«Julian Assange in quella
prigione sta rischiando la vita» - Filippo Zanoli
Una lettera collettiva, firmata da
60 medici e pubblicata sul web, mette in guardia le autorità britanniche delle
pessime condizioni di salute di Julian Assange.
Il 48enne fondatore di
Wikileaks attualmente si trova in un carcere di massima sicurezza a
Belmarsh, in attesa di un'estradizione negli Stati Uniti - prevista per
febbraio - dove rischia fino a 175 anni di carcere.
L'appello di 16 pagine si
basa su alcune «agghiaccianti testimonianze oculari» - scrive il
Guardian - riguardanti la sua apparizione davanti al giudice il 21 ottobre e un
rapporto redatto da Nils Melzer, Relatore speciale sulla tortura delle
Nazioni Unite, che ha affermato: «Se gli abusi e i maltrattamenti non
cesseranno, rischia di perdere la vita»
Una tesi, questa, poi
ripresa dagli specialisti: «Il signor Assange necessita di
urgenti visite mediche che ne determinino le sue condizioni fisiche e mentali»,
riporta il documento, «se questo non potrà essere possibile in tempi brevi,
temiamo che il signor Assange possa perdere la vita in prigione. È una
situazione davvero urgente».
Apparso davanti al giudice il mese
scorso - dopo 6 mesi - l'ideatore di Wikileaks era apparso emaciato,
fragile e in difficoltà. Interpellato dal giudice aveva mostrato un evidente
stato confusionale, non riusciva a ricordare nemmeno la sua data di nascita.
Al termine della sessione aveva
detto alla corte di non aver capito cosa fosse successo quel giorno,
lamentandosi poi delle sue condizioni di detenzione.
Il lento assassinio di
Assange - Michele Paris
In parallelo al grave
deterioramento delle condizioni psico-fisiche di Julian Assange, martedì la
magistratura svedese ha archiviato per l’ennesima volta l’indagine preliminare
a carico del fondatore di WikiLeaks, basata su accuse
ultra-screditate di violenza sessuale risalenti a quasi un decennio fa. La
decisione della procura di Stoccolma era inevitabile, vista la totale
inconsistenza del caso, ma dimostra ancora una volta come il procedimento fosse
stato creato ad arte per incastrare Assange. La sua estradizione negli Stati
Uniti resta invece ancora molto probabile, come ha testimoniato nuovamente
l’udienza preliminare di questa settimana in un tribunale di Londra in
previsione del dibattimento vero e proprio fissato per il prossimo mese di
febbraio.
La vicenda legale di Assange in
Svezia, mai sfociata in un’incriminazione formale, aveva avuto fin dall’inizio
due chiarissimi obiettivi, per raggiungere i quali furono manipolati in modo
clamoroso sia i fatti alla base delle accuse sia le testimonianze delle due
presunte vittime. Il primo era la costruzione di un vero e proprio complotto
pseudo-legale necessario a favorire l’estradizione di Assange negli USA. Il
secondo per infangare il nome del giornalista australiano, facendolo passare
per uno “stupratore” in fuga dalla giustizia, e creare un clima tale da
indebolire le resistenze nell’opinione pubblica alla sua persecuzione.
Entrambe le accusatrici o presunte
tali, è bene ricordare, intendevano chiedere alle autorità di polizia svedesi
soltanto un test HIV per Assange, con il quale avevano avuto rapporti
consensuali. Furono la polizia stessa e la magistratura a insistere per una
denuncia e in seguito a emettere un ordine di arresto per il giornalista
australiano. Inizialmente, anzi, il caso era stato chiuso da un magistrato
proprio perché senza fondamento. Assange aveva allora lasciato la Svezia per
recarsi a Londra. Solo in seguito, un altro procuratore avrebbe deciso di
riaprire le indagini, verosimilmente dietro pressioni di ambienti politici
filo-americani, chiedendo un “mandato di arresto europeo” per Assange.
Per anni, le autorità svedesi
avevano insistito sulla possibilità di sentire quest’ultimo soltanto di persona
e nel loro paese, nonostante i numerosi precedenti di interrogatori condotti in
Gran Bretagna o in collegamento video. Assange aveva contestato nei tribunali
britannici la richiesta di estradizione, ben sapendo che la Svezia aveva
intenzione di mettere le mani su di lui per poi consegnarlo a Washington.
Esaurite le strade legali per la sua difesa, il fondatore di WikiLeaks decise
nel giugno del 2012 di chiedere asilo politico presso l’ambasciata dell’Ecuador
a Londra, dove sarebbe rimasto fino all’arresto illegale nell’aprile di
quest’anno, orchestrato dai governi della Gran Bretagna e del paese
sudamericano sotto la guida del nuovo presidente, Lenin Moreno.
Durante la permanenza nella
rappresentanza diplomatica ecuadoriana, Assange è stato sottoposto a una lunga
serie di violazioni dei suoi diritti, tra cui la sorveglianza continua di tutte
le sue attività da parte di una compagnia spagnola al servizio
dell’intelligence americana. Come hanno rivelato alcune e-mail pubblicate
qualche tempo fa dalla stampa, inoltre, i magistrati britannici avevano
insistito con quelli svedesi per prolungare il loro procedimento legale nei
confronti di Assange. Il caso sarebbe stato poi archiviato, per la seconda volta,
nel maggio del 2017, prima di essere riaperto in seguito al suo definitivo
arresto nel mese di aprile.
La nuova archiviazione di questa
settimana farà ben poco da un punto di vista legale per aiutare la posizione di
Julian Assange. Anche se sfociata nel nulla, l’indagine svedese ha comunque
svolto il ruolo per il quale era stata avviata. Nella sua durissima
comunicazione al governo di Stoccolma, il relatore speciale sulle torture
dell’ONU, Nils Melzer, aveva definito il caso svedese come “il principale fattore
che ha innescato, consentito e incoraggiato la successiva campagna persecutoria
contro Assange in vari paesi e il cui effetto cumulativo può essere definito
soltanto come tortura psicologica”.
Questa campagna ha dato anche
l’opportunità a buona parte della galassia “liberal” e finto-progressista
occidentale di manifestare il proprio servilismo di fronte al governo degli
Stati Uniti attraverso una serie di attacchi incrociati contro Assange per le
accuse infondate di stupro, sulla base di premesse ideologiche legate alle
politiche identitarie oggi tanto care alla “sinistra” ufficiale.
Particolarmente vergognoso è stato il trattamento riservato in questi anni ad
Assange da testate come il New York Times e il
britannico Guardian, scelti in passato da WikiLeaks per
la pubblicazione di documenti riservati del governo americano.
La notizia dell’archiviazione
dell’indagine in Svezia deve avere creato qualche malumore nel governo di
Londra e nella magistratura britannica. Il caso aperto a Stoccolma aveva infatti
lasciata aperta l’opzione di una possibile estradizione verso la Svezia
piuttosto che verso gli USA, in modo da permettere agli ambienti implicati
nella persecuzione di Assange di consegnarlo a un paese il cui rispetto per i
diritti democratici è presumibilmente indiscutibile e dove lo attendeva un
procedimento tutto sommato di lieve entità.
In questo modo, la classe dirigente
britannica avrebbe potuto in sostanza lavarsi le mani circa la sorte di Assange
ed evitare almeno in parte le reazioni dell’opinione pubblica e dei sostenitori
del giornalista australiano in caso di estradizione negli Stati Uniti. Dopo che
la Svezia ha però chiuso l’indagine preliminare, sarà la magistratura e il
governo della Gran Bretagna ad avere la piena responsabilità dell’eventuale
consegna di Assange alla vendetta di Washington.
Per avere svolto il proprio lavoro
di giornalista, rivelando i crimini dell’imperialismo americano e non solo,
Assange rischia di dovere affrontare negli Stati Uniti ben 18 capi d’accusa
relativi, tra l’altro, all’hackeraggio di computer governativi e ad attività di
spionaggio, rischiando complessivamente fino a 175 anni di carcere. Per evitare
lo stop all’estradizione dalla Gran Bretagna, le autorità americane non hanno
presentato accuse che potrebbero prevedere la pena di morte. Tuttavia, una
volta che Assange sarà nelle mani della giustizia USA, è interamente possibile
che simili accuse si aggiungano a quelle già formulate.
La situazione di Julian Assange
appare comunque sempre più delicata. Il già ricordato funzionario delle Nazioni
Unite ha in più di un’occasione mostrato e denunciato l’illegalità del
trattamento a lui riservato da Gran Bretagna e Stati Uniti, così come
dall’Ecuador, che lo ha consegnato alle autorità di Londra rinnegando l’asilo concesso
nel 2012, e dall’Australia, paese di origine di Assange di fatto sempre
rifiutatosi di difendere i suoi diritti.
Oltre al pericolo di
un’estradizione negli Stati Uniti, è la stessa vita del numero uno di WikiLeaks a
essere oggi seriamente minacciata. La salute di Assange è in continuo
deterioramento e, ciononostante, non sembra essere in vista nessun allentamento
delle condizioni di detenzione nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh,
dove oltretutto il suo diritto alla difesa viene severamente ristretto.
Anche alla luce dell’ostilità dei
giudici che stanno presiedendo alla sua causa, alcuni con legami famigliari
documentati agli ambienti della “sicurezza nazionale” britannica e americana, è
del tutto legittimo pensare che l’opzione preferita dalle autorità britanniche
sarebbe precisamente la morte in carcere di Assange. Quello che ammonterebbe a
tutti gli effetti a un assassinio di stato di colui che a oggi è forse il più
importante detenuto politico del pianeta, risolverebbe molti problemi per Londra,
evitando le inevitabili polemiche e proteste che finirà per scatenare
l’estradizione verso Washington.
La vicenda Assange, ad ogni modo,
ha un’importanza enorme, malgrado il sostanziale disinteresse dei media
ufficiali. Al di là delle colossali violazioni dei suoi diritti e del
comportamento criminale di almeno cinque governi, una sua condanna avrebbe
implicazioni inquietanti per il principio stesso della libertà di stampa. La
persecuzione nei confronti di Assange e di WikiLeaks ha
infatti come obiettivo ultimo il tentativo di impedire a qualsiasi testata
giornalistica la legittima pubblicazione di notizie e materiale riservato,
soprattutto se relativo ai crimini e alle operazioni anti-democratiche del
governo degli Stati Uniti.
Assange deve tornare
libero, ma WikiLeaks fa parte del passato - Benedetto Vecchi
Julian Assange deve
tornare ad essere un uomo libero. Non perché è un anticapitalista,
né un fiero avversario dell’imperialismo yankee, né tantomeno un navigato
rivoluzionario di professione.
Deve poter continuare a fare quel
che ha sempre fatto: veicolare informazione; e esplorare un mondo molto
diverso da quello che ha dovuto lasciare precipitosamente sei anni fa quando si
è rifugiato nell’ambasciata ecuadoriana per sfuggire a una estradizione in
Svezia, dove l’attendeva un processo per stupro.
L’ACCUSA CHE ASSANGE ha
sempre denunciato come una trappola americana per incastrarlo e poterlo, dopo
una prima tappa nel paese scandinavo, segregarlo dietro le sbarre.
Da libero, inoltre, il fondatore di
WikiLeaks potrebbe dare un contributo a definire la mappa dei legami, mutevoli
nel tempo e nello spazio in una oscillazione tra conflitto e complicità, tra
attitudine hacker, media mainstream, servizi di intelligence e poteri economici
e politici.
Jillian Assange, lo
ha accennato Manlio Dinucci anche su questo giornale il 22
novembre, viene dalla controcultura hacker australiana. In nome della libera
circolazione dell’informazione riteneva che il segreto di Stato e i data center
delle imprese fossero ostacoli da rimuovere affinché uomini e donne potessero
accedere all’informazione senza limiti che non quelli dettati dalla personale
curiosità.
Per il superamento di questi
limiti, aveva bussato alle porte di molti gruppi hacker;
si era presentato anche ad alcuni forum sociali mondiali. Poi la scelta di
mettere in piedi WikiLeaks.
In base a questa tesi WikiLeaks
convince alcune teste d’uovo di imprese a passare materiali «sensibili» su
episodi di corruzione in Africa. Li pubblica sul suo sito, consentendo a chi si
collega di scaricarli.
ASSANGE HA CARISMA e
determinazione. Scrive buon codice, cosa che gli merita il rispetto dei virtuosi
della tastiera; sa parlare in pubblico, catturando l’ attenzione di chi guarda
inorridito all’entrata di imprese dentro la Rete, sempre più ritenuta terreno
di caccia e da colonizzare per fare business.
Mentre gli Stati nazionali, con
i loro servizi di intelligence, puntano di nuovo controllare uno spazio
sfuggito al loro controllo. WikiLeaks doveva quindi candidarsi, questo
l’obiettivo di Assange, a diventare la organizzazione non governativa che
accompagnava si la critica ma anche la cogestione di questa trasformazione in
atto.
TUTTO POTEVA PROCEDERE senza
grandi scossoni se non fosse entrato in campo un militare che riteneva il suo
ruolo antitetico a quanto postulava la linea di condotta della divisa che
indossava.
L’esercito Usa doveva
garantire pace, democrazia e libertà, ma nei fatti faceva il contrario. Chelsea
Manning aveva accesso a dati scottanti riguardanti operazioni
dell’esercito a stelle e strisce in Iraq, a partire dall’uccisione di alcuni
civili da parte di un elicottero Apache. Materiali che Manning passa a
WikiLeaks che li rende pubblici. Assange diviene il responsabile, assieme al
traditore Manning.
WikiLeaks è quindi una
organizzazione da mettere al bando, Manning, tradito da un hacker amico, viene
arrestato, Assange
è inseguito da un mandato di cattura internazionale.
QUEL CHE L’INTELLIGENCE statunitense
non poteva immaginare era la fila di potenziali whistleblowers che bussano alle
porte di WikiLeaks. Assange invece capisce che l’occasione è quella propizia
per il grande salto, liquidando con fastidio le critiche di chi lo accusa di
accentrare nelle sue mani le decisioni.
Alle accuse di comportarsi come un
autocrate, Assange risponde mettendo fuori i dissenzienti. I risultati positivi
delle operazioni contro informative di WikiLeaks sono però indubbi. Edward
Snowden si fa vivo con le sue informazioni sull’operato non pulito di
spionaggio globale della National Security Agency americana. WikiLeaks deve
decidere come gestirle. Assange non ha dubbi. Bisogna che nella
partita entrino a far parte i «cugini» dei media, che da nemici della
verità diventano preziosi collaboratori. Serve tuttavia una copertura politica
globale da qualche governo nazionale, individuata nella Russia di Putin e in
altre realtà politiche che stanno provando nel continente latinoamericano a
sottrarsi all’influenza politica degli Usa.
JULIAN ASSANGE ACCELERA la
trasformazione di WikiLeaks in una sorta di intermediario imprenditoriale dei
media che si propone sia come organizzazione complementare che come critica al
sistema. Una ambivalenza che porta gran parte della galassia militante hacker a
prendere le distanze senza però mai giungere a una critica pubblica di
WikiLeaks.
La
macchina poliziesca messa in campo contro Assange brucia però
il terreno di solidarietà attorno a lui. Assange chiede protezione a vecchi e
nuovi sodali. Prova più volte a entrare nel gioco politico
statunitense, sostenendo di essere in possesso di dati scottanti all’interno
di uno schema in base al quale il partito democratico è il nemico da
combattere, mentre i repubblicani sono nemici risibili e irrilevanti.
Il
carisma di Julian Assange non sarebbe comprensibile senza
fare infine riferimento alle sue tesi sul cypherpunk, cioè il diritto
all’anonimato di chi è in Rete (cypherpunk è anche titolo del volume pubblicato
da Feltrinelli, il manifesto del 13 agosto 2013).
In questa veste di paladino dell’anonimato ne sostiene la piena compatibilità con l’economia di mercato.
In questa veste di paladino dell’anonimato ne sostiene la piena compatibilità con l’economia di mercato.
Ma è la Rete che è cambiata
nel frattempo. È il
capitalismo delle piattaforme e della sorveglianza che ha preso forma,
facendo leva proprio sulla retorica della libera circolazione delle
informazioni. Sono Facebook, Google, Amazon, Apple coloro che mettono insieme
velleità libertarie e voglia di profitto all’interno di un modello di business
fondato sulla gratuita dell’accesso a servizi, software e informazioni.
In questo scenario WikiLeaks è roba
del passato, così come uomo di un’epoca archiviata dallo sviluppo capitalista è
Julian Assange. Prova più volte a tornare in gioco. Ma deve vedersela con la
voglia di rivincita di funzionari del Pentagono, del ministero della Giustizia,
dell’intelligence statunitense.
PUTIN POI PREFERISCE un
canale di comunicazione diretto, privilegiato con Donald Trump, cioè con il
nuovo inquilino della Casa Bianca e Assange è solo una palla al piede.
Pure l’Ecuador non ne può più della
sua presenza, come rifugiato, nell’ambasciata londinese e il nuovo presidente
Lenin Moreno dà il via libera all’entrata della polizia inglese nella sede
dell’ambasciata, elemento che consente l’arresto di Assange.
Quel che rimane sul terreno sono
molti cocci. Più incandescenti sono quelli di chi ha a cuore la libertà della
Rete. Cioè le difficoltà di una critica hacker adeguata al capitalismo delle
piattaforme e della sorveglianza. Rimetterli insieme non è facile.
Di sicuro il compito sarebbe
facilitato se Julian Assange tornasse ad essere un uomo libero. Perché la
rivoluzione, diceva un saggio, marcia con il passo del rivoluzionario più
lento. Oppure quella che non lascia indietro neppure un transitorio e
contingente compagno di viaggio come è Julian Assange.
Assange e l’uomo della CIA
- Michele Paris
Il carattere illegale e
persecutorio del procedimento in atto a Londra contro Julian Assange è stato
nuovamente dimostrato nelle ultime settimane con l’emergere di rivelazioni
riguardanti un ordine di sorveglianza di tutte le attività del fondatore di WikiLeaks durante
la sua permanenza forzata all’interno dell’ambasciata ecuadoriana nel Regno
Unito. La notizia, diffusa dal quotidiano spagnolo El País,
smonta o dovrebbe smontare definitivamente l’incriminazione di Assange, i cui
basilari diritti democratici sono stati ancora una volta fatti a pezzi in
maniera deliberata.
Quello del giornalista australiano
non è però un caso normale, visto che il suo status di detenuto politico lo
espone ancora e nonostante tutto al rischio di estradizione negli Stati Uniti,
dove, nell’ipotesi forse nemmeno peggiore, potrebbe trascorrere il resto dei
suoi giorni in un carcere federale per il solo fatto di avere rivelato alcuni
dei crimini dell’imperialismo americano.
Il 20 dicembre prossimo, Assange
sarà interrogato in collegamento video dal giudice spagnolo José de la Mata,
titolare del caso che vede alla sbarra David Morales, proprietario della
compagnia di “security” UC Global. Quest’ultima era stata reclutata dai servizi
segreti dell’Ecuador per “violare la privacy di Assange e dei suoi legali,
installando microfoni all’interno dell’ambasciata ecuadoriana senza il consenso
delle parti interessante”. Questa attività illegale di sorveglianza a tappeto,
come avrebbe ammesso lo stesso Morales, serviva a raccogliere informazioni su
Assange e le persone che intendevano fargli visita per poi consegnarle anche
alla CIA.
L’aspetto più grave del controllo
costante del numero uno di WikiLeaks commissionato da
Washington riguarda l’intercettazione di tutte le comunicazioni intrattenute
con i suoi legali. La riservatezza degli scambi di informazione tra avvocato e
assistito è uno dei principi basilari del diritto in un pese democratico o
presunto tale, inclusi gli Stati Uniti. La violazione, oltretutto sistematica,
di esso costituisce di conseguenza un motivo ampiamente sufficiente a
compromettere la legittimità di un procedimento legale.
Se Assange dovesse essere
trasferito negli USA, anche tralasciando la totale infondatezza delle accuse a
suo carico, è evidente che il processo a cui sarebbe sottoposto in questo paese
risulterebbe falsato da abusi inconcepibili in un procedimento democratico,
come ad esempio il fatto che l’accusa sarebbe a conoscenza in anticipo delle
strategie difensive dell’imputato.
Per la gravità dei fatti,
l’indagine in corso in Spagna minaccia, almeno in linea teorica, l’estradizione
stessa di Julian Assange negli Stati Uniti. Per questa ragione, la giustizia britannica
aveva inizialmente respinto la richiesta, presentata il 25 settembre scorso,
del giudice spagnolo de la Mata di sentire la testimonianza di Assange
attraverso uno strumento chiamato Ordine Europeo di Indagine. Secondo El
País, il rifiuto aveva creato non pochi “imbarazzi nei circoli legali” di
Londra perché simili richieste vengono in genere approvate “in maniera
automatica”.
La decisione iniziale delle
autorità giudiziarie britanniche era così insolita e ingiustificata, tanto da
rivelare apertamente le pregiudiziali anti-Assange, che è stata ribaltata nei
giorni scorsi. Il via libera concesso al giudice spagnolo per sentire Assange
sulla vicenda UC Global deve avere in ogni caso creato qualche apprensione
all’interno del governo di Londra. Il procedere dell’indagine metterà infatti
sempre più in luce il comportamento criminale dei governi che hanno orchestrato
la persecuzione di Assange, alimentando la crescente opposizione internazionale
e le richieste per una liberazione immediata.
Il collegamento tra UC Global e la
CIA o, comunque, tra la compagnia spagnola e l’indagine su Assange della
giustizia americana era stato confermato da un’altra rivelazione apparsa a
inizio novembre su El País. Il quotidiano era entrato in possesso
di alcune e-mail inviate da David Morales ai suoi dipendenti nel marzo del 2017
e l’indirizzo IP di questi messaggi indicava la sua presenza in quel periodo
nella città di Alexandria, nello stato americano della Virginia.
Questa località, a una manciata di
chilometri da Washington e dalla sede della CIA, ospita il tribunale federale
che sta indagando su Assange e che ha sottoposto la richiesta di estradizione
alle autorità britanniche. Morales si trovava in Virginia proprio in
concomitanza con la pubblicazione da parte di WikiLeaks della
raccolta di documenti nota come “Vault 7”, relativi alle attività illegali di
spionaggio e cyber-sorveglianza su scala globale della principale agenzia di
intelligence USA.
Anche se El País non
dispone di elementi per confermare le ragioni della trasferta americana di
Morales, è altamente probabile che quest’ultimo avesse fornito la propria
testimonianza in merito al lavoro della sua compagnia nell’ambasciata
ecuadoriana di Londra ai danni di Assange.
Morales è comunque un assiduo
frequentatore degli Stati Uniti. Altre informazioni sui suoi spostamenti lo
davano ad esempio spesso a Las Vegas, ospite del miliardario americano Sheldon
Adelson, per il quale aveva lavorato. Adelson è uno dei più generosi
finanziatori del Partito Repubblicano, nonché amico personale del presidente
Trump. Da ricordare infine riguardo David Morales è anche che uno dei
dipendenti della sua società risulta essere un ex agente della CIA.
Com’è sempre accaduto finora,
l’apparire di elementi potenzialmente favorevoli alla battaglia legale di
Julian Assange è finito sotto il fuoco incrociato della stampa ufficiale,
soprattutto negli Stati Uniti. Il New York Times, tra gli altri,
è intervenuto tempestivamente per cercare di minimizzare la questione della
sorveglianza condotta da UC Global. La tesi di questi media, che agiscono di
fatto da portavoce del governo e dei servizi di sicurezza americani, è che la
scandalosa violazione della privacy e dei diritti democratici di Assange è in
sostanza giustificata e legittima a fronte delle implicazioni per la “sicurezza
nazionale” del suo caso.
La vicenda di Assange ha una serie
di risvolti che ne fanno una questione di importanza enorme, non solo per il
pericolo che sta correndo la sua stessa vita. L’incriminazione, l’eventuale
estradizione e condanna del fondatore di WikiLeaks rappresenterebbero
un colpo mortale alla libertà di stampa, dal momento che la sua organizzazione
null’altro ha fatto se non svolgere in pieno uno dei compiti del giornalismo,
cioè pubblicare documenti di assoluto interesse pubblico che i governi
intendono tenere nascosti.
Come dimostrano inoltre gli ultimi
sviluppi del caso, in gioco ci sono anche altri diritti democratici
fondamentali, messi in pericolo dal tentativo sistematico di cancellare i
principi del giusto processo, fissati in primo luogo proprio dalla Costituzione
americana. L’intenzione dei governi di Londra e Washington, in collaborazione
con quelli di Ecuador, Svezia e Australia, è dunque di fare di Assange un
esempio per soffocare qualsiasi voce libera che si opponga alle loro manovre e
ai loro crimini.
Davanti a queste forze, sostenute
da un apparato mediatico non meno potente, la battaglia per la difesa di
Assange non potrà essere vinta affidandosi soltanto al diritto e agli scrupoli
democratici di esponenti del potere giudiziario gravemente compromessi con la
classe politica britannica e americana. Solo una mobilitazione dal basso che
unisca la voce del giornalismo libero e dell’opinione pubblica internazionale
sarà in grado di difendere Assange e i principi democratici messi in serio
pericolo dalla sua persecuzione.
su Arte
tv un reportage intitolato Un mondo senza Julian Assange
Nessun commento:
Posta un commento