Il professor Tommaso Montefusco, ex dirigente scolastico e formatore per
CIDI, Mondadori-Rizzoli e Pearson, ha pubblicato un libricino intitolato
Competenze di cittadinanza e didattica inclusiva (Edizioni dal Sud, 2019), in
cui fa il punto in modo elegante (sebbene in parte sbrigativo) sulla relazione
tra l’Agenda 2030, le competenze di cittadinanza e la didattica inclusiva. È
chiaro che il nesso tra i tre ambiti si gioca tutto nel concetto democratico e
“sostenibile” di inclusione, che allude a un orizzonte culturale aperto,
dialogante, ragionevole e rispettoso degli altri, non esclusi i nostri posteri.
Posto questo dato come punto di partenza, il lavoro di Montefusco si articola
sostanzialmente in un’esortazione (l’ennesima) ad abbandonare vecchi stili di
insegnamento frontali e ingessati, per ricondursi nella rinascita
dell’attivismo pedagogico e assumere a pieno regime una didattica
laboratoriale.
Certamente la didattica inclusiva non ha nulla a che fare con la meccanica
compilazione di PDP, e la relativa adozione di misure dispensative, ma va
considerata come l’edificazione di un “luogo” fisico e intellettuale
accogliente per tutti, privo di barriere architettoniche, anche e soprattutto
cognitive, ove ciascuno possa decidere quale percorso seguire per accedere ai
piani superiori. Una didattica inclusiva non si riferisce solo a studenti con
condizioni di permanente disabilità o svantaggio, ma è rivolta a tutti, anche
ai “temporaneamente abili”, e ha a che fare con il diritto di ciascuno a
raggiungere il successo formativo, cioè a essere guidato in un percorso
d’apprendimento sufficientemente capace di adottare linguaggi e modalità idonee
a favorirne la maturazione culturale. La standardizzazione della didattica è
sicuramente un limite della scuola del passato, traducendosi di fatto in una restrizione
del diritto costituzionalmente sancito a ricevere un’istruzione completa.
Lavorare con metodologie e tempistiche funzionali soltanto a un modello
conformisticamente predefinito di intelligenza, produce da un lato l’esclusione
di soggettività difformi dalla tendenza assunta quale norma, e impedisce ad
altri di trovare percorsi nuovi per reinterpretare i processi di
inculturazione, o di esercitare la propria creatività.
Montefusco cita le disposizioni scozzesi denominate “Additional Support for
Learning Act”, che superano definitivamente la nozione di Bisogni Educativi
Speciali, per orientare i docenti a costruire una didattica che autonomamente
si doti di una molteplicità di supporti e occasioni di lavoro, anche molto
differenziate, per stimolare stili cognitivi eterogenei.
A sostegno di questa tesi vengono enumerate le pratiche del debate, del
cooperative learning, della flipped classroom, et similia. Si tratta per la
gran parte di modalità laboratoriali note da tempo, ma che faticano a diventare
prassi ordinaria. Forse però, in questa fatica, si nasconde un fondo di verità,
e cioè che tali metodologie non possono, e non dovrebbero, sostituire
completamente quella che – ormai senza più neanche sapere bene cosa sia – si
continua a chiamare “didattica tradizionale”. Certamente alternare le due
modalità di lavoro rappresenterebbe bene un approccio autenticamente inclusivo.
Non lo è, invece, accettare che la didattica laboratoriale liquidi come un
rifiuto il metodo di insegnamento che negli ultimi cinque-sei secoli si è
costituito come avviamento dei giovani al lavoro dello studio (articolabile in
passaggi semplici ma faticosi: leggere in silenzio e comprendere un testo,
verificare di essere in grado di ripeterlo a voce alta e con parole proprie, di
sintetizzarlo e analizzarlo; essere in grado di ascoltare un discorso
strutturato e scandirne e gerarchizzarne i concetti; tradurre da altre lingue e
in altre lingue; essere capaci di compiere astrazioni logiche e numeriche per
risolvere problemi di complessità crescente, attraverso un costante esercizio,
e simili prassi, sistematizzate ripercorrendo ogni volta le tappe della
civiltà, attraverso la storia, le arti, le scienze).
Molto interessante quanto Montefusco elenca a pagina 68 del suo libro, come
ingredienti di una didattica orientata a una vera inclusione. Tutto sembra
corrispondere a una visione corretta e condivisibile del problema, quando si
esortano gli insegnanti a scandire i propri obiettivi didattici in
sotto-obiettivi, a fornire anticipatamente schemi, mappe, appunti relativi
all’argomento che sarà presentato, a promuovere la metacognizione e la
cooperazione. Il punto critico del suo ragionamento è però proprio a metà
strada, quando introduce il seguente elemento: “Privilegiare l’apprendimento
dall’esperienza e privilegiare la didattica laboratoriale”. Il verbo utilizzato
è evidentemente una forzatura. Una didattica che “privilegi” l’aspetto
laboratoriale non determina un più alto grado d’apprendimento rispetto a una
metodologia che lo alterni paritariamente con una didattica di impianto
maggiormente teorico. Non ci sono evidenze scientifiche su questo perché non ci
possono essere: ne discendono infatti modelli di apprendimento diversi e non
comparabili. È certamente vero, come viene ricordato, che cooperando e
confrontandosi con un gruppo di lavoro lo studente accresce la propria capacità
di ascolto, di critica, o di messa a fuoco, eventualmente anche toccando con
mano la propria confusione. Ma pure lo studio lento e silenzioso è un’abilità
sofisticata e potente, gradatamente strutturatasi nelle nostre società
soprattutto a seguito dell’invenzione della stampa.
La didattica laboratoriale certamente facilita le relazioni, migliora la
capacità di lavorare in gruppo, sollecitando resilienza e spirito d’iniziativa
di fronte a problemi concreti. Ma le competenze su cui lavorano gran parte di
queste metodologie dimostrano tutta la loro brillantezza quando si ha a che
fare con studenti provenienti da ceti sociali già disciplinati e controllati,
in virtù di un’educazione ordinata e linguisticamente elaborata. Per gli
studenti appartenenti a classi sociali marginali, la didattica laboratoriale
finisce per essere un ottimo strumento educativo limitatamente alla sfera
sociale e interattiva, ma si rivela poco solida nella costruzione di strumenti
culturali forti, indispensabili per accedere a ruoli apicali nella società:
ruoli per quali non è sufficiente saper lavorare in team o saper distinguere
notizie attendibili da fake news, perché occorre aver disciplinato il proprio
corpo e il proprio cervello a lunghe ore di concentrazione e astrazione. Le
soft skills sono importanti, ma per non restare ai margini ce ne vogliono anche
di hard. Una didattica solo laboratoriale, dunque, ha un sapore fortemente
reazionario e anti-democratico. Ed è speculare a una metodologia puramente
frontale. Entrambe sono “escludenti”.
Solo una buona sintesi di didattica laboratoriale e didattica “riflessiva”,
invece, comunque ponderata sulle specificità di ciascun gruppo-classe,
costituisce in senso forte il significato profondo dell’innovare.
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