Nel
dibattito politico di questi giorni si è riaffacciato il tema della
meritocrazia, un concetto piuttosto vago che nell’immaginario collettivo evoca
premi per chi si impegna e sanzioni per chi batte la fiacca, carriera per chi
dimostra capacità e licenziamenti per chi non produce risultati.
Questo
discorso pubblico, tanto generico quanto condivisibile, è utilizzato da tempo
come un cavallo di Troia per cambiamenti strutturali di paradigma nelle
relazioni di lavoro: non più categorie di lavoratori che rivendicano condizioni
migliori, ma singoli professionisti che competono per emergere grazie al
proprio merito, o anche in rapporto alle disgrazie o alle mancanze altrui; non
più contratti collettivi di categoria dove la forza della rappresentanza
compensa il potere contrattuale del datore di lavoro, ma trattativa individuale
in cui ciascuno può illudersi di bilanciare il rapporto asimmetrico tra azienda
e lavoratore grazie alle proprie doti individuali.
La
meritocrazia nella pubblica amministrazione non è spargere pubblicamente pece e
piume sui fannulloni, per i quali ci sono già leggi e sanzioni vigenti (nel
2018 il numero di licenziati nella pubblica amministrazione è aumentato del
62,8% rispetto a 5 anni prima) ma valorizzare, formare e
stabilizzare il pubblico impiego eliminando ogni sacca di precariato, anche in
chiave di moltiplicatore economico e sostegno alla domanda interna.
Chi vuole il
pubblico impego di qualità (dopo aver preso atto dati alla mano che quello
italiano non è tra i più scadenti d’Europa, e sia
in proporzione che in valori assoluti pesa molto meno sui conti pubblici di
quanto accade in Francia e UK) può valorizzare il merito chiedendo
contratti di qualità, retribuzione di qualità, ambienti di lavoro di qualità (si
pensi al 54% delle scuole senza certificato di agibilità) e
soprattutto più qualità nel riconoscimento sociale della funzione pubblica, che
nell’immaginario collettivo viene ormai associata a privilegi, imbrogli,
furbizie del cartellino e svogliatezza.
A chi
continua a ripetere che le categorie di destra e sinistra sono superate, e che
in una società moderna bisogna spostarsi sulle coordinate tra il merito e il
demerito, possiamo far presente che l’asse politico del 900 e le categorie di
filosofia definite da Norberto Bobbio sono valide oggi più che mai, se è vero
com’è vero che il conflitto tra capitale industriale nazionale e lavoro
contrattualizzato in categorie si è inasprito trasformandosi nel conflitto tra
capitale finanziario globale e lavoro precario negoziato individualmente, e che
la lotta di classe non è mai finita, ma si è solo trasformata, con la lotta di
rivendicazione dei diritti della classe lavoratrice rimpiazzata dalla lotta di
compressione dei diritti della classe dominante, come
è stato spiegato con dovizia di dettagli da Luciano Gallino.
A chi invita
a superare i timori della globalizzazione etichettando come retrogradi quelli
che vorrebbero mettere i lavoratori sotto “campane di vetro” possiamo
rispondere che c’è bisogno di protezioni dalla globalizzazione, e che le
disprezzate campane di vetro si chiamano diritti, conquistati con fatica dai
lavoratori nel corso dei secoli, anche a costo della vita.
Chi vede del
potenziale di sviluppo nei meccanismi politici, economici e finanziari
sovranazionali non può comunque permettersi di minimizzarne i rischi o
addirittura di non prendere in considerazione le sfide globali di un’economia
sociale che deve riprogettarsi e adattarsi alle nuove tecnologie nell’interesse
pubblico, dopo che l’economia finanziaria lo ha già fatto con successo per
interessi privati.
Fino a
questo momento l’unica globalizzazione perseguita con determinazione è quella
dei mercati finanziari e del mercato del lavoro, e chi lavora per
globalizzazione dei diritti non sta “costruendo campane di vetro”, ma strutture
culturali per tenere assieme un tessuto socioeconomico sempre più sfilacciato
nella sua dimensione locale e nazionale, che rischia di diventare irrilevante
rispetto alla dimensione globalizzata.
I sindacati,
contestati dai lavoratori e dai politici con toni più duri di quelli adottati
dai “padroni”, non hanno sempre ragione, fanno degli errori, hanno i loro
limiti, ma chi li delegittima genericamente come manifesto programmatico per
raccogliere facili consensi – e senza proporre alternative concrete per
l’organizzazione e la tutela dei lavoratori – nei fatti sta spingendo la
società verso uno scenario molto pericoloso, dove il destino dei lavoratori è
affidato individualmente alla “mano invisibile” del “libero” mercato e non al
dialogo tra parti sociali.
A chi ripete
da destra e da sinistra il mantra ingannevole del “meno tasse per tutti”,
dicendo che la redistribuzione non si fa con le tasse, possiamo replicare
notando che negli ultimi anni la redistribuzione con le tasse è stata fatta, ma
al contrario: a favore dei redditi più alti, con lo spostamento del carico
fiscale verso i redditi medio-bassi e verso l’IVA applicata anche a poveri e
incapienti, mettendo in un unico “mega scaglione” i redditi a 5 cifre e quelli
a 7, con buona pace della progressività fiscale prevista dalla Costituzione, e
per la gioia dei dieci
paperoni che da soli godono di una ricchezza pari a quella dei tre milioni di
italiani più poveri.
Purtroppo in
Italia anche le nuove formazioni politiche applicano ai loro ragionamenti
vecchie categorie sociali, economiche e culturali, e non basta il richiamo al
nuovo per essere innovativi. La vera innovazione nell’offerta politica sarebbe
l’introduzione nel dibattito pubblico di misure economiche per chiedere
sacrifici in tempo di crisi a chi finora non li ha fatti, e ha visto aumentare
costantemente le proprie rendite di posizione, i propri redditi a sei e sette
cifre, i propri patrimoni consolidati anche grazie al precariato, alla
compressione dei salari, alla perdita di potere d’acquisto.
Una tassa
patrimoniale, un sistema di aliquote Irpef e una tassazione sui redditi
finanziari rimodulati in chiave fortemente progressiva e redistributiva, come
auspicato dalla “Controfinanziaria 2019” di Sbilanciamoci! potrebbero
ridurre le sacche di povertà e recuperare risorse per stabilizzare, nobilitare,
formare e motivare il pubblico impiego e le sue eccellenze, perché se il merito
deve avere un valore, bisogna essere pronti a sostenerne il costo.
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