domenica 15 dicembre 2019

L’innocenza delle Sardine - Marco Revelli



Alle otto e mezza di sabato va in scena il confronto tra impudenza e innocenza. Davanti a Lilli Gruber, nelle persone di Francesco Borgonovo e Matilde Sparacino: un professionista della disinformazione, vice-direttore di quel giornale che mente fin dal suo titolo “La Verità”, membro esterno onorario della Bestia di Salvini; e una giovane studentessa alla sua prima esperienza di impegno pubblico come promotrice del prossimo flash mob delle sardine fiorentine. Il primo impegnato in un accanito J’accuse contro le piazze resistenti delle “Sardine”, l’altra a sostenere serenamente il suo essere caparbiamente “per” una serie di valori che non sono altro che la nostra Costituzione.
A me ha fatto tornare in mente la celebre favola di Fedro, ricordate?, Superior stabat lupus, agnus inferior… non solo per la postura dell’”accusatore” – tre palmi sopra tutti, tono condiscendente, sguardo irridente – ma per il rovesciamento totale del piano di realtà che si andava dipanando nei suoi interventi: il vicedirettore del giornale più schierato d’Italia accusava quelle piazze di essere politicamente compromesse (al servizio degli interessi elettorali di una parte), utilizzando come prova a carico i curricula di due (due!) tra i promotori, uno accusato di collaborare alla rivista bolognese “Energia”, l’altro con la regione Toscana. Dalla sede di uno dei più virulenti centri di diffusione degli insulti e dell’odio contro chiunque pratichi forme di solidarietà, accoglienza, anche semplice umanità  – vera e propria macchina di creazione di capri espiatori -, accusava le “Sardine” di essere aggressive, intolleranti, violente nei confronti di quel pover uomo di Matteo Salvini, insomma, haters ciechi e sordi alle “ragioni” dei vituperati “populisti sovranisti”. Ed era davvero l’esemplificazione autentica di quella tecnica sperimentata e perversa del populismo di ultima generazione, il più virulento, consistente in quella che chiamerei l’”inversione del rapporto vittimario”: la trasformazione del carnefice in vittima e della vittima in carnefice, dell’odiatore in odiato, del persecutore in perseguitato. La stessa “inversione” che ha fatto delirare Matteo Salvini quando, di fronte alla tempesta di odio scatenata contro la senatrice Liliana Segre e alla protezione resasi necessaria, ha rivendicato le minacce subite da lui stesso, quasi le due persone potessero essere poste sullo stesso piano, anzi, quasi che la sua sofferenza, di pasciuto ministro e poi ex ministro di polizia, fosse maggiore di quella di chi ha visto la propria famiglia sterminata, lei stessa discriminata razzialmente e deportata nell’inferno di Auschwitz… Infine, dalla bolla di retorica di cui si alimenta la destra radicale a cui di diritto s’inscrive, Borgonovo denunciava la vuotezza di contenuti delle piazze piene – come barili di sardine appunto – di persone, indicate come portatrici del nulla.
Dall’altra parte la studentessa ventiduenne di psicologia alla sua prima esperienza, lo guardava imperturbabile (come si guarda un oggetto sconosciuto, o un soprammobile bizzarro) e sciorinava l’elenco dei “valori” positivi della propria proposta, gli stessi del vituperato “Manifesto”: la “passione nell’aiutare gli altri”, l’amore per l’ascolto, la creatività, la non-violenza, la bellezza, anche, perché no?, la “buona educazione” e la sobrietà del linguaggio. Quanto evidentemente a un hater professionista può apparire un “Nulla”. E nel far questo, in quel chiamarsi fuori dal gioco dello scazzo, della replica muscolare, della bagarre mediatica, in quello sguardo tra il perplesso e il persuaso, mostrava un fondo di innocenza che la rendeva in qualche modo invincibile.
Ho detto “innocenza”. E la considero una delle parole chiave che spiegano quanto si è materializzato nelle piazze. Forse “la” parola chiave, che spiega la forza di quel primo appello che ha riempito Piazza Grande di una folla fitta e compatta come non se ne vedeva da tempo. Quella massa variegata e multicolore, strabordante e composta, ha risposto in forma così immediata e (possiamo dirlo? “irriflessa”) alla chiamata perché questa rispondeva a un bisogno profondo, vissuto, fino ad allora inespresso e però potente, sentito. Ma anche perché a chiamare erano figure “innocenti”, nel senso di “non compromesse”, come solo chi appartiene alla generazione nata a ridosso del passaggio di secolo può essere, ragazzi che non portano le (tante) colpe di chi in questo ventennio ha assunto responsabilità politiche. O anche solo ha fatto organicamente parte del gran circo della politica politicante, in tutte le possibili sinistre, o i possibili centri, chiese o sette che fossero, e ne ha subito, volente o nolente, i compromessi, gli abbandoni di ideali, le burocratizzazioni e le degradazioni funzionariali, i linguaggi gergali e morti, la separazione dai propri reciproci popoli; chi non ha prodotto delusioni in quanti hanno creduto in loro e non ha subito delusioni da parte di coloro in cui ha creduto, non si è ammalato di frustrazione né di settarismo, di arroganza né di risentimento. Quella “chiamata” non poteva che venire da una “generazione vergine” per poter essere ascoltata, e infatti intorno a quel nucleo di chiamanti si è condensato un aggregato vasto di chiamati, trasversale alle generazioni e ai gruppi sociali, con dentro, accanto ai più giovani, anche la generazione di mezzo che era stata la grande assente dallo scenario politico “non populista”, e quelle più anziane, degli assenti per stanchezza e disillusione, smarrimento e solitudine… Così come vi sono confluiti un po’ tutti i frammenti del “prisma del lavoro” andato in frantumi prima che il Novecento finisse, dai giovani precari intellettuali e non solo ai pensionati e alle casalinghe, dai residui operai sindacalizzati alle partite Iva di diverso livello.
Non sono più il “ceto medio produttivo” di cui parlava a ragione Paul Ginsborg un quarto di secolo fa, quello è stato lavorato al corpo dalla crisi che ha colpito come uno tsunami il ceto medio nel suo complesso, non sono più il “popolo dei Girotondi” e nemmeno il “popolo viola” che tagliò un bel po’ di erba sotto i piedi a Berlusconi. Sono per molti versi “post”: nell’orizzonte dei promotori non c’è più il riferimento assorbente, anche solo in negativo, ai partiti storici della sinistra. Non c’è tout court la “forma partito”. Sono, come chiamarli?, “popolo”. Una moltitudine che si addensa e riconosce in base a un comune sentire, a un segnale d’allarme. Alla sensazione di un pericolo imminente. E insieme di uno stato di cose insopportabile. Si mobilitano secondo una sequenza assai simile a quella del sistema immunitario di un organismo: come sciami di anticorpi in risposta in qualche modo istintiva, o automatica, di fronte ai sintomi avvertibili di una grave malattia. Quello che li unisce, tagliando orizzontalmente e verticalmente l’eterogeneità, è un set, non vastissimo, ma fondante, di valori (che sono poi quelli della nostra Costituzione), ritenuti irrinunciabili perché considerati indispensabili al proprio sentirsi “popolo”.
E, se devo dirla tutta, credo che il loro grande, davvero grande, merito sia proprio quello di aver fatto materializzare, nel luogo pubblico per eccellenza, in piazza, un popolo altro rispetto a quello rivendicato dalla retorica populista. L’anti-salvinismo di questo fenomeno sta nell’aver mostrato al mondo che il Capitano non ha il monopolio del “popolo”. Che l’Italia non è di Matteo Salvini. Che c’è anche un’Altra Italia, grande, coesa, determinata, corporea, fatta di persone in carne e ossa che scoprono di essere, nonostante tutto, una Comunità vivente, operosa e capace di testimoniare i propri valori. Basta questo per decretarne la positività e la grandezza.
So che poi ci sono – ci sono sempre – quelli che arricciano il naso e alzano il dito, per denunciare i limiti. Quelli che ogni volta fanno l’esame del sangue ai nuovi venuti, per verificarne i quarti di nobiltà, di purezza ideologica, di esaustività del programma, di efficacia del progetto. L’hanno fatto con la gigantesca onda globale sollevata da Greta Thunberg. Lo fanno con le “Sardine”: quanta dose di anticapitalismo c’è? Quale opzione organizzativa per la presa del potere? Quale tasso di critica-critica ha la loro visione del mondo? Ho letto post indecenti su Facebook, di pseudo vetero-comunisti che parlano lo stesso linguaggio di Diego Fusaro, e irridono le Sardine con gli stessi già citati argomenti di Francesco Borgonovo, considerando la loro azione un “Nulla”.
Ho letto altri commenti ben più ragionati, e anche in buona parte condivisibili, di chi pur rendendo onore al merito e apprezzando quelle piazze – penso a un interessante articolo di Marco Bersani intitolato Il bivio delle Sardine -, non resiste tuttavia alla tentazione di fargli un po’ di bucce: la caratteristica, tipica di quella specie ittica, di “nuotare senza mai avere alcun contatto con il fondale marino”, l’assenza in quelle piazze delle componenti sociali più disagiate, delle aree della sofferenza materiale in cui pesca il nazional-socialismo salviniano (“quel fondale marino che dovranno ad un certo punto attraversare, se davvero vogliono dare una risposta, non tanto al Capitano del Papeete, quanto a tutte le persone che hanno fatto cortocircuito nel rancore, e che, invece di rivendicare diritti e libertà, reclamano ordine e disciplina” (Idem). Può darsi che sia vero. Che le piazze delle sardine siano posizionate sulla parte medio-alta della piramide sociale, quantomeno in quella meglio scolarizzata. O forse no: anche nel post-proletariato urbano resiste una memoria civile e civica che la falce della crisi non ha estinto e che lo sciame ittico può risvegliare. Come che sia, comunque questo è un gioco a cui non mi piace giocare. Non mi iscrivo al partito di quelli del “bravi si, ma”… E nemmeno a quello di chi incalza chiedendo strutturazione, organizzazione, trasformazione in soggetto politico subito, qui e ora, per durare, contare, decidere! Non so se le Sardine dureranno. Se prenderanno nello spazio politico italiano il posto che anni fa occupò Grillo con le sue piazze del V-Day o se passata la marea si dissolveranno come a volte accade agli sciami. E anche in questo caso non lo considererei un fallimento. Il risultato che le piazze di questi giorni producono non è “esterno”, è “interno”, ha a che fare con coscienza e sentimenti delle persone che vi partecipano. Con la modificazione del loro “sentire”. Il senso di presenza, come Comunità, di chi è stato in una di quelle piazze, ognuno se lo porterà dentro per i mesi e forse gli anni prossimi. E sarà un pezzo di identità collettiva sottratto all’imbarbarimento populista e a questo consapevolmente contrapposto. Vi pare poco?

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