Primo ministro civile
A otto mesi dalla rimozione
del presidente Omar El Bashir, il primo ministro civile del governo sudanese in
questi giorni viene accolto alla Casa Bianca. È Abdalla Hamdok, Phd in economia
all’università di Manchester, diplomatico, già segretario esecutivo della
Commissione Onu per l’Africa, e banchiere di formazione liberista: avrebbe
tutti i requisiti per ottenere dagli Usa la cancellazione del nome del suo
paese dalla lista dei paesi finanziatori e sostenitori del terrorismo, scopo
principale della sua visita a Washington. Vale a dire tirar fuori il Sudan
dal suo attuale stato di bancarotta e reinserirlo gradualmente sui mercati
internazionali, ridando fiato alla sua economia, dopo anni di sanzioni
economiche internazionali.
Ancora i ‘diavoli del deserto’
Ma il rischio che la
missione di Hamdok non abbia successo è legato alla circostanza che dal 21
agosto presiede un governo per metà controllato ancora dai militari che hanno
deposto, a furor di popolo, Bashir, il vecchio dittatore legato a filo doppio
agli ambienti islamisti. Purtroppo tra quei militari al governo c’è anche una
figura molto ambigua, quella del generale Mohamed Hamdan Dagalo, conosciuto come
comandante dei Janjaweed, i ‘’diavoli a cavallo’’ accusati di aver terrorizzato
e sterminato per anni le pacifiche popolazioni non arabe del Darfur.
Repressioni anti militari di giugno
Pur se con la sua
presenza nei comitati delle trattative intense tra i sudanesi che volevano un
governo civile ha contribuito in modo decisivo alla rimozione del
dittatore Bashir, al generale Hamdan si attribuiscono responsabilità pesanti
nella repressione delle manifestazioni del giugno 2019 contro il ritorno
dei militari al potere dopo la caduta di Bashir: rimasero uccisi più di un
centinaio di dimostranti, e numerosi cadaveri furono gettati nel Nilo. Il
generale ha sempre smentito che le sue milizie siano state coinvolte in quegli
episodi.
60 miliardi da Banca
mondiale e FMI
Date queste premesse,
risulterà probabilmente difficile al nuovo e moderno primo ministro, durante i
sei giorni di visita a Washington la possibilità di avviare un iter per
rinegoziare il debito internazionale del suo paese di 60 miliardi di dollari e
convincere Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale a far rivivere i
rapporti interrotti negli anni scorsi. Anche se quegli istituti dovrebbero
tener conto degli enormi investimenti della Cina per sfruttare il
petrolio del Sudan, che con i suoi 40 milioni di abitanti, ha sempre costituito
un punto strategico nelle relazioni dl mondo occidentale con l’Africa centrale.
Riforme nonostante tutto
Eppure c’è da
sottolineare che nei pochi mesi del suo incarico con poteri limitati, l’ex
diplomatico e banchiere è riuscito a sciogliere il vecchio Partito del National
Congress del dittatore Bashir, a ripulire l’amministrazione delle università
sudanesi da 35 dirigenti legati al vecchio regime ed ha abolito una legge
statale che prescriveva per le donne abiti molto castigati in pubblico.
Riuscirà anche a eliminare i sussidi per il pane e la benzina, provvedimenti
necessari per l’economia, che avevano già avviato proteste popolari molto pesanti
costituendo poi l’avvio del crollo del regime di Bashir? E che saranno
impossibili senza aiuti finanziari esterni?
Elezioni per un Sudan
democratico?
L’accordo che ha portato
il dott. Hamdok alla presidenza del governo, composto da 11 membri, civili e
militari, prevede che esso rimanga in carica per 21 mesi e prepari per il 2022
elezioni che consentano una reale trasformazione del Sudan in un paese
democratico. Riuscirà l’impegno e la forza dei civili sudanesi a garantire
questo percorso senza incidenti che autorizzino i militari a riprendersi il
potere?
Dall’antica abbondanza
al despota
La risposta potrebbe
venire anche dai risultati della visita di sei giorni cominciata da Abdalla
Hamdok a Washington il 6 dicembre. Il nuovo primo ministro ha l’onere molto
gravoso di ricordare al governo degli Stati Uniti la storia recente del suo
paese, fino al 2011 il più grande paese africano (la sua superficie era sette
volte quella dell’Italia), poi diviso in due, dopo un referendum per la
creazione del Sud Sudan che aveva concluso una serie di guerre civili
cominciate del 1956. Paese ricco di petrolio e di risorse minerarie e agricole
(un tempo granaio dell’Africa e maggior produttore di pregiato cotone), che
aveva vissuto esperienze di democrazia dopo la fine del governatorato inglese,
interrotte drasticamente nel 1989 quando il generale Omar el Bashir aveva
assunto il potere con un golpe divenendo dittatore assoluto dopo aver eliminato
uno alla volta i suoi alleati diventati avversari politici.
Memento Reagan (adesso
Trump!)
Tra questi sicuramente
il più prestigioso fu l’ideologo islamico Hassan al Turabi, morto in prigione
qualche anno fa. In un’intervista del 1999 Turabi raccontò al sottoscritto,
ridendo di gusto, la visita che aveva fatto a Washington con una delegazione del
governo sudanese.
Nell’incontro nello
studio ovale Ronald Reagan, allora presidente, gli andò incontro a stringergli
la mano, soddisfatto di ”incontrare per la prima volta un così prestigioso
esponente di un paese sudamericano” (sic).
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