Remo Bodei era
una specie in via d’estinzione. Altro che i tecnocrati di oggi - Marcello Barison
Per la mia generazione i nomi della filosofia italiana – quelli che, per intenderci, a
vent’anni si “andava a sentire” – non sono poi moltissimi (e non me ne voglia
chi tralascerò): Emanuele Severino, Massimo Cacciari, Gianni Vattimo, Vincenzo
Vitiello, Carlo Sini, Giulio Giorello, Umberto Curi, Roberto Esposito e,
certamente, Remo Bodei. Non c’era festival o
convegno dove qualcuno di loro non comparisse: un fenomeno molto italiano,
indulgente a un presenzialismo dall’esito talora un po’ parodico, ma comunque
significativo per inquadrare il rapporto tra filosofia e divulgazione in un
mondo, quello dopo la caduta del Muro, in cui gli “intellettuali”, per
illudersi di giocare ancora un ruolo, hanno dovuto aggiornare il loro profilo
da engagé a pop o
simil-pop.
Così, raggiuntami la notizia della morte di Bodei, mi ha colto una strana malinconia,
legata non tanto al suo lascito “speculativo”, ma al prendere coscienza che una
figura che in qualche modo ha accompagnato anche il mio percorso di studio e di
ricerca è venuta meno. Era abituale che ci fosse, che, con certa frequenza,
uscisse un suo libro, o che, di tanto in tanto (magari a distanza di qualche
anno), capitasse una conversazione o un incontro, da una parte o dall’altra del
globo.
Sulla biografia filosofica di Remo Bodei
molto in questi giorni è stato scritto. Anziché sondare da diversa prospettiva
i territori, vari e amplissimi, delle sapienti divagazioni di cui era maestro,
preferirei allora tentare, in poche battute, un ritratto
qualitativo – dunque né dossografico né bibliografico – del suo
tipo intellettuale: la figura di un laico chierico globale,
enciclopedico ma con disinvolta sobrietà, dotato di conoscenze accuratissime
quanto straordinariamente estese, e di una memoria prodigiosa, la cui
monumentale erudizione era soggetta a un ridimensionamento continuo operato
dall’immancabile ironia che, anch’essa spesso
su base aneddotica, fungeva da corrosivo delle proprie stesse affermazioni.
Come a smitizzarle per far intendere che, nella matassa dei nessi, c’erano
sempre altre strade da percorrere, altre suggestioni da seguire, affini ma
anche dissimili da quelle già evocate.
Per tutte queste caratteristiche, il nome
di Bodei è sinonimo di instancabile curiosità e di
quella che un tempo si sarebbe detta cultura. Parola
oggi quasi impronunciabile poiché da un lato disprezzata con orgoglio da tutti
quelli che non ce l’hanno e dall’altra espunta da una classe universitaria
di tecnocrati variamente digiuni di nozioni
elementari, i quali, presi come sono a affastellare paper e pubblicazioni di nessun interesse, hanno
orgogliosamente abolito la figura dell’intellettuale novecentesco,
rimpiazzandola con quella di impiegati del sapere che farebbero fatica a fare
una lezione su un tema anche poco distante da quello del loro Ph.D.
Mentre invece personalità come Bodei erano
in grado di confrontarsi con gli specialisti di qualsiasi argomento
(nell’ambito delle “scienze dello spirito“, beninteso)
dimostrando in ogni campo di avere idee più precise e penetranti dei presunti
“esperti”. Perché il suo habitus mentale,
che a un’assidua disciplina nello studio affiancava la passione per
l’intelligenza in tutte le sue epifanie, si basava sull’assunto – oggi
incomprensibile ai più – che conoscere a memoria la Divina Commedia incrementa in modo fondamentale la
nostra capacità di capire l’epistemologia di Paul Dirac, le tre
critiche kantiane, i Moralia di Plutarco o i romanzi di Henry James.
O che la conoscenza delle lingue classiche è un prerequisito essenziale per
poter anche solo pensare di dire qualcosa di sensato in filosofia (anche se si
sta scrivendo un libro sul design o sulla
teoria contemporanea dell’informazione). Affermazioni, queste, che basterebbero
oggi per far licenziare in tronco interi Dipartimenti per manifesta
incompetenza.
L’intellettuale onnivoro, che ha passato decenni sui libri,
frequentando indifferentemente musei, cinema o sale da concerto, o magari
esplorando città e che non ha mai saputo perdere davvero tempo – perché tutto,
nella sua vita, è stato un “enorme esperimento volto alla conoscenza”, dunque
all’assimilazione e all’espressione -, questo peculiare tipo d’uomo la cui vita
ha anzitutto – ma con la debita mitezza – la forma del sapere, è del tutto
in via d’estinzione.
E viene anzi guardato con diffidenza, e
non di rado sufficienza, da più o meno giovani schiere di “studiosi” col
curriculum inappuntabile che, a chiederglielo, non saprebbero nemmeno dire la
data della presa di Costantinopoli o
che cosa sia la Dottrina Monroe. Il miglior modo di
rendere onore a figure come quella di Bodei sarebbe lottare perché il tipo di
desiderio che ha incarnato continui a vivere e
ad avere un suo legittimo posto nel mondo.
Ogni volta che s’incontrava Remo Bodei si
aveva la certezza che si sarebbe imparato qualcosa di
nuovo. Che ci si sarebbe infilati nella prima libreria a cercare un titolo, o
dritti a casa a colmare una lacuna di cui sotto sotto c’era da vergognarsi.
Quanti, oggi, nel mondo universitario condividono queste urgenze o almeno
capiscono di cosa si stia parlando?
Remo Bodei ha lasciato andare la gomena della vita - Francesca
Rigotti
Ogni tanto
lo si incontrava a festival e congressi filosofici un po' ammaccato; una volta
zoppicava un po', un'altra aveva un braccio al collo; ognuno sarebbe rimasto a
casa, invece Remo no. Se Remo Bodei aveva preso un impegno, lo rispettava fino
in fondo, appena possibile: «Sono coriaceo», diceva di sé, da bravo stoico;
coriaceo come la suola di una vecchia scarpa. Ma questa volta non ce l'ha fatta
neanche lui e se ne è andato e ci ha lasciato tutti orfani, filosofi e no.
Soprattutto i non filosofi, perché più di ogni altro Bodei era riuscito a
portare la filosofia nelle strade e nelle piazze, come Socrate. E l'aveva fatto
con quell'invenzione geniale che fu, anche nel nome, il Festival della
Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo, così che dal 2001 strade e piazze e
chiese e palazzi di quei luoghi ospitano le migliaia di persone che dedicano
anche soltanto un poco del loro tempo alla riflessione filosofica. Viene allora
da chiedersi: ma veramente anche tutte quelle persone che sono state sedute su
quelle migliaia di sedie di plastica nella piazza Grande di Modena infuocata
dal sole, o nella immensa spianata di Carpi in nome di Socrate, Kant e Arendt,
opteranno per il verbo pupulista, sovranista, primanostrista, mettendo il loro
voto nelle mani dei promotori della chiusura, della discriminazione e
dell'odio?
Tra le tante
altre aree di interesse, Bodei si è occupato anche delle passioni: passioni
calde come l'ira, bollente, furiosa, rossa. E passioni tristi come l'odio,
gelido e calcolato, alimentato e accudito costantemente. L'odio fa parte di
quelle «passioni tristi» di cui parla Spinoza, il grande filosofo olandese del
'600, le quali, insieme all'invidia e all'avarizia, deprimono la nostra voglia
di vivere. L'odio è una passione individuale pronta a trasformarsi in
sentimento collettivo, addirittura in collante sociale nel momento in cui viene
a coinvolgere varie persone e gruppi. Si tratta di un fenomeno ben noto e sul
quale hanno giocato nei secoli ogni sorta di trascinatori di masse, proprio
perché è molto più facile tenere insieme la gente «contro» qualcuno o qualcosa
che a suo favore; l'odio rinsalda i sentimenti di solidarietà e appartenenza,
trasformando «noi» nei buoni e «loro» nei cattivi. Contro di loro viene
sviluppato l'odio nei confronti dell'altro che unisce e motiva, muove e stimola
i noi. Non permettiamo che l'odio prevalga, quell'odio che in tanti casi ha
portato al dominio cui è dedicato, et pour cause, l'ultimo libro di Bodei.
Dominio
Dominio
degli uomini su altri uomini; degli uomini sugli animali; dei maschi sulle
femmine; degli uomini sulle macchine e, nel gran finale aperto, di noi sui
robot o dei robot su di noi. Il dominio di alcuni e la sottomissione di altri è
il filo rosso, il motivo conduttore – ma di motivi ce ne sono tanti altri – del
grandioso affresco tracciato da Remo Bodei in questo libro a più piani: Dominio
e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, Bologna,
il Mulino, 2019, pp. 408, in cui si analizzano il passato e la storia
congiungendoli col nostro presente fugace e con il futuro dell'attesa, del
timore, dell'imprevedibilità.
Bodei è
autore i cui interessi, partiti da solidi studi sulla filosofia idealistica
tedesca, si sono man mano estesi, con studi non meno solidi, verso la filosofia
della tarda antichità (Agostino), verso l'estetica, la teoria e storia della
scienza e della tecnica, dell'oblio, dell'individualità, della natura delle
passioni (l'ira!) e della coscienza, incluso il fenomeno del déjà vu. Senza
dimenticare le analisi del mondo delle cose con la sua pluralità di sensi e
significati. E man mano che l'orizzonte di Bodei si allargava, crescebat
eundo, si offriva agli occhi del lettore la comprensione e interpretazione
del mondo a noi contemporaneo in cui è bello inoltrarsi avendo come guida le
parole del filosofo. Molte delle opere di Bodei poi, più che procedere
inanellandosi, sembrano uscire l'una dall'altra come Eva dalla costola di
Adamo, per poi acquistare vita autonoma e indipendente. Spero di non sbagliarmi
facendo nascere Dominio soprattutto da Immaginare
altre vite. Realtà, progetti, desideri (Milano, Feltrinelli, 2013), dove
Bodei disegnava la grande mappa dei nostri paesaggi interiori, distendendocela
davanti in modo tale da permettere a noi di capire dove siamo e renderci conto
dei problemi e delle tematiche dell'oggi osservate da un punto di vista
filosofico.
Un Bodei
quasi arendtiano
In questo
testo sono comunque il concetto e la pratica del dominio a tener campo, senza
però che il sistema del dominio, in cui alcuni detentori del potere comandano e
altri sono comandati e sottomessi, diventi il modo «naturale» di pensare e
agire degli umani che stanno insieme politicamente. Un Bodei quasi arendtiano
dunque, se per Hannah Arendt politica è esperienza di un potere diffuso,
partecipativo, relazionale, plurale; se essere liberi nella polis è essere
liberi dalla diseguaglianza connessa a ogni tipo di dominio; se, per una Arendt
quasi anarchica, è esperire la politica come interagire plurale in uno spazio
pubblico condiviso. Un Bodei dunque che mi pare non condividere l'idea del
vivere insieme come inesorabilmente e necessariamente determinato dal modo in
cui si domina, si esercita il potere, si governa. Tant'è che il filosofo mette
in dubbio il dogma antropologico dell'impossibilità di uscire dall'aggressività
congenita al genere umano, la Menschheit priva di Humanität sostenuta
da Sigmund Freud, Elias Canetti e Konrad Lorenz, ma anche da Oriana Fallaci e
James Hillman. Quello di Bodei è piuttosto uno sforzo di comprendere come sia
(stato) possibile che esseri umani abbiano trasformato altri esseri umani in
schiavi costretti a lavorare in condizioni disumane, o a far vivere lavoratori
salariati in condizioni di quasi schiavitù. L'analisi della condizione degli
indios dell'America spagnola, ridotti sistematicamente e di fatto in schiavitù
già poco dopo i viaggi di Colombo, mette di fronte a torture inimmaginabili, a
comportamenti crudelissimi spiegabili, se l'orrorismo si può spiegare, con il
disprezzo nei confronti di coloro cui veniva negata una umanità pari a quella
dei cattolicissimi bianchi spagnoli, i «nostri» che allora si pensava di
mettere prima. Che inoltre il malgoverno predatorio istaurato dagli spagnoli
nel Nuovo Mondo e diretto a saziare la loro maledetta fame d'oro, alla quale
vengono subordinati tutti gli altri valori politici o religiosi ufficialmente
professati, sia una specie di apriori – ipotizza Bodei – che continua a
perseguitare con la corruzione e il malgoverno endemici il destino degli Stati
latino-americani?
Il peso di
Aristotele
Tornando
alla messa in schiavitù degli indios e dei neri africani trasportati nelle
Americhe (si calcola tra i 12 e i 17 milioni di individui), e alle
giustificazioni che si davano conquistadores e negrieri, ma anche la brava
gente normale, vi intervenne certo il peso determinante della visione
aristotelica della schiavitù e della inferiorità naturale, che andò così a
influire sulle vicende di molti milioni di uomini e di donne, giacché «è nella
natura delle cose che il superiore comandi l'inferiore» (e poi si dice che la
filosofia non conta niente). Così come influirono sull'idea che la schiavitù
vada accettata le dottrine di illustri pensatori cristiani, da Paolo di Tarso a
Agostino a Tommaso d'Aquino.
Fu tuttavia
proprio anche il confronto filosofico, teologico e politico del '500 spagnolo a
riscattare gli indios dalla loro condizione di schiavitù, scrivendo il
certificato di nascita delle moderne teorie dei diritti umani – nella lettura
di Bodei che leggermente si discosta da chi attribuisce la paternità di tali
teorie alla reazione alle guerre di religione seguite in Europa alla Riforma
luterana. In ogni caso i diritti umani sono qui presentati non come valori
astratti dotati di un fondamento naturalistico ma, in concordanza con la
interpretazione di Norberto Bobbio, quali esigenze e rivendicazioni storiche
che finiscono alla fine per favorire tutti i membri della società.
Ancora
Aristotele è il punto di partenza per introdurre il tema delle macchine e del
loro funzionamento e la relazione con il lavoro umano di tipo schiavistico,
spiega Bodei in questo testo che è ricostruzione e narrazione storica così come
analisi concettuale, genealogia così come costruzione. Se le macchine
funzionassero da sole – scrive Aristotele nella Politica [I,
4, 1253b-1254a] – e gli strumenti si muovessero in maniera
automatica, non ci sarebbe bisogno di schiavi perché strumenti e macchine
diventerebbero i nostri schiavi. Già Cratete di Atene, comico della generazione
precedente a quella di Aristofane, scrisse nelle Bestie, che un
giorno gli utensili si avvicineranno a noi al solo chiamarli, e il pane si
impasterà da solo, il pesce si autoarrostirà sulla piastra, l'acquedotto
porterà l'acqua calda e «il vasetto di sapone verrà da solo all'istante, così come
la spugna e i sandali!» (p. 79).
Il dominio
delle macchine
Se poi i
nuovi strumenti-schiavi si ribelleranno, essendo riusciti a sviluppare oltre
all'intelligenza anche la volontà in quel futuro a detta di alcuni imminente in
cui si sia raggiunta (sic) la singolarità, è l'utopia/distopia con la quale ci
troviamo oggi confrontati. Saranno le macchine, saranno i robot che, avendo
assorbito intelligenza e volontà e non più coadiuvando bensì sostituendo
l'essere umano, eserciteranno il dominio su di noi e faranno diventare noi i
nuovi schiavi controllando il movimento i nostri corpi, in sintonia con la
spiegazione di Tommaso d'Aquino, per il quale il corpo dello schiavo viene
manovrato dal padrone? Saremo liberi di non obbedire? O le macchine ci renderanno
schiavi anche soltanto sottraendoci le attività lavorative per consegnarci ai
secoli di noia del tempo liberato dal lavoro e della fine della storia, guidati
e accuditi e deresponsabilizzati quali infanti?
Al tempo è
dedicata la quinta e ultima parte del libro di Bodei, come una conclusione del
lavoro: in particolare alle sue tre classiche e fondamentali dimensioni,
presente, passato e futuro, tutte da rispettare e comprendere giacché «la vista
acquista maggiore pienezza solo se le tre dimensioni sono – per quanto è
possibile – armonicamente intrecciate tra loro» (p. 398).
Intrecciare
e srotolare la gomena
Bodei
propone di srotolare il passato mantenendone memoria, per ricongiungerlo al
presente e proiettarlo sul futuro. Come se il tempo – il paragone è di un
antico stoico – fosse una gomena le cui fibre formano una serie di intrecci non
lineari che si avviluppano in una «successione relativamente coerente pur nelle
sue torsioni» (p. 379). Non può non venire in mente la fune di Wittgenstein –
autore oggi ingiustamente poco frequentato – che nelle Ricerche
filosofiche [I, 67] descrive il formarsi di una «famiglia» di concetti
(es. di numeri) attraverso le sue somiglianze, in virtù dell'intreccio di fibra
su fibra: «La robustezza del filo non è data dal fatto che una fibra corre per
tutta la sua lunghezza, ma dal sovrapporsi di molte fibre […] Un qualcosa
percorre tutto il filo, cioè l'ininterrotto sovrapporsi di queste fibre».
I fili della
gomena di Bodei ritornano qui ma per diventare i rapporti con noi stessi e gli
altri, che formano la nostra personalità, tanto più robusta «quanti più fili
sarà riuscita a intrecciare e quanto meglio sarà stata capace di annodarli» (p.
391). Semplici esercizi di ricomposizione della mente e dell'animo,
rivalutazioni del silenzio, del buio e della «vita semplice», di Diogene nella
botte e di Greta nella barca. È lo svolgere il filo della continuità della vita
di ciascuno, della navigatio vitae, dove è cosa saggia lanciare
talvolta la gomena legata all'ancora e far ormeggiare il pensiero e l'attività
frenetica per esercitare pause di riflessione, fermandoci ogni tanto a meditare
sulla vita. E a pensare a come azzerare le condizioni del dominio che rischia
di dimezzare il mondo in ricchi annoiati e poveri disperati e schiavizzati.
dice Remo Bodei:
Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media.
Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria
esistenza. (citato in Corriere della sera, 16 gennaio 2009, da qui)
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