Alle otto e mezza di sabato va in scena il
confronto tra impudenza e innocenza. Davanti a Lilli Gruber, nelle persone di
Francesco Borgonovo e Matilde Sparacino: un professionista della disinformazione, vice-direttore
di quel giornale che mente fin dal suo titolo “La Verità”, membro esterno onorario della
Bestia di Salvini; e una giovane studentessa alla sua prima esperienza di
impegno pubblico come promotrice del prossimo flash mob delle
sardine fiorentine. Il primo impegnato in un accanito J’accuse contro
le piazze resistenti delle “Sardine”, l’altra a sostenere serenamente il suo
essere caparbiamente “per” una serie di valori che non sono altro che la nostra
Costituzione.
A me ha fatto tornare in mente la celebre favola di Fedro,
ricordate?, Superior stabat lupus, agnus inferior… non solo per la
postura dell’”accusatore” – tre palmi sopra tutti, tono condiscendente, sguardo
irridente – ma per il rovesciamento totale del piano di realtà che si andava
dipanando nei suoi interventi: il vicedirettore del giornale più schierato
d’Italia accusava quelle piazze di essere politicamente compromesse (al
servizio degli interessi elettorali di una parte), utilizzando come prova a
carico i curricula di due (due!) tra i promotori, uno accusato
di collaborare alla rivista bolognese “Energia”, l’altro con la regione
Toscana. Dalla sede di uno dei più virulenti centri di diffusione degli insulti
e dell’odio contro chiunque pratichi forme di solidarietà, accoglienza, anche
semplice umanità – vera e propria macchina di creazione di capri
espiatori -, accusava le “Sardine” di essere aggressive, intolleranti, violente
nei confronti di quel pover uomo di Matteo Salvini, insomma, haters ciechi
e sordi alle “ragioni” dei vituperati “populisti sovranisti”. Ed era davvero
l’esemplificazione autentica di quella tecnica sperimentata e perversa del
populismo di ultima generazione, il più virulento, consistente in quella che
chiamerei l’”inversione del rapporto vittimario”: la trasformazione del
carnefice in vittima e della vittima in carnefice, dell’odiatore in odiato, del
persecutore in perseguitato. La stessa “inversione” che ha fatto delirare
Matteo Salvini quando, di fronte alla tempesta di odio scatenata contro la
senatrice Liliana Segre e alla protezione resasi necessaria, ha rivendicato le
minacce subite da lui stesso, quasi le due persone potessero essere poste sullo
stesso piano, anzi, quasi che la sua sofferenza, di pasciuto ministro e poi ex
ministro di polizia, fosse maggiore di quella di chi ha visto la propria
famiglia sterminata, lei stessa discriminata razzialmente e deportata
nell’inferno di Auschwitz… Infine, dalla bolla di retorica di cui
si alimenta la destra radicale a cui di diritto s’inscrive, Borgonovo denunciava
la vuotezza di contenuti delle piazze piene – come barili di sardine appunto –
di persone, indicate come portatrici del nulla.
Dall’altra parte la studentessa ventiduenne di psicologia alla sua
prima esperienza, lo guardava imperturbabile (come si guarda un oggetto
sconosciuto, o un soprammobile bizzarro) e sciorinava l’elenco dei “valori”
positivi della propria proposta, gli stessi del vituperato “Manifesto”: la “passione nell’aiutare gli
altri”, l’amore per l’ascolto, la creatività, la non-violenza, la bellezza,
anche, perché no?, la “buona educazione” e la sobrietà del linguaggio. Quanto
evidentemente a un hater professionista può apparire un
“Nulla”. E nel far questo, in quel chiamarsi fuori dal gioco dello scazzo,
della replica muscolare, della bagarre mediatica, in quello sguardo tra il
perplesso e il persuaso, mostrava un fondo di innocenza che la rendeva
in qualche modo invincibile.
Ho detto “innocenza”. E la considero una delle parole chiave che
spiegano quanto si è materializzato nelle piazze. Forse “la” parola
chiave, che spiega la forza di quel primo appello che ha riempito
Piazza Grande di una folla fitta e compatta come non se ne vedeva da
tempo. Quella massa variegata e multicolore, strabordante e composta, ha
risposto in forma così immediata e (possiamo dirlo? “irriflessa”) alla chiamata
perché questa rispondeva a un bisogno profondo, vissuto, fino ad
allora inespresso e però potente, sentito. Ma anche perché a chiamare erano
figure “innocenti”, nel senso di “non compromesse”, come solo chi
appartiene alla generazione nata a ridosso del passaggio di secolo può essere,
ragazzi che non portano le (tante) colpe di chi in questo ventennio ha assunto
responsabilità politiche. O anche solo ha fatto organicamente parte del gran
circo della politica politicante, in tutte le possibili sinistre, o i possibili
centri, chiese o sette che fossero, e ne ha subito, volente o nolente, i
compromessi, gli abbandoni di ideali, le burocratizzazioni e le degradazioni
funzionariali, i linguaggi gergali e morti, la separazione dai propri reciproci
popoli; chi non ha prodotto delusioni in quanti hanno creduto in loro e non ha
subito delusioni da parte di coloro in cui ha creduto, non si è ammalato di
frustrazione né di settarismo, di arroganza né di risentimento. Quella
“chiamata” non poteva che venire da una “generazione vergine” per poter essere
ascoltata, e infatti intorno a quel nucleo di chiamanti si è condensato
un aggregato vasto di chiamati, trasversale alle generazioni e ai gruppi
sociali, con dentro, accanto ai più giovani, anche la generazione di mezzo
che era stata la grande assente dallo scenario politico “non populista”, e
quelle più anziane, degli assenti per stanchezza e disillusione, smarrimento e
solitudine… Così come vi sono confluiti un po’ tutti i frammenti del “prisma
del lavoro” andato in frantumi prima che il Novecento finisse, dai giovani
precari intellettuali e non solo ai pensionati e alle casalinghe, dai residui
operai sindacalizzati alle partite Iva di diverso livello.
Non sono più il “ceto medio produttivo” di cui parlava a ragione Paul
Ginsborg un quarto di secolo fa, quello è stato lavorato al corpo dalla crisi
che ha colpito come uno tsunami il ceto medio nel suo complesso, non
sono più il “popolo dei Girotondi” e nemmeno il “popolo viola” che
tagliò un bel po’ di erba sotto i piedi a Berlusconi. Sono per molti versi
“post”: nell’orizzonte dei promotori non c’è più il riferimento assorbente,
anche solo in negativo, ai partiti storici della sinistra. Non c’è tout
court la “forma partito”. Sono, come chiamarli?, “popolo”. Una
moltitudine che si addensa e riconosce in base a un comune sentire, a un
segnale d’allarme. Alla sensazione di un pericolo imminente. E insieme di
uno stato di cose insopportabile. Si mobilitano secondo una sequenza
assai simile a quella del sistema immunitario di un organismo: come sciami di
anticorpi in risposta in qualche modo istintiva, o automatica, di fronte ai
sintomi avvertibili di una grave malattia. Quello che li unisce, tagliando
orizzontalmente e verticalmente l’eterogeneità, è un set, non vastissimo, ma
fondante, di valori (che sono poi quelli della nostra
Costituzione), ritenuti irrinunciabili perché considerati indispensabili al
proprio sentirsi “popolo”.
E, se devo dirla tutta, credo che il loro grande, davvero grande,
merito sia proprio quello di aver fatto materializzare, nel luogo pubblico per
eccellenza, in piazza, un popolo altro rispetto a quello rivendicato dalla
retorica populista. L’anti-salvinismo di questo fenomeno sta nell’aver
mostrato al mondo che il Capitano non ha il monopolio del “popolo”. Che
l’Italia non è di Matteo Salvini. Che c’è anche un’Altra Italia, grande, coesa,
determinata, corporea, fatta di persone in carne e ossa che scoprono di
essere, nonostante tutto, una Comunità vivente, operosa e capace di
testimoniare i propri valori. Basta questo per decretarne la positività e la
grandezza.
So che poi ci sono – ci sono sempre – quelli che arricciano il naso
e alzano il dito, per denunciare i limiti. Quelli che ogni volta fanno
l’esame del sangue ai nuovi venuti, per verificarne i quarti di nobiltà, di
purezza ideologica, di esaustività del programma, di efficacia del progetto. L’hanno
fatto con la gigantesca onda globale sollevata da Greta Thunberg. Lo fanno
con le “Sardine”: quanta dose di anticapitalismo c’è? Quale opzione
organizzativa per la presa del potere? Quale tasso di critica-critica ha la
loro visione del mondo? Ho letto post indecenti su Facebook, di pseudo
vetero-comunisti che parlano lo stesso linguaggio di Diego Fusaro, e irridono
le Sardine con gli stessi già citati argomenti di Francesco Borgonovo,
considerando la loro azione un “Nulla”.
Ho letto altri commenti ben più ragionati, e anche in buona parte
condivisibili, di chi pur rendendo onore al merito e apprezzando quelle piazze
– penso a un interessante articolo di Marco Bersani intitolato Il bivio delle Sardine -, non resiste
tuttavia alla tentazione di fargli un po’ di bucce: la caratteristica, tipica
di quella specie ittica, di “nuotare senza mai avere alcun contatto con il
fondale marino”, l’assenza in quelle piazze delle componenti sociali più
disagiate, delle aree della sofferenza materiale in cui pesca il
nazional-socialismo salviniano (“quel fondale marino che dovranno ad un certo
punto attraversare, se davvero vogliono dare una risposta, non tanto al
Capitano del Papeete, quanto a tutte le persone che hanno fatto cortocircuito
nel rancore, e che, invece di rivendicare diritti e libertà, reclamano ordine e
disciplina” (Idem). Può darsi che sia vero. Che le piazze delle sardine
siano posizionate sulla parte medio-alta della piramide sociale, quantomeno in
quella meglio scolarizzata. O forse no: anche nel post-proletariato urbano
resiste una memoria civile e civica che la falce della crisi non ha estinto e
che lo sciame ittico può risvegliare. Come che sia, comunque questo è
un gioco a cui non mi piace giocare. Non mi iscrivo al partito di quelli
del “bravi si, ma”… E nemmeno a quello di chi incalza chiedendo strutturazione,
organizzazione, trasformazione in soggetto politico subito, qui e ora, per
durare, contare, decidere! Non so se le Sardine dureranno. Se
prenderanno nello spazio politico italiano il posto che anni fa occupò Grillo con
le sue piazze del V-Day o se passata la marea si dissolveranno come a volte
accade agli sciami. E anche in questo caso non lo considererei un
fallimento. Il risultato che le piazze di questi giorni producono non è
“esterno”, è “interno”, ha a che fare con coscienza e sentimenti delle persone
che vi partecipano. Con la modificazione del loro “sentire”. Il senso di
presenza, come Comunità, di chi è stato in una di quelle piazze, ognuno se lo
porterà dentro per i mesi e forse gli anni prossimi. E sarà un pezzo di
identità collettiva sottratto all’imbarbarimento populista e a questo
consapevolmente contrapposto. Vi pare poco?
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