzato.
I produttori sono piuttosto nervosi.
Lamentano una crisi che ha due volti: pagamenti sottocosto e concorrenza
globale. I colpevoli sarebbero tedeschi e spagnoli. I supermercati in Germania
pagherebbero la frutta meno del valore reale. Fanno valere la loro posizione
forte: i banconi tedeschi sono contesi tra ditte italiane, greche, turche,
sudafricane. Per cui inseriscono spesso prodotti sottopagati tra le offerte
civetta, quelle dei volantini pensati per attirare i consumatori attenti al
risparmio.
Le aziende spagnole, dal canto loro,
invadono il mercato con prodotti di qualità discutibile ma dai prezzi
concorrenziali. Sono diventate una superpotenza dell’ortofrutta, grazie al
lavoro migrante, all’organizzazione commerciale e al supporto del governo.
I contadini piemontesi, invece, parlano
di controlli eccessivi, disciplinari troppo rigidi e norme sulla sicurezza
alimentare. Limitazioni giuste, dicono, ma che dovrebbero essere estese anche
ai loro concorrenti. E poi c’è il costo del lavoro. Un sito specializzato
spiega che in Spagna il lavoro a norma costa 8,2 euro l’ora, in Italia 12. Ma
al bracciante rimangono più soldi in tasca nel caso spagnolo: sette euro contro
i sei che intasca lavorando nei nostri confini. Quando è tutto in regola, si
intende.
I supermercati tedeschi fanno valere la
loro posizione dominante. Le imprese spagnole sono diventate una potenza
dell’ortofrutta. I produttori piemontesi si trovano in mezzo.
In realtà in questo gioco non ci sono
buoni e cattivi. È un gigantesco “risiko” dove è facile vincere o perdere. «La
GDO non dovrebbe pagare il prezzo più basso, altrimenti facciamo il giro del
mondo a chi sfrutta di più», dice Debora Borghino, una coltivatrice che ha
sottratto l’azienda di famiglia al gioco al massacro della concorrenza globale.
Adesso si mantiene con i piccoli mercati locali, come quello della rete
“Genuino Clandestino”.
Non è così per i suoi colleghi. Se prima
i contadini temevano soltanto il meteo, oggi sono preoccupati anche dalla
geopolitica. Dazi appena introdotti o nuove aree di libero scambio possono
cambiare le carte in tavola, così come un embargo, per esempio quello imposto
da anni alla Russia. Sono temi di cui si discute più in campagna che nelle
città e che rivelano cosa è diventata l’agricoltura: un pezzo dell’economia
globale, ma che risente della politica globale.
Così i produttori vivono di paure. I
timori sono infiniti: una gelata, prezzi di vendita troppo bassi, attese troppo
lunghe prima di incassare, dopo aver speso e investito per mesi. Ma non è
difficile immaginare chi pagherà i loro timori. I braccianti sono l’ultimo
anello, ma anche un esercito flessibile “reattivo” rispetto ai picchi della
raccolta. Ma che non deve rivendicare diritti.
Il paradosso
«A fronte di una richiesta di circa
10000 stagionali, il sistema dei flussi ha fornito quest’anno solo 1200
lavoratori», annota su Facebook il sindaco Mauro Calderoni. «Oltre il 40% dei
lavoratori impiegati nella frutticultura del saluzzese è ormai di origine
africana. Ma 18mila ettari di frutta hanno bisogno di un sistema organizzato e
gestibile di reperimento della manodopera».
Il sindaco denuncia un paradosso. I
“flussi di lavoratori” non sono coordinati su scala nazionale, ma neppure al
livello regionale. Così in Emilia o Veneto c’è carenza di manodopera, mentre a
Saluzzo si accampano centinaia di africani nella speranza di un ingaggio. Il
reclutamento avviene spesso porta a porta o con metodi fai da te. I costi
sociali sono scaricati dal livello aziendale a quello pubblico.
Basta arrivare nello spiazzo del Foro
Boario per averne una prova. Decine di braccianti africani accampati si
contendono un posto letto al Pas, il centro di accoglienza messo su anche
quest’anno per dare una risposta a un’emergenza paradossale, quella di
lavoratori che non riescono ad avere un letto.
Sono africani già presenti in Italia e
che hanno lavorato nel Sud. Gente che non è sicura di trovare un ingaggio ma sa
che, nei picchi della raccolta, le aziende potrebbero avere bisogno immediato
di loro. E così ogni anno – a partire da maggio – centinaia di braccianti
stranieri arrivano nella zona, attirati dal passaparola tra connazionali. Si
dividono in tre categorie: persone appena arrivate in possesso di permesso
umanitario; lavoratori ricacciati nelle campagne dalla crisi, magari ieri
operai in fabbrica e oggi braccianti per necessità. Infine i professionisti
delle raccolte agricole, impegnati in un circuito stagionale da un angolo
all’altro della Penisola. Questa categoria sta diventando sempre più “europea”,
perché in tanti cercano lavoro in Francia e soprattutto in Spagna. Ma poi sono
costretti a tornare in Italia per il rinnovo dei documenti.
Due maliani, per esempio, mi dicono di
essere stati nei Paesi Baschi, parlano già spagnolo e sono soddisfatti delle
condizioni di lavoro che hanno trovato. Ma sono bloccati in Italia, costretti a
tornare per seguire le pratiche dei ricorsi ai Tribunali o dei rinnovi dei
permessi nelle questure più improbabili, dall’Abruzzo alla Calabria. In
pratica, quando sono sbarcati li hanno trasferiti negli hotspot, grandi centri
di smistamento e poi nei centri di accoglienza di tutta Italia. Qui hanno fatto
richiesta d’asilo e sono rimasti incastrati alla Questura di competenza.
A luglio, stanchi di aspettare un posto
letto sotto i frequenti temporali, un gruppo di africani ha manifestato per
chiedere l’apertura di un capannone che rimaneva chiuso di fronte al Pas. Dopo
qualche settimana, la Questura individuava i promotori della manifestazione.
Cinque africani hanno ricevuto un foglio di via obbligatorio. Uno di loro si è
visto notificare un provvedimento di espulsione.
Chi oserà protestare, la prossima volta,
se a una richiesta legittima si risponde con provvedimenti di polizia?
Momo
«Me ne servono subito altri quattro. Fai
in fretta. Tra dieci minuti passo con il furgone a prenderli». Lo scorso maggio
la Procura di Cuneo avviava l’operazione Momo, un vero spartiacque in un
territorio in cui si negava l’esistenza del caporalato (“Non siamo a Rosarno”,
dicevano in tanti).
«L’inchiesta dimostra che il fenomeno
nella zona è consolidato», dichiarava in conferenza stampa il procuratore
Onelio Dodero. Un giro di braccianti contattati via telefono o chat di
Whatsapp, con l’ordine di presentarsi al lavoro dopo pochi minuti. Anche di
notte.
Il bilancio finale racconta di
diciannove lavoratori schiavizzati, tre fermati, due imprenditori italiani
coinvolti. Cinque euro di paga oraria, da cui sottrarre i costi per il caporale
e quelli per vitto e alloggio. Sette giorni su sette e fino a dieci ore al
giorno, senza protezioni nonostante il lavoro con i muletti nei magazzini e i
pesticidi nei campi.
A chiusura di ogni finto contratto
regolare ai lavoratori venivano versati 50 euro, da restituire con l’ingaggio
successivo. In caso di controlli, venivano consegnati “pizzini” per mentire su
ore lavorate e giorni di assunzione.
Da allora i controlli si sono
intensificati, fino all’ultimo datato 27 settembre. Da Saluzzo a Revello,
durante i controlli in 40 aziende, i carabinieri hanno trovato quattro
braccianti africani che lavoravano senza un regolare contratto. Uno di questi,
irregolare, ha mostrato un permesso di soggiorno e un contratto di lavoro
intestato a un suo connazionale, in quel momento assente. Sotterfugi dei
padroni cose che di solito si vedono al Sud. Ma quando la filiera ha la stessa
struttura, quando il potere dell’economia sugli esseri umani prevale, uguali
sono anche le conseguenze.
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