Come ti stravolgo la scuola. L’esame di Stato come sintomo del «sistema» -
Claudio Belloni
Da decenni
chi ha potere decisionale nella scuola inneggia all’“interdisciplinarietà”, e
quest’anno l’esame di Stato – da tempo non è più di “maturità” (le parole sono
importanti) – ha messo al centro della valutazione proprio questa “competenza”
(altra parola chiave del sistema ideologico che governa la scuola).
Il nostro
presidente di commissione – dopo aver partecipato alla riunione in cui i
presidenti ricevono dal provveditorato le indicazioni sulla conduzione
dell’esame (e quest’anno anche la retta interpretazione di una normativa quanto
meno confusa) – ci ha riferito:
1) l’orale
non è più un’interrogazione, ma un “colloquio”. I contenuti sono già stati
valutati dal consiglio di classe, dunque la commissione non deve valutare le
conoscenze, ma la capacità del candidato di spaziare da una disciplina
all’altra a partire dal contenuto della busta estratta;
2) per lo
stesso motivo non si possono fare domande, ma si deve valorizzare il candidato
lasciandolo parlare senza interrompere o interferire più di tanto;
3) il
colloquio ideale è quello in cui il candidato, da solo, riesce a trovare
collegamenti tra un argomento e l’altro tra le varie discipline. Per questo
motivo il documento contenuto nella busta da cui parte il colloquio deve essere
comprensibile immediatamente da chiunque e deve anche favorire, appunto, i
collegamenti tra le varie discipline. Ciò ha fatto sì che noi commissari siamo
stati costretti ad anticipare fin dalla scelta dei documenti quel gioco idiota
del passaggio pretestuoso da una disciplina all’altra con salti mortali
vergognosi. Cercando di immaginare quali associazioni libere avrebbe potuto
fare il candidato abbiamo dovuto aprire la strada allo stream of
consciousness;
4) alzare i
voti e cercare di dare il maggior numero possibile di 100, se possibile con la
lode. Dunque quelli bravi non vanno giudicati troppo severamente ma valorizzati
fin dalla correzione degli scritti. Motivo: in Puglia (sic!) danno un
sacco di 100 e di 100 e lode.
I
volenterosi carnefici della scuola
Il legame
balordo tra calcolo infinitesimale e l’Infinito di Leopardi, ad
esempio, può risultare un ottimo collegamento! Ho visto passare dal CLN
(Comitato di Liberazione Nazionale) alla “resistenza” di un circuito elettrico,
dall’imperialismo in Africa alla deriva dei continenti, dal passero solitario
alla spiegazione del motivo fisico per cui i passeri sul filo dell’alta
tensione non vengono arrostiti dalla corrente elettrica. So che è difficile da
credere, ma io c’ero. E se non riescono loro (gli studenti) a inventare questi
collegamenti geniali siamo spinti a farlo noi per loro: per condurre in modo
naturale (?) il colloquio verso nuovi temi e materie e, soprattutto, “per metterli
a loro agio”. Quando il candidato si arenava dopo aver parlato di un argomento,
a qualcuno di noi toccava chiedere: Cos’altro ti fa venire in mente lo stile di
Ungaretti di cui stavi parlando? O la dialettica hegeliana? O la fissione
nucleare? La bomba atomica! Bene, bravo: parlacene! Così, se il candidato è un
po’ sveglio, la domanda se la fa da solo e noi rispettiamo le indicazioni
ministeriali.
Se la
tendenza verrà confermata e consolidata dalle nostre autorità, assisteremo nei
prossimi anni al dispiegamento di una competenza che lo studente sicuramente
possiede: la capacità di adattamento e assestamento al ribasso. Sarà
sufficiente studiare un solo argomento per ogni materia e farsi venire in mente
proprio quello nella sequenza prestabilita per affrontare un brillante
colloquio d’esame. Del resto siamo spinti ad essere tutti imprenditori di noi
stessi e spopolano i consigli e le guide per far bella figura a un colloquio di
lavoro. Perché non cominciare prima?
Ho lavorato
in due commissioni diverse con due quinte diverse. Risultati: dopo un inizio
incerto abbiamo fatto più o meno come negli anni scorsi e non abbiamo dato più
di 94. Ma siamo insegnanti irrimediabilmente vecchi che si ostinano a valutare
i contenuti nonostante le indicazioni ricevute… fin che ce lo lasciano fare.
Questi pochi
squarci sulla deriva cui è stato sottoposto l’esame sono coerenti con la
politica generale della scuola degli ultimi decenni. Lo svilimento del senso
critico e la noncuranza per una solida formazione hanno origine nell’alto dei
cieli del potere, ma, mi piange il cuore ammetterlo, le direttive ministeriali
trovano uno stuolo di volenterosi esecutori: quasi tutti i presidi (istruiti a
obbedire e a trasmettere direttive, e incentivati anche economicamente a farlo
con zelo sempre maggiore) e un certo numero di insegnanti collaborazionisti.
Persino tra noi, che dovremmo essere un gruppo umano relativamente colto e
critico, taluni si bevono tutte le nuove riforme, parole d’ordine, linee
pedagogiche e ogni fuffa metodologica, pronti a cambiare parola d’ordine col
governo successivo. Mostrarsi zelanti ai dirigenti scolastici per costoro è un
istinto innato, ed ecco i volenterosi carnefici della scuola, quelli che fanno
i corsi di aggiornamento e poi imperversano sui colleghi, fanatici più realisti
del re.
Personalmente
cerco di resistere a questa deriva. Il problema è che le mie discipline (storia
e filosofia) hanno migliaia di anni, ma l’ultimo arrivato al ministero pensa di
poterne stravolgere l’insegnamento a piacere. Peraltro gli ultimi ministri sono
spesso sembrati gli utili idioti manovrati allo scopo di risparmiare per
spostare denaro altrove e per adattare la scuola alle esigenze dei mercati (giù
il cappello).
La scuola è
pericolosa, dunque va neutralizzata
Tutte le
ultime riforme/deforme della scuola sono coerenti con una visione del mondo che
non ha alcun interesse a coltivare popoli colti e capaci di pensiero critico e
autonomo. Il Novecento è stato un secolo troppo rischioso per i privilegiati e
non deve ripetersi mai più! Ogni riforma è sbandierata in nome della
democrazia, ci mancherebbe. Chi oggi non si direbbe “democratico”? Persino
Orban si definisce “democratico illiberale”.
Il metodo
più semplice per neutralizzare la scuola è intralciarla, impoverirla e
umiliarla; si può soffocare i docenti di inutile burocrazia e sommergere gli
studenti di iniziative straordinarie per impedire il lavoro ordinario, l’unico
serio. Qualunque sia il problema, ormai si demanda alla scuola: educazione
stradale, teatrale, musicale, educazione alla salute, all’affettività,
donazione di organi, giornate della memoria, incontri con i “maestri del
lavoro”, con volontari di ogni genere di lodevole iniziativa… Poi, se rimane
tempo, si studiano anche le derivate e l’Infinito di Leopardi, ma
nei ritagli di tempo tra un’iniziativa entusiasmante e un corso di recupero
obbligatorio.
Le élite
possono sempre studiare seriamente altrove o cooptare elementi da fuori, se
necessario. La scuola sta smettendo di funzionare come ascensore sociale.
Una scuola sgangherata
che non sviluppa un pensiero critico e una formazione solida non è solo un
problema di incuria, ma l’obiettivo di una visione lucida. La scuola è forse il
settore più delicato del welfare in generale. Lo stato sociale, frutto di
secoli di lotte, è una gigantesca forma di redistribuzione delle ricchezze. La
dimensione raggiunta da questo sistema in occidente è comprensibile,
storicamente, solo per la presenza della minaccia sovietica. I comunisti erano
brutti e cattivi, mangiavano pure i bambini, quindi, tanto più, faceva paura
quell’Impero che, nonostante tutto, illudeva e seduceva milioni di lavoratori
occidentali sprovveduti e masse di poveracci ingenui sparsi per il pianeta. Ora
quel pericolo non c’è più, quindi il welfare si può smantellare; l’opera è
avviata bene ed è solo questione di tempo, di farlo senza dirlo e se possibile
senza che se ne accorgano in troppi. Anche per questo la scuola è pericolosa.
Ma la scuola
è anche un dispositivo utilissimo e può essere riadattata; preziosa per educare
e già che ci siamo disciplinare fin da piccoli. Per le esigenze del mercato del
lavoro la scuola che funziona bene è quella che normalizza i caratteri, piega i
ribelli o li espelle, educa al realismo, insegna la puntualità e rende
familiare la terminologia aziendale dei debiti e dei crediti. Da quando è
diventata “buona” per legge, la scuola insegna la flessibilità (per es. ad
adattarsi a regole che cambiano in corso d’opera, per cui ci si iscrive a una
scuola che nel giro di cinque anni può cambiare anche due volte le regole del
gioco, le richieste, le imposizioni e persino l’esame finale), ma anche a
lavorare un po’ gratis, giusto quel che serve da piccoli, come il vaccino, per
non soffrirne poi troppo da grandi. Del resto, «la scuola deve preparare al mondo
del lavoro», lo dicono tutti. Ma ci siamo mai chiesti perché? Chi l’ha
stabilito? Quale scuola? Le riforme puntano a produrre esseri umani pronti a
entrare nel mondo del lavoro il giorno dopo quello del diploma o della laurea,
a tutti i livelli (dal tornitore all’ingegnere spaziale, dall’impiegato che sa
usare excel al genietto “smanettone” che inventa cose mirabili nella Silicon
Valley). Lavorare bene significa fare bene e rapidamente ciò che è richiesto e,
se possibile, migliorare la parte di lavoro di competenza. Nulla di male, sia
chiaro.
Però la
formazione che abbiamo coltivato negli ultimi millenni è un po’ più ambiziosa.
La differenza è tra preparare un buon tecnico e un essere umano a tutto tondo,
che, certo, può essere anche un buon tecnico, ci mancherebbe. Ma qui dipende
anche da che cosa si intende per “essere umano”
Un’opportunità per la storia - Matteo Saudino
Il decreto maturità firmato dal ministro Lorenzo Fioramonti il 21 novembre
2019 introduce due importanti novità rispetto all’esame di stato delineato meno
di un anno fa dall’allora ministro Marco Bussetti: ritorna il tema di
storia e spariscono le buste da scegliere per l’avvio del colloquio orale.
Si tratta di due modifiche all’apparenza modeste, ma in realtà estremamente
significative sul piano didattico che entreranno in vigore già nel 2020.
Il primo cambiamento è di natura sostanziale: reintrodurre nella
prima prova scritta di italiano la traccia di storia rappresenta un’importante
inversione di rotta dopo decenni di miopi controriforme scolastiche
che hanno tagliato, svuotato e umiliato gli studi storici nelle scuole
superiori, con l’eccezione del liceo classico. In un percorso di formazione
rivolto agli adolescenti che si apprestano a diventare adulti, invece, è più
che mai importante dare dignità e vigore alla storia, la quale non sarà forse
“magistra vitae”, ma è pur sempre una delle principali discipline in
grado di fornire conoscenze e strumenti critici per comprendere le complessità
della realtà in cui viviamo. Insegnare agli studenti a decodificare e
interpretare il presente, infatti, vuol dire offrire loro la preziosa
possibilità di stare al mondo più liberi e consapevoli. Inoltre, oggi, di
fronte al pericoloso e dilagante diffondersi di una fake history,
che volutamente crea confusione e relativismo al fine di alimentare e
giustificare odio, violenza e razzismo, ridare spazio alla storia in sede di
esame di stato significa conferire maggior robustezza allo studio del
Novecento, dalla cui conoscenza può sorgere un argine civile e democratico
rispetto alle ricorrenti barbarie che sempre si nutrono di ignoranza e
superficialità.
Tuttavia questi cambiamenti potranno realizzarsi solo se il ritorno del
tema storico non sarà interpretato semplicemente come un consolatorio e di
conseguenza effimero punto di arrivo per nobilitare lo studio della storia in
quinta superiore, bensì se esso rappresenterà uno stimolante punto di
partenza per rilanciarne complessivamente l’approccio critico,
l’approfondimento e la rielaborazione personale durante tutto il percorso
scolastico. Questa svolta necessita, però, di alcuni profondi mutamenti
nella didattica della storia stessa, la quale deve essere insegnata per
problemi e in maniera interdisciplinare, affrontando i grandi nodi e processi
del passato alla luce delle loro conseguenze e influenze nel presente. Ciò
ovviamente non implica appiattire gli avvenimenti di ieri sull’attualità, bensì
studiarli in modo attivo e laboratoriale, utilizzando fonti e documenti, in
modo da stimolare le connessioni con la realtà che ci circonda. La sfida è
rendere lo studio della storia a scuola utile e interessante senza ricorrere al
gossip e al sensazionalismo: sfida difficile ma che si può vincere facendo
emergere lo stimolo alla curiosità che è insita nella natura
della disciplina stessa.
Il secondo cambiamento è invece di natura formale, con evidenti ricadute
sostanziali: eliminare la scelta tra buste chiuse per avviare il colloquio significa,
infatti, uscire dalla logica del quiz televisivo, che dovrebbe
essere agli antipodi della valutazione di un percorso formativo scolastico.
Anche in questo caso tale piccolo mutamento dovrebbe essere l’occasione per
ripensare a come strutturare un insegnamento che non sia finalizzato ad un
modello prestativo quantitativo e competitivo, bensì a una crescita circolare
docente-studenti, fondata sul binomio qualitativo curiosità-apprendimento.
Se veramente pensiamo che gli studenti non siano vasi da riempire, ma fuochi da
accendere, dobbiamo avere il coraggio di non fare del voto numerico il
fulcro dell’istruzione, come invece ancora troppo spesso accade per
convinzione ideologica o per abitudine. La scuola deve essere un
laboratorio di idee e di pratiche e non di mera ripetizione di contenuti e le
ore di lezione devono essere la miccia che innesca coinvolgimento ed esplosioni
e non una stanca coercizione ad eseguire. Se per gli studenti il voto
diventa l’unico scopo dell’andare a scuola e la noia sistematica pervade il
loro tempo scolastico, viene meno ogni senso autentico della formazione. Ed è
inutile e dannoso nascondersi dietro frasi del tipo “ci siamo passati tutti”
oppure “nella vita ci sono cose che vanno fatte perché si devono fare, anche se
non ti piacciono”: questo può valere per una singola materia o per qualche
studente, ma se tale approccio investe la maggior parte degli allievi il
problema diventa pedagogicamente assai rilevante e come docenti dobbiamo
cercare e sperimentare nuove strade senza abbandonarci a tali sconfortanti
opacità.
In un mondo di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sulla natura,
fare della scuola un luogo pubblico che sappia coinvolgere gli studenti in un
apprendimento critico, circolare e collaborativo potrebbe essere il modo più
lungimirante per gettare i semi di una democrazia che coniughi libertà, solidarietà e giustizia
sociale, unici antidoti contro le molteplici oppressioni che soffocano
le nostre vite.
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