domenica 29 dicembre 2019

Resistere alla prepotenza e al panico - Gustavo Esteva




Il pianeta è in fiamme, non bruciano solo l’Amazzonia o la California. Ardono la rabbia e l’insofferenza. L’America Latina è solo la punta del proverbiale iceberg. La sua ebollizione è la più visibile, ma non è l’unica e nemmeno la principale. Il prolungato accumulo di iniquità, la compulsione a distruggere, l’arroganza, il cinismo e la prepotenza delle élite, e in molti casi il semplice istinto di sopravvivenza continuano ad alimentare un’immensa ondata di ribellione in tutto il mondo.
Le espressioni di malcontento non sono tutte dello stesso tipo. Alcune gocce che fanno traboccare il vaso, come l’aumento del prezzo dei trasporti o dei carburanti, si assomigliano, ma i vasi sono molto diversi. Il Libano e Haiti non sono la stessa cosa, come non lo sono il Cile e l’Argentina, Hong Kong e la Catalogna. Lo stato d’animo generale – rabbia, insofferenza – assume forme politiche molto diverse. Non c’è ancora un comune denominatore in questa immensa e poliedrica reazione allo stato di fatto.
Nelle strutture di potere le cose sono più chiare ed omogeneeHanno in comune modelli di risposta che combinano pericolosamente prepotenza e panico.
Il modo di produzione capitalistico si è trasformato in una modalità di spoliazione, con lo smantellamento di buona parte di quanto era stato ottenuto in secoli di lotta e con il deterioramento delle condizioni materiali di vita della maggioranza. Si è cercato attivamente di provocare la frammentazione delle strutture comunitarie e l’indebolimento delle organizzazioni di lotta.
È morto così lo Stato-nazione democratico, la forma politica del capitalismo. Il suo intrinseco dispotismo si è accentuato nello Stato di sicurezza. Il terrorismo e altre minacce reali o inventate hanno costituito il pretesto per estendere e rafforzare dispositivi autoritari. Poiché neppure questo è stato sufficiente, in questo secolo si è cominciato a costruire la società del controllo. Nuove tecnologie sono state messe al servizio di dispositivi il cui obiettivo ultimo è il controllo di tutti gli aspetti della vita quotidiana.

Da tutte le parti i governi hanno imparato a non fare caso allo scontento. Ci sono molteplici esempi delle loro reazioni prepotenti e ciniche di fronte a mobilitazioni di qualsiasi genere. Quando queste ultime sono più pericolose o più intense, la risposta generale è stata la repressione diretta, arricchita con procedure standardizzate che includono sempre più spesso l’impiego di agenti provocatori. È apparso evidente che organizzazioni forti e con una grande esperienza, come la Conaie dell’Ecuador, sono in grado di affrontare meglio queste strategie governative rispetto ai giovani cileni o alle prime ondate di gilè gialli.
Quando la pratica repressiva arriva ai suoi limiti e diventa controproducente, stimolando e intensificando la mobilitazione, i governi reagiscono con concessioni, sia retoriche che reali. Per prima cosa ritirano le direttive che hanno scatenato le mobilitazioni (ad esempio gli aumenti dei prezzi), poi cominciano ad accumulare altre concessioni che soddisfino rivendicazioni esplicite. Il loro panico aumenta quando nessuna di queste misure riesce a contenere la ribellione. Cominciano allora a potenziare i dispositivi di controllo e manipolazione, come la “società di vigilanza” che è stata recentemente proposta da Macron in Francia.
Molte reazioni popolari seguono schemi convenzionali. La ribellione si esprime in occasioni come una semplice tornata elettorale o assume forme apparentemente molto radicali… che pretendono di cambiare tutto perché niente cambi. Nessuna organizzazione sembra preparata all’esigenza crescente di un cambiamento profondo, mentre il grido argentino: “Che se ne vadano tutti!” significa realmente disfarsi delle strutture dominanti in tutti i loro aspetti. Scarseggiano le proposte anche solo per la transizione.
A livello di base, tuttavia, nei villaggi e nei quartieri popolari, si va sempre più costruendo un modo diverso di reagire, che non rompe col passato (come ha fatto la modernità) ma neppure si radica in esso. Per esperienza si sa che le modalità convenzionali di lotta risultano obsolete e persino controproducenti. La primavera araba e l’era dei governi progressisti insegnano che cambiare un governo non è la soluzione. Si usano gli strumenti convenzionali solo in determinate circostanze e per obiettivi specifici. Altrimenti si fanno altre cose. Le comunità prendono le distanze e si scollegano dalle strutture di potere. Senza terre promesse e senza fantasie utopiche, seminano continuamente embrioni di futuro. Coltivano l’idea che i ponti si costruiranno quando verrà il momento di attraversarli.
Poiché si generalizza quella che sembra un’insurrezione e ci si accorge di possedere forze e passioni che sembravano irraggiungibili a livello generale, cresce una nuova speranza e la si recupera come forza sociale. Vecchie inerzie e nuove ambizioni limitano tuttavia le capacità di affrontare quello che abbiamo sopra la testa. La distruzione che accompagna il collasso climatico e socio-politico e le reazioni spesso devastanti che il panico dei governi porta con sé pongono sfide immense. Non si può anticipare i tempi né cantare vittoria. Niente ormai ci fermerà, ma siamo solo alle prime battaglie.
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Fonte: “Resistir la prepotencia y el pánico”, in La Jornada.
Traduzione a cura di Camminardomandando.

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