Spesso accusati di agire in segreto, per
una volta il mese scorso i ministri finanziari europei hanno davvero avuto una
discussione semi-clandestina. Non si parlava di regole sul debito o per le
banche, ma del più pubblico dei problemi: quanto spendere e come far sì che una
nuova generazione di europei impari qualcosa sui banchi di scuola. L’idea era
della Finlandia, uno dei Paesi che investe di più in educazione: ha chiesto
alla Commissione europea di mettere in rapporto la spesa pubblica per scuole e
università dei vari Paesi e i risultati degli studenti.
La graduatoria Pisa
Era questo l’aspetto che molti governi,
comprensibilmente, non volevano fosse reso noto. Nessun politico, uomo o donna,
ha voglia di essere giudicato a Bruxelles e criticato in patria perché magari
usa il denaro dei contribuenti senza risultati visibili. In un’epoca di
confronti internazionali continui sulle performance dei Paesi, mostrare che si
buttano dei soldi addosso a un problema non basta più. Bisogna anche che lo si
veda nelle classifiche. Il rapporto della Commissione è dunque rimasto
confidenziale, ma il «Corriere» ha cercato di replicarne l’impianto
confrontando la spesa in istruzione e i risultati dei ragazzi nei vari Paesi
europei. È un buon momento per farlo. L’Ocse di Parigi, un organismo
multilaterale, ha appena pubblicato l’ultima graduatoria Pisa («Programme for
International Student Assessment») sul livello degli studenti di 15 anni.
Deriva da un test su 600 mila ragazzi in 79 Paesi, somministrato nel 2018. Il
«Corriere» lo ha raccontato in dettaglio il 4 dicembre con Gianna Fregonara e
Orsola Riva.
Gli studenti italiani
Per l’Italia si profila un declino delle
competenze dei quindicenni e delle capacità di svilupparle. Nell’Unione
europea, il Paese scende dal 18esimo al ventesimo posto su 28: superato da
Lituania e Ungheria, distanziato da Lettonia e Repubblica Ceca, lontanissimo
dalla Polonia (che è la vera sorpresa: balza al terzo posto subito dietro a
Estonia e Finlandia). In parte, era prevedibile: per la scuola nel bilancio
pubblico resta ben poco. Nel 2015, ultimo anno con dati ufficiali confrontabili
fra un numero sufficiente di Paesi europei, l’Italia è appena diciannovesima
per spesa pubblica in istruzione in proporzione dal reddito nazionale (Pil).
Piazzarsi ventesimi per le competenze dei ragazzi, in media, potrebbe essere
solo il risultato della scarsità delle risorse dedicate. Né consola molto che
il Nord vada meglio, quasi su livelli polacchi. Perché non solo il Sud va
malissimo. Anche il Centro Italia è sotto la media Ocse in scienze e lettura, è
appena sopra solo in matematica e comunque da un Paese con il trentesimo tenore
di vita per abitante più alto al mondo si aspetterebbe qualcosa di più che
misurarsi a una media Ocse. Questa è fatta in buona parte da economie molto
meno ricche dell’Italia. Nei suoi studi la stessa Ocse mostra per esempio che
nelle scienze in genere c’è una stretta correlazione fra il livello scolare dei
quindicenni e il reddito per abitante nel Paese: più è alto il secondo, più
sale il primo; in questo gli studenti italiani invece sono ben sotto a dove
dovrebbero essere per il livello di benessere del Paese. Ma, appunto, almeno un
po’ deve dipendere anche dalle strette di bilancio. Eurostat, l’agenzia
statistica europea, mostra che la spesa pubblica in istruzione in Italia scende
dal 4,6% del Pil nel 2009 al 3,8% del 2016. Non solo è una quota enormemente
più bassa rispetto ai primi anni del Dopoguerra, quando arrivava al 9% del Pil
(lo scrive Anna Maria Poggi, Per un diverso Stato sociale,
Il Mulino). L’Ocse nel rapporto «Uno sguardo all’istruzione 2019» mostra anche
che l’anomalia italiana dal 2010 a oggi è soprattutto in un taglio di spesa
molto più profondo a questo settore che alla spesa pubblica in genere: in
proporzione, si è scelto di penalizzare l’istruzione quasi cinque volte di più.
I fattori che pesano
sui risultati
Resta però il dubbio se davvero questa
scivolata verso il basso nelle competenze dei ragazzi italiani rispetto agli
altri europei dipenda solo dalle risorse in meno. Se davvero sia colpa dei
vincoli del debito o, come dicono alcuni, dell’«austerità» e magari dunque
anche delle regole dell’euro. Merita studiarla bene questa questione, perché
un’analisi dei numeri da vicino la smentisce. «Uno sguardo all’istruzione 2019»
mostra come non sempre ogni euro speso si traduce in competenze dei ragazzi:
quasi tutti i Paesi europei che investono meno dell’Italia per ogni studente
dai sei ai quindici anni di età hanno anche risultati superiori all’Italia nei
test Pisa. È il caso (in ordine decrescente di spesa) della Spagna,
dell’Estonia, di Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia,
Irlanda e Lituania. Quanto alla Svezia, ha risultati molto peggiori di quanto
farebbe prevedere la sua altissima spesa in istruzione. Tutti i valori sono
espressi in parità di poteri d’acquisto — corretti per tener conto del costo
della vita nei vari Paesi — quindi sono confrontabili. L’Europa
centro-orientale, con meno risorse, sta superando l’Italia. Da anni la Polonia
riduce la spesa scolastica in rapporto al Pil, ma balza in avanti nelle
classifiche per la competenza dei ragazzi. Dunque sui risultati degli italiani
devono pesare anche altri fattori: dai divari regionali, alla motivazione
personale e delle famiglie, ai programmi o alla loro esecuzione. Osserva Riccardo
Ricci, responsabile nazionale delle prove scolastiche Invalsi: «La spesa in
istruzione non è solo bassa, è anche meno efficiente che in altre aree
d’Europa. Dobbiamo porci il problema del modo nel quale utilizziamo le
risorse». L’Ocse nota che in passato risultati frustranti nei test Pisa hanno
spinto certi Paesi, dalla Colombia al Portogallo, a reagire e fare molto
meglio. Magari ora sarà la volta buona dell’Italia.
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