lunedì 9 dicembre 2019

ricordando ancora Alessandro Leogrande, due anni dopo





Alessandro Leogrande, la sua scrittura come un dipinto di Caravaggio - Tomaso Montanari

I fratelli Rosselli erano profondamente convinti che per reagire al «crollo di un’intera struttura nazionale» bisognasse agire: ma «prima di agire bisognava capire». Ecco, anche la Fondazione Premio Sila è profondamente convinta che la nostra opposizione allo stato delle cose debba nutrirsi di esempi «di carattere e di forza morale» (come i Rosselli, appunto): è esattamente per questo che oggi – in questo drammatico momento storico, culturale, politico – abbiamo deciso di attribuire questo premio alla figura e all’opera di Alessandro Leogrande. Perché ci manca la sua voce. E perché, al tempo stesso, la sua voce continua a parlarci – dai suoi libri, dai suoi articoli – con una forza straordinaria.
Alessandro, ha scritto il suo maestro e compagno di strada Goffredo Fofi, «è stato una delle presenze più acute e morali non solo della sua generazione, in anni della nostra storia  che dire pessimi, o meglio squallidi, è dire poco. […] I libri di Alessandro sono qualcosa di più dell’inchiesta, sono buona letteratura, che sarebbe probabilmente diventata col tempo ottima. […] Gaetano Salvemini accusava gli intellettuali meridionali di essere ‘sconcreti’, lui non lo era, e non lo è stato Alessandro, […] il migliore tra gli italiani della sua generazione».
Ebbene, per me e per molti, La Frontiera (il libro di Alessandro uscito nemmeno quattro anni fa, nel novembre del 2015) ha già il sapore di un classico. Di un libro, cioè, che è necessario leggere per capire il tempo e lo spazio in cui viviamo: e anche per decidere da che parte stare. Già, perché è un libro che, a leggerlo, rende semplicemente impossibile l’indifferenza: quell’ «indifferentismo» che, diceva Piero Calamandrei, è l’esatto contrario di «resistenza». Perché la Frontiera non è un libro sulla migrazione, e non è nemmeno un libro sui migranti: ma è un libro dei migranti, e coi migranti. Cioè tessuto delle loro voci, costruito con loro: facendo costantemente reagire due umanità messe a nudo.
L’ultimo capitolo si intitola Tutta la violenza del mondo. E parla di Caravaggio. Parla del Martirio di San Matteo, il grande quadro che Caravaggio dispone sulla parete destra, per chi guarda, della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi a Roma. Un quadro di oltre quattrocento anni fa: che parla di noi.
In primo piano c’è un delitto, un fattaccio di cronaca nera in una chiesa di Roma. Un sicario, nudo, sta per sgozzare un vecchio prete, proprio sull’altare. Una folla assiste all’evento. Sono i benpensanti riuniti per la messa: ben vestiti eleganti, sicuri. Si ritraggono orripilati, ma non fanno nulla: non intervengono. Sono la zona grigia. La «gran massa inerte che lascia fare», nelle parole di Calamandrei e di Rosselli. In quella folla, nota Alessandro, tutti sappiamo che Caravaggio ha rappresentato se stesso.
«Caravaggio non fugge – scrive – guarda la vittima perché non può fare altro che stare dalla sua parte e vedere come va a finire ciò che si sta per compiere. Ha già intuito tutto, ma non interviene. Sa di non poter intervenire, di non poter fermare quella spada. La sua commiserazione è ancora più dolorosa, perché totalmente impotente. La lucida interpretazione dei fatti, e ancor più il genio dell’arte, non arrestano il massacro. Si può solo provare pietà. Dipingendo il proprio sguardo, Caravaggio definisce l’unico modo di poter guardare all’orrore del mondo. Stabilisce geometricamente la giusta distanza a cui collocarsi per fissare la bestia. Dentro la tela, manifestamente accanto alle cose, non fuori col pennello in mano. Eppure sa anche che tale sguardo è inefficace, non cambierà il corso delle cose». Ebbene, concludeva Alessandro: «Ora mi chiedo se lo sguardo di Caravaggio non sia anche il nostro sguardo nei confronti dei naufragi, dei viaggi dei migranti e soprattutto dalla violenza politica e economica che li genera. Nella migliore delle ipotesi, ovviamente. Quando cioè quello sguardo non è inquinato dall’apatia, dall’indifferenza, dallo stesso fastidio per l’oscenità della morte. Quando quello sguardo non è già, fin dal principio, connivente con la lama dell’aguzzino».
Alessandro Leogrande guarda tutta la violenza del mondo attraverso gli occhi di Caravaggio: perché è Caravaggio – coi suoi corpi vessati, torturati, mutilati, decapitati: violati senza speranza di resurrezione né di umana giustizia – a dire la verità sul rapporto tra i corpi e il potere. «L’arte – scriverà Michel Foucault – deve stabilire con la realtà un rapporto che non è più di ornamento, di imitazione, ma di messa a nudo, di smascheramento, di ripulitura, di scavo, di riduzione violenta alla dimensione elementare dell’esistenza». L’arte di Caravaggio, la scrittura di Alessandro Leogrande.
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Alessandro Leogrande. Nel quadro, un passo indietro - Salvatore Romeo

Due anni fa ci lasciava, a soli 40 anni, lo scrittore tarantino. La sua idea di cultura come terreno centrale dello scontro politico è un punto di riferimento

«Cosa avrebbe scritto Alessandro di quello che sta succedendo all’ex Ilva?». Questa domanda mi ossessiona da qualche settimana. E prima ancora il bisogno di chiamarlo, di parlare con lui del gran caos che abbiamo sotto gli occhi. Ma è come quando qualcosa ti tiene immobilizzato, e devi rassegnarti a una forza sovrastante. Ti resta un senso opaco di impotenza: è la perdita, che ti trascini addosso ogni giorno come un peso invisibile.
Quando Alessandro Leogrande ci ha lasciati, due anni fa, era ancora troppo giovane, ma aveva già maturato un curriculum di tutto rispetto. Una decina di libri, una quantità innumerevole di articoli, saggi, interventi sugli argomenti più disparati; l’esperienza come vice-direttore (in realtà co-direttore, come ha riconosciuto lo stesso Goffredo Fofi) de Lo Straniero, attraverso la quale ha lasciato un’impronta rilevante sulla formazione delle nuove leve della letteratura italiana. Un’opera che dev’essere ancora metabolizzata, all’interno della quale spicca una straordinaria vastità di interessi: dalla narrativa alla storia, dalla politica alla sociologia. La cassetta degli attrezzi di cui disponeva lo scrittore tarantino per leggere la realtà era straripante di suggestioni, e in continuo aggiornamento.
Con questi strumenti Leogrande ha indagato alcuni dei fenomeni che innervano in profondità il nostro tempo, con un punto di vista peculiare: non quello dell’osservatore distaccato, ma neanche quello di chi riporta senza filtri le impressioni raccolte sulla scena del mondo. Il suo metodo è illustrato nelle ultimissime pagine de La frontiera, dedicate al Martirio di San Matteo di Caravaggio. Egli si identifica con lo sguardo del pittore, che a sua volta entra nel dipinto ritraendosi nei panni di un personaggio che, a distanza, assiste al massacro. È la stessa posizione che Leogrande assume di fronte alle cose che sceglie di indagare: dentro il quadro, ma un passo indietro. È una posizione che gli permette di mediare l’osservazione con la riflessione, puntando a una ricostruzione razionale degli eventi attraverso le leve culturali di cui si è detto. Anche quando il racconto affronta aspetti scabrosi, il narratore non si ferma alla rappresentazione del particolare dal forte impatto emotivo, ma da quel punto fa irradiare una prospettiva che offre una lettura del fatto bruto alla luce dei processi che lo hanno prodotto. Tutte le grandi inchieste di Leogrande partono da un nucleo drammatico – un groviglio di sfruttamento, sopraffazione, negazione dell’umanità –; ne dipanano i fili, facendo emergere i contorni della vicenda e i suoi protagonisti; infine lo trasportano in una dimensione storico-politica in cui «l’orrore» assume connotati intellegibili. In questo modo «la violenza del mondo», pur mantenendo la sua insopprimibile assurdità, diventa comprensibile. Su queste basi si può costruire un’ipotesi di azione sulla realtà – che sarebbe invece ostacolata da una rappresentazione immediata, che lascerebbe lo spettatore solo con il suo turbamento. O meglio, un’ipotesi progettuale di trasformazione della realtà.
In Leogrande metodo narrativo e prospettiva politica si intrecciano nel segno di un «illuminismo» che ha riferimenti politico-culturali molto variegati. Nei suoi lavori lo cerca continuamente il contatto con alcuni maestri del passato: da Gaetano Salvemini a Raniero Panzieri, da Carlo Pisacane a Pierpaolo Pasolini, da Rocco Scotellaro ad Alex Langer, solo per citarne alcuni. Figure in alcuni casi sideralmente distanti, che lo scrittore tarantino raccoglie in una galassia ideale a cui attribuisce come tratti distintivi la prassi della critica e la ricerca di un nuovo orizzonte di possibilità. In lui questi momenti sono strettamente correlati: la politica è un’azione intelligente, che parte dalla comprensione delle cose e si traduce nello sforzo di modificarle sulla base di un’idea. 
Questa impostazione si fa strada gradualmente in Leogrande, attraverso l’esperienza storica all’interno della quale matura. Negli anni della sua (precocissima) formazione Alessandro vive a Taranto l’ascesa e il declino del «fenomeno Cito». È un trauma collettivo che lo tocca particolarmente: la città che fino a pochi anni prima aveva conosciuto il protagonismo di un robusto movimento operaio e delle sue articolazioni politiche e sociali, finisce nelle mani di un sindaco ex picchiatore fascista con rapporti ambigui con la criminalità organizzata. Un «telepredicatore» che usa il suo canale televisivo (Antenna Taranto 6) come clava contro gli avversari e come collante nei confronti degli spettatori-elettori – protagonisti attivi delle ordalie mediatiche attraverso il filo diretto con Giancarlo Cito. Tutto questo mentre nel resto del Mezzogiorno sembra diffondersi la «primavera» dei sindaci, con Antonio Bassolino a Napoli, Leoluca Orlando a Palermo, Enzo Bianco a Catania. Leogrande analizza questo passaggio in medias res, offrendo una chiave interpretativa originale. Agli occhi del giovane Alessandro – che a questo tema dedica il suo primo libro (Un mare nascosto, L’ancora del Mediterraneo, 2000) – Cito è il prodotto di una crisi più ampia che aveva investito il capoluogo ionico dagli anni Ottanta. La grande fabbrica aveva espulso migliaia di lavoratori, e i suoi nuovi proprietari – la famiglia Riva – si erano presentati con il volto truce dei «padroni delle ferriere». La crisi del siderurgico a sua volta aveva fatto esplodere le contraddizioni di una città cresciuta impetuosamente sull’onda delle aspettative di benessere suscitate dallo sviluppo degli anni Sessanta e Settanta: persa quella spinta, erano rimaste vaste voragini sociali e un diffuso senso di disagio. D’altra parte, le organizzazioni di massa che nella fase precedente avevano provato a mediare fra le grandi imprese e la società locale erano state marginalizzate dalla restaurazione padronale culminata con la privatizzazione. È in queste trasformazioni che Leogrande individua le radici di una delle prime esperienze populiste in Italia.
La vicenda di Giancarlo Cito si colloca nel pieno del terremoto sistemico che squassa il paese dopo la caduta del Muro. Essa mostra la reazione di una comunità che era stata fra le più beneficiate dall’espansione dei cosiddetti «trenta gloriosi» – al punto da diventare quasi un simbolo dell’efficacia dell’intervento pubblico – di fronte agli stravolgimenti che segnano quel passaggio d’epoca. Gli elementi che Leogrande mette in evidenza in quel frangente per spiegare un fatto politico apparentemente anomalo colgono aspetti di fondo di un fenomeno – il populismo – destinato a diventare pienamente organico.  
Di fronte al citismo – e, su scala più ampia, al berlusconismo – Leogrande sceglie la strada della militanza sul fronte della cultura. È in questo contesto che matura l’esperienza de Lo Straniero: non semplicemente una rivista letteraria, ma un laboratorio politico-culturale in cui si prova a raccontare l’Italia e il mondo ai tempi del liberismo realizzato.
Leogrande si dedica in particolare al racconto dei margini, attraverso il quale mette in luce le contraddizioni radicali del suo tempo. La modernità che sembrava destinata a trionfare con la fine della divisione del mondo in blocchi e con la globalizzazione dell’economia presenta zone d’ombra inquietanti. In un mondo di merci che solcano i continenti e di denaro che si sposta alla velocità di un click, gli esseri umani vedono approfondirsi i solchi che li dividono. Un’umanità di «sommersi» preme alle porte dell’Occidente, e pur di accedervi è disposta a sottomettersi a una degradazione totale. Sono i braccianti polacchi ridotti in schiavitù nel Tavoliere, di cui Leogrande scrive in Uomini e Caporali (Feltrinelli 2008), o gli albanesi annegati nell’affondamento della Kater i Rades a poche miglia dalle coste pugliesi (Il naufragio, Feltrinelli 2011), e ancora gli eritrei, i curdi e tutti coloro che provano a varcare i confini della fortezza Europa (La frontiera, Feltrinelli 2013). Queste masse di uomini e donne non sono per Leogrande semplicemente vittime o dati statistici. Dal suo racconto emerge sempre la resistenza, la rivendicazione (talvolta disperata) di un’umanità irriducibile. In Leogrande, intellettuale laico, è ben presente il senso cristiano della persona umana, eredità profonda del suo ambiente familiare (col papà Stefano, direttore della Caritas, il giovanissimo Alessandro ha partecipato ai campi di lavoro nella devastata Albania post-comunista). Esso è la leva da cui scaturisce la rivolta contro la minaccia di annichilimento che perseguita una vasta parte del genere umano.     
La straordinaria capacità dello scrittore tarantino di confrontarsi con fenomeni di portata globale non fa mai venir meno in lui l’attenzione per il microcosmo in cui è cresciuto e a cui si sente ancora legato nonostante la lontananza fisica – in ciò Leogrande si dimostra un fautore coerente di quel «think global, act local» che ha ispirato una parte significativa della sua generazione. Con l’esplosione della crisi Ilva, nella lunga estate calda del 2012, Taranto assume un posto centrale nella sua riflessione. Per Leogrande in quel frangente si apre un nuovo fronte di lotta politico-culturale. I semi del populismo gettati nei primi anni Novanta trovano nuova linfa nella grande crisi economica e politica che si apre sul finire del primo decennio dei 2000. Essi finiscono per diffondersi e germogliare anche in settori molto distanti dall’ambiente che li aveva generati. Dichiarando superata la contrapposizione fra destra e sinistra, e prospettando un assalto dei cittadini alle istituzioni e alla classe politica, anche l’ambientalismo sorto in riva allo Jonio assume connotati di quel tipo. La sua spinta dirompente si scatena anche contro i sindacati nella drammatica manifestazione del 2 agosto e, più in generale, finisce col travolgere ogni posizione intermedia. In queste circostanze, che Leogrande legge come il frutto di una «comunità spappolata», i margini per i riformisti si fanno strettissimi. In quella stagione Leogrande vive un secondo trauma nel rapporto con la sua città, dopo quello del citismo: una frattura ancora più dolorosa in quanto investe quello che era stato il suo mondo. Ma di fronte a tutto questo egli reagisce intensificando l’impegno: i suoi interventi sull’Ilva e su Taranto assumono toni quasi programmatici. Contro le semplificazioni che puntano a fare tabula rasa dell’esperienza industriale in riva allo Jonio (e nel Mezzogiorno), Leogrande rivendica la prospettiva meridionalista che l’ha ispirata; traendo ispirazione da quella tradizione, egli propugna la riforma della fabbrica non solo come inevitabile aggiornamento tecnico, ma soprattutto come ridefinizione dei rapporti di potere. Il modello padronale dei Riva, ormai irrimediabilmente in crisi, va superato: è necessaria una nuova «democrazia industriale», che può emergere solo sulla spinta di un rinnovato protagonismo operaio. Ma la prospettiva di Leogrande si scontra con le inerzie della gestione politica della crisi – e con i rapporti di forza decisamente sfavorevoli ai lavoratori e alle loro rappresentanze. Dopo un lungo commissariamento che lascia la situazione in una sorta di limbo, il governo decide di affidare la ristrutturazione dell’azienda – e il nodo del suo rapporto con la società locale – alle forze di mercato. Il senso della sconfitta emerge nei suoi ultimissimi scritti, in cui Leogrande anticipa alcune delle questioni che stanno esplodendo sotto i nostri occhi proprio in queste settimane.
Queste sono solo alcune delle suggestioni che emergono dall’opera di Alessandro Leogrande. Esse delineano il profilo di un intellettuale militante nel senso pieno del termine: un uomo per il quale la politica è stata anzitutto battaglia culturale, e la cultura un terreno importante dello scontro politico. La sua critica del populismo – a partire dall’analisi delle condizioni strutturali che ne hanno favorito l’affermazione – e la combinazione originale di illuminismo, riformismo e cristianesimo rappresentano nell’insieme una proposta interessante per fronteggiare le sfide del presente. Leogrande non può che essere un punto di riferimento per chi voglia perseguire una prospettiva di progresso nei tempi di ferro in cui ci troviamo. 
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