La lotta alla corruzione è diventata un tema cruciale della politica
contemporanea. Chiunque, dalla Banca Mondiale a Donald Trump, insiste sulla
necessità di bonificare questa palude e rimuovere i funzionari corrotti. E
tuttavia, dal colpo di stato soft che ha dismesso la
presidentessa brasiliana Dilma Rousseff alla campagna assassina dell’uomo forte
filippino Rodrigo Duterte contro criminali e criminalizzati, può capitare che
l’anticorruzione prenda una piega nettamente reazionaria.
In questo senso da sinistra si fa fatica a formulare una risposta coerente
al problema, specialmente quando le politiche anticorruzione vengono agite
contro i governi progressisti. Spesso si è semplicemente minimizzata la
corruzione come effetto superficiale del capitalismo, una questione che non ha
bisogno di essere affrontata separatamente; si sono giudicate le accuse di
malaffare come una mera campagna diffamatoria; o, anche peggio, ci si è
allineati alla retoriche anticorruzione proprie della destra.
Tuttavia, se la sinistra fa sul serio quando parla di esercitare e
trasformare il potere statale, deve andare oltre la lamentela moralistica sulla
corruzione.
Nessuno può razionalmente essere a favore della
corruzione. Ma è soltanto comprendendo le cause profonde del problema, e le
ragioni della sua attualità e importanza, che la questione può essere
affrontata come questione politica.
Cos’è la corruzione?
La corruzione tende a prosperare in mezzo a una cultura di impunità e a un
basso livello di sviluppo. Nell’era moderna, gli avanzi delle oligarchie
pre-capitaliste che continuano a coltivare forme di potere personalistico
rappresentano una delle maggiori cause di corruzione nei rapporti fra stato e
capitale. Questa tendenza viene amplificata ovunque i movimenti di massa non
abbiano la forza sufficiente di inchiodare le élite alle loro responsabilità.
Per questo la corruzione non è il destino inevitabile delle nazioni impoverite
o peccaminose, è il prodotto di specifiche forze storiche e di lotte di classe.
In realtà, la stessa definizione di corruzione è cambiata nel corso del
tempo. Questa categoria per millenni è stata al centro del pensiero e della
pratica politica, occupando un posto di rilievo in lavori come i Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò Machiavelli e Le
passioni e gli interessi di Abert Hirschman. Le teorie politiche classiche
vedevano la corruzione come un processo inevitabile di degenerazione delle
istituzioni, salvo che qualcuno intervenisse. La filosofia tradizionale
repubblicana riteneva che la corruzione indebolisse la tempra morale della
società nel suo complesso; la lotta alla corruzione richiedeva dunque un
ritorno alla “virtù civica”, ritorno garantito da un progetto politico
unificante.
Una descrizione del genere è molto diversa da quella usata oggi nelle
politiche anticorruzione promosse da istituzioni internazionali come la Banca
mondiale, che invece definisce la corruzione come «l’insieme di comportamenti
che infrangono le regole che stabiliscono l’atteggiamento dei funzionari
pubblici nei confronti del perseguimento di interessi personali, come la ricchezza,
il potere o lo status». È una definizione che curiosamente sorvola su tutti
quegli attori non statali che, di solito, sono coinvolti negli scambi. Ad
esempio, l’imprenditore corrotto che cerca di influenzare il politico con una
mazzetta è scagionato, relegato a un ruolo puramente passivo. Ma questo
mutamento nella definizione di corruzione riflette un processo più ampio: si è
passati dal considerare la politica come una sfera di passioni e virtù civiche
al vederla come niente più che il terreno di scontro di interessi contrapposti.
In verità, la corruzione consiste in più di una semplice sequenza di
transazioni illecite. È piuttosto una strategia politica che determinati attori
utilizzano per prendere in ostaggio o influenzare le istituzioni o lo stato. È,
nella sua essenza, la privatizzazione della vita pubblica.
Per capirlo, dobbiamo rivolgerci ai Guptas, un clan imprenditoriale indiano
che recentemente è riuscito a impossessarsi del Sud Africa. Con l’aiuto del
vecchio presidente Jacob Zuma (che hanno, di fatto, comprato), i Guptas sono
arrivati a stabilire gli appuntamenti del gabinetto, il budget e la strategia
degli appalti pubblici, in modo da dirottare i soldi pubblici nei loro fondi
privati.
In realtà, i soggetti privati non soffrono semplicemente di corruzione, ma
la generano attivamente. Si collocano all’interno di una gamma di possibilità
che va dall’imprenditore che corrompe i politici per ottenere un voto
favorevole sulla deregolamentazione, fino ad attività non per forza illegali
come il riciclaggio dei politici “silurati” alle elezioni in fondazioni o
enti privati. Gli attori privati possono corrompere le istituzioni nel tempo,
fino al punto in cui codici e prassi non scritte incentivano i pubblici
ufficiali a prendere parte o a chiudere un occhio sui casi di corruzione.
Quando queste prassi diventano “ordinaria amministrazione”, possiamo dire che
un’istituzione è stata corrotta.
Allo stesso tempo, alcune usanze, definite come “corruzione” da chi vi si
oppone, possono avere un ruolo redistributivo, ad esempio quando con il voto si
stabilisce un rapporto di clientela per la costruzione di una determinata
infrastruttura, spesa pubblica o edilizia popolare Un simile atteggiamento è
riassunto dalla famosa espressione brasiliana “rouba mas faz” (rubare,
ma fare le cose). Se si è costretti a scegliere fra un politico neoliberista
che potrebbe non essere corrotto, ma che ha in previsione di fare a pezzi la
spesa sociale, e un demagogo corrotto che rassicura la propria comunità sul
fatto che porterà a casa i risultati possiamo davvero dire che quest’ultimo è
il peggiore?
Corruzione e sviluppo
Questo ragionamento, tuttavia, nasconde delle insidie. La corruzione
sistemica fa molti più danni che una semplice interferenza col funzionamento
delle istituzioni. Dà vita a un circolo vizioso di aspettative ridotte,
producendo apatia e demoralizzazione politica. Se le persone riconoscono un
partito politico o un movimento come “corrotto”, e dunque inadatto a farsi
strumento di un cambiamento significativo, il cinismo che ne deriva le condurrà
a tornare a fare i propri affari o al limite a guardare alla politica in
termini di puro scambio. Se il cambiamento politico è impossibile, cos’altro
fare se non prendersi cura della propria famiglia e del proprio tornaconto individuale?
Questo genere di cinismo è tossico. E la corruzione sistemica renderà, in
ogni caso, molto più semplice per un funzionario pubblico giustificare la
propria corruzione come parte della normale prassi politica; le tangenti si
trasformano così in “regali” e “favori”, e le transazioni illecite diventano
espressione di “amicizia” e “solidarietà” invece che di interesse personale.
È un circolo vizioso talmente imponente che la Banca Mondiale ha
individuato nella corruzione l’ostacolo più grande allo sviluppo globale. In
risposta a ciò, le politiche anticorruzione sono diventate un tratto comune dei
progetti di sviluppo post-Guerra Fredda. Sono state istituzionalizzate,
diventando una caratteristica dell’ordine mondiale neoliberista. Ma in realtà
la corruzione non è sempre stata vista come un ostacolo allo sviluppo. Il
cambiamento di status della corruzione, che è passata
dall’essere vista come un problema di politica interna a una preoccupazione
internazionale, è peculiare dell’era post-Guerra Fredda.
Durante il periodo d’oro delle teorie della modernizzazione negli anni
Cinquanta e Sessanta, alcuni teorici chiave dello sviluppo come Samuel
Huntington hanno argomentato che la corruzione è in realtà portatrice di
sviluppo, perché snellisce gli adempimenti burocratici e rende il mercato più
fluido, così che per le multinazionali diventi più facile fare affari.
All’epoca, la corruzione non venne vista come elemento esterno al processo di
modernizzazione; anzi, era considerata come un suo prodotto inevitabile.
Quando il Terzo Mondo entrò in crisi per il debito, negli anni
Ottanta e Novanta, in gran parte per essere stato costretto seguire le ricette
neoliberiste decise dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale
come condizione per i prestiti, l’Occidente ha invocato la corruzione per
autoassolversi dall’accusa di aver inflitto povertà miseria e sofferenza nel
mondo. In questo quadro, il fallimento delle nazioni impoverite nella strada
verso la modernizzazione non era colpa degli esperti tecnocrati che avevano
introdotto le politiche di adeguamento strutturale, ma della corruzione
endemica di quei paesi, troppo sottosviluppati per raggiungere gli standard
internazionali.
Anche i (reali o supposti) fallimenti del socialismo sovietico e delle
social-democrazie furono spiegati in questi termini. Negli anni Novanta gli
ideologi liberali si precipitarono a dichiarare che il socialismo si era
dimostrato impraticabile, insistendo sul fatto che tutti i progetti di
collettivizzazione erano comunque destinati a fallire a causa dell’avidità
individuale e del razionale perseguimento dell’interesse personale, i quali
conducevano inevitabilmente alla corruzione. Secondo il loro ragionamento, tali
energie potevano essere controllate e messe a valore soltanto dal libero
mercato.
Dopo il collasso dell’Unione Sovietica, la corruzione cominciò ad essere
considerata il principale ostacolo allo sviluppo del Terzo Mondo. Nel 1993
l’anticorruzione era stata adottata come componente chiave delle politiche di
sviluppo internazionale dalla Banca Mondiale, dall’Fmi, e dalle Nazioni Unite.
Le politiche anticorruzione furono incentrate su un concetto come “trasparenza”
– l’aderenza, cioè, a una serie di standard modellati sugli interessi del
capitale internazionale. Gli interessi delle multinazionali, e la facilità con
cui la finanza poteva spostare quattrini e fare affari, divennero il cardine
della vigilanza anticorruzione. In realtà, significò soprattutto dare il via a
una battaglia per aumentare l’autonomia delle burocrazie locali rispetto alle
proprie popolazioni, schermandole dall’influenza “corruttrice” della politica
di massa, e rendendole invece sempre più dipendenti dalle istituzioni
internazionali che le monitoravano.
Tecnocrati e populisti
La politica che si dichiara contro la corruzione può essere suddivisa
essenzialmente in due grandi tipi, a seconda che sia in prevalenza tecnocratica
o populista. La prima è tipica dell’ordine politico ed economico internazionale
promosso da istituzioni multilaterali come la Banca Mondiale e l’Fmi, o da
ricche Ong come la Transparency International. L’anticorruzione populista,
invece, è una forma di politica basata sul perseguimento della salvezza
nazionale dalla piaga della corruzione, grazie all’intervento di una figura
messianica, al di fuori del sistema, chiamata a “fare pulizia”.
L’anticorruzione tecnocratica mira a trasferire il potere dall’elettorato
alle élite responsabili. Stabilisce standard internazionali su quello che
dev’essere considerato corruzione, spesso in linea con un processo di apertura
dei paesi ai capitali internazionali. L’intervento statale nell’economia, le
riforme redistributive e il welfare state sono raffigurate o come vulnerabili
all’influenza di interessi corrotti oppure, a volte, come una forma di
corruzione vera e propria (specialmente per i libertariani che considerano ogni
tassazione come un furto). A noi qui interessa soltanto la condanna rituale
della burocrazia e dei regolamenti.
L’anticorruzione populista emerge in risposta a un sistema politico largamente
percepito come impantanato nella corruzione, la quale investe ogni singolo
politico e ogni partito indipendentemente dall’ideologia. Appare allora
un outsider carismatico, incontaminato dal lerciume della
classe politica, che promette di fare piazza pulita del sistema, purgando le
élite corrotte che dominano il paese, come se lui – perché è sempre un lui –
offrisse politiche messianiche di redenzione.
L’anticorruzione gioca un ruolo centrale nell’anti-politica – quel
sentimento diffuso per cui la politica non è più un veicolo di cambiamento
tangibile. Qualunque tentativo di promuovere un cambiamento attraverso la
politica finirà inevitabilmente vittima della corruzione, tutto il sistema è
corrotto e solo qualcuno o qualcosa al di fuori del sistema sarà in grado di
produrre un cambiamento significativo. Solo un partito, un leader, o un
movimento al di fuori del sistema – cioè al di fuori della “politica” – sarà in
grado di produrre un cambiamento, come ad esempio un ufficiale militare o un
imprenditore di successo. Ma il rifiuto generalizzato della politica e del
sistema non sta spianando la strada ai socialisti rivoluzionari e a una loro
presa di potere in stile bolscevico; anzi, sta portando all’ascesa di outsider carismatici
e autoritari che promettono di spazzare via la corruzione, come Rodrigo Duterte
nelle Filippine o l’appena eletto presidente Jair Bolsonaro in Brasile,
proveniente dall’estrema destra.
L’anticorruzione populista, anche se non è necessariamente una tendenza
conservatrice, di fatto favorisce le forze reazionarie. Ciò è specialmente vero
nel contesto contemporaneo, in cui i partiti maggioritari di centrosinistra o
socialdemocratici hanno perso credibilità. Il vuoto lasciato dalla sinistra lo
stanno colmando queste forme di anticorruzione populista e destrorsa, come il
Front National in Francia o la Lega in Italia.
L’anticorruzione populista è una forma di moralismo nascosto da un velo di
anti-politica; la soluzione sta semplicemente nel cacciare le mele marce. La
corruzione tende ad essere individualizzata e personificata nell’élite
distante, mentre il politico di centro-sinistra diventa il simbolo di tutto ciò
che è corrotto e sbagliato. È un’operazione che funziona soprattutto quando è
plausibile (come nel caso di Hillary Clinton) ma può funzionare anche in
termini di odio di classe, sessismo, razzismo e guerra ai poveri nel caso di
Dilma Rousseff in Brasile. L’anticorruzione individualizza la politica, mentre
ignora gli incentivi strutturali che producono la corruzione sistemica; ironicamente,
questo processo dà potere a leader corrotti e individualisti come Donald Trump
o Silvio Berlusconi.
L’anticorruzione populista e quella tecnocratica condividono gli stessi
sentimenti anti-democratici. L’anticorruzione populista tende a rigettare il sistema
politico perché corrotto, rappresentando i diritti costituzionali o
l’imparzialità del processo giudiziario come cose che sbarrano la strada alla
lotta alla corruzione. «Sparate a quei bastardi», «Chiudeteli in cella e
buttate la chiave» e altre spacconate auto esaltanti simili sono elementi
comuni di questo tipo di retorica. Le politiche anticorruzione di marca
tecnocratica vedono la mobilitazione popolare e il dibatto come illegittimi, e
dunque corruttrici.
A volte le modalità anticorruzione dei populisti e dei tecnocrati possono
addirittura fondersi. L’esempio più calzante è in questo senso il caso
dell’italiano Movimento 5 Stelle, che propone una forma di populismo
anti-politico, nell’ottica di sottrarre il potere a una classe politica
corrotta per metterlo nelle mani di esperti, controllati da un’audience online
di attivisti. In pratica, la tecno-utopia rimpiazza le mobilitazioni di piazza,
il dibattito pubblico, e altre forme di vita politica inclusiva, e le
sostituisce con un incessante sondaggio online. Nei fatti, dato lo svuotamento
delle attuali organizzazioni politiche e del dibattito che le riguarda,
l’atomizzato popolo del web non fa altro che approvare automaticamente le
politiche decise dai leader del M5S, presentate come se fossero la “volontà
popolare”.
Il M5S combina le politiche anticorruzione tecnocratiche a quelle
populiste. Anche al di là degli impulsi anti-democratici che accomunano questi
due approcci, possiamo inoltre rilevare che la condivisione si estende a una
sorta di spirito millenarista, in cui solo la forza redentrice della tecnologia
o della leadership può eliminare la macchia della corruzione e redimere la
nazione.
Ironicamente, rimuovendo la politica dalla bilancia dell’equilibrio
democratico, l’anticorruzione di marca tecnocratica conduce esattamente a
quella disillusione verso la politica che permette alla corruzione di
prosperare. Esula gli ufficiali corrotti dal rendere conto alle masse e lascia
la sorveglianza anticorruzione nelle mani del settore privato, che spesso non
ha alcun interesse nel contrastare il fenomeno. L’anticorruzione di marca
populista, invece, riduce la lotta politica a questione moralistica, spesso
delegittimando la lotta delle masse quale strumento di un cambiamento
significativo.
Criminalizzare la social-democrazia
Nell’ottica di illustrare più concretamente i fallimenti delle politiche
anticorruzione, vale la pena contemplare l’esempio specifico dei loro effetti
in Brasile. Lì, le proteste di massa anti-corruzione del 2015 contro Dilma
Rousseff e il governo del Partito dei Lavoratori (Pt) hanno accompagnato un
colpo di stato “parlamentare” soft, che ha distrutto decenni di
avanzamento nel campo dei diritti sociali. Le proteste sono seguite alla
storica indagine Lava Jato, che ha portato all’incarcerazione del precedente
presidente Lula da Silva sulla base di prove deboli e ha virtualmente implicato
l’intera classe politica brasiliana. Eppure il suo reale obiettivo si trovava
altrove.
Seguendo le sirene dei media, centinaia di cittadini brasiliani perlopiù
della classe media sono scesi in strada a protestare contro la corruzione. Ma
era la classe sociale più ricca a guidare queste proteste, anche se al suo
interno erano presenti pezzi della classe lavoratrice e persino i sindacati. Le
proteste erano supportate da movimenti anticorruzione ambigui, come il
Movimento per la Libertà del Brasile (Mlb), fondato dai fratelli Koch e
sostenuto dal dark web di soldi libertariani e dai partiti della destra
internazionale.
Le proteste anticorruzione sono così diventate adunate di nemici del Pt.
Tuttavia, la cosa davvero rilevante è che l’anticorruzione è stata usata come
slogan pigliatutto per giustificare l’ostilità alle politiche sociali del
partito. Benché non avesse rotto col neoliberalismo, il governo del Pt aveva
prodotto alcune storiche misure sociali, come l’aumento del salario minimo, i
sussidi per il welfare, e l’introduzione da parte delle università di élite di
quote che ne permettessero la frequenza anche a studenti più poveri.
Persino queste politiche sociali di stampo assai moderato sono state
interpretate come un sovvertimento dell’ordine naturale – la cosiddetta
“meritocrazia” – che innalzavano di status sociale i poveri immeritevoli. I
media di destra hanno così individuato nello stato sociale una tangente per i
poveri e per la classe lavoratrice. Nuovi fautori dello sviluppo avevano
provato a stimolare il settore manifatturiero brasiliano, in sofferenza da
anni, promuovendo alcuni settori del capitale – nella fattispecie pezzi
dell’industria edile e delle imprese di proprietà statale – che sono stati poi
particolarmente bersagliati dal fronte degli attivisti anticorruzione. Lava
Jato ha paralizzato questi sforzi, e con l’aiuto dei partiti di opposizione ha
impedito che il Pt rispondesse alla crisi economica. Lava Jato era solita
individuare la corruzione in qualunque tentativo di intervento statale
sull’economia.
L’effetto è stato quello di criminalizzare la social-democrazia moderata e
la sinistra attraverso la retorica dell’anticorruzione. Il presidente del
dopo-colpo Michel Temer – che gode delle percentuali di approvazione più basse
della storia recente – e il suo governo sono stati travolti da scandali legati
alla corruzione. Ma nonostante Temer sia pesantemente coinvolto nello Lava Jato
non è stato sottoposto ad alcun procedimento giudiziario. Le proteste
anticorruzione hanno bersagliato soltanto il Pt, mentre la sfacciata
criminalità del governo Temer ha suscitato nient’altro che indifferenza da
parte delle stesse forze che avevano chiesto la testa di Dilma.
Moralità e Democrazia
Chiamare il popolo a raccolta contro l’elite corrotta è una caratteristica
tipica della retorica politica di sinistra, che ha, per esempio, giocato un
ruolo chiave nella storica vittoria elettorale di Andrés Manuel López Obrador
in Messico. E tuttavia questo tipo di politiche nascondono spesso i semi del
loro fallimento. Un governo di centrosinistra o socialista che raggiunge il
potere attraverso una piattaforma basata sull’anticorruzione rischierà
sicuramente la demoralizzazione e la disaffezione dell’elettorato se sarà lui
stesso preda di scandali. È per questo che la sinistra deve superare la
retorica facile e moralista dell’anticorruzione, specialmente se vuole
seriamente prendere il potere.
La sinistra ha di fronte una sfida particolare, quella di convincere le
persone comuni che non solo l’ordine esistente è indesiderabile, ma che può
essere radicalmente trasformato dall’azione collettiva, in una lotta che
richiede sacrifici necessari. In questo senso la destra porta un peso assai più
leggero, poiché di solito tutto quello che deve fare è convincere il popolo a
stare a casa e perseguire i suoi interessi individuali. La corruzione e i
movimenti anticorruzione rappresentano un pericolo considerevole per la
sinistra, perché entrambi ridefiniscono la politica su questo terreno, mentre
allo stesso tempo nutrono il cinismo diffuso che vede la politica come
nient’altro che un campo di battaglia di interessi individuali.
Prendere il potere richiede necessariamente una dose di compromessi;
qualunque progetto politico avrà degli elementi che saranno assorbiti dallo
stato, e chiunque governi le istituzioni – che sono rette secondo i loro codici
non scritti – dovrà in qualche misura dipendere dallo scambio di favori o di
influenza. Spesso, come nel caso di Syriza in Grecia, un governo di sinistra
deve la sua esistenza ad alleati sgradevoli. Questo fa sì che intellettuali e
quadri chiave siano assorbiti da una burocrazia che incentiva non solo la
negoziazione, ma addirittura il mercanteggiamento. Allo stesso tempo gli
opportunisti saranno sempre indotti a rivolgersi a un partito di successo per
favorire le loro carriere, anche se questo volesse dire rinunciare ai loro
principi.
La corruzione rappresenta dunque una sfida particolare per la sinistra, una
sfida che riguarda la presa del potere. È troppo facile per la sinistra
concentrarsi sul mantenere la propria purezza in uno stato di perenne
opposizione, seguendo l’ondata di moralismo cinico, senza riflettere
sull’effetto boomerang che ciò potrebbe avere sulla possibilità di credere in
un cambiamento politico in generale. Molte descrizioni scontate di leader che
avrebbero tradito le lotte dei lavoratori o la rivoluzione spesso non sono
molto differenti dalle narrazioni conservatrici sulla natura corruttrice del
potere, capace di distruggere anche quei progetti che ambiscono a usare lo
stato con fini progressisti.
Una politica anticorruzione di sinistra, dunque, deve ottenere due
importanti risultati. Per prima cosa, deve politicizzare la corruzione, in una
maniera che non sia né moralistica né tecnocratica. Secondo poi, deve
concentrarsi sull’eliminare le cause profonde della corruzione sistemica – il
potere delle élite e le diseguaglianze. La corruzione sistemica può essere
sconfitta soltanto attraverso la lotta politica, una lotta che miri ad ottenere
riforme significative combinate con politiche sociali di stampo egualitario.
Se la sinistra che già occupa delle cariche pubbliche vuole evitare di
essere stritolata da meccanismi statali di per sé corruttivi, ha bisogno di
iniziare a costruire un’eredità istituzionale da lasciare ai futuri governi di
sinistra. Ciò necessita di una riforma politica significativa e di misure che
erodano il potere dei nemici all’interno della macchina statale. Ma imporre un
cambiamento simile – probabilmente la sfida più grande che una politica
anticorruzione di sinistra si trova davanti – richiede anche la costruzione di
un controllo popolare attraverso la mobilitazione di massa. Dobbiamo lottare
contro la corruzione non semplicemente vantandoci della nostra superiorità
morale, ma attraverso la lotta per espandere gli orizzonti della democrazia
stessa.
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