Se nel 2018 le persone più ricche d’Italia avessero voluto incontrarsi,
avrebbero potuto organizzare una cena. I 21 commensali avrebbero
potuto contare su una ricchezza di circa 107 miliardi di euro, pari a quella
del 20 per cento più povero della popolazione. Se gli italiani che
vivono in una situazione di povertà assoluta avessero voluto fare lo stesso,
l’operazione sarebbe stata un po’ più complicata.
Le persone che non riescono a permettersi un’alimentazione adeguata, una
casa riscaldata e il minimo necessario per vestirsi o curarsi sono cinque
milioni. È come se gli abitanti di Roma, Milano e Napoli dovessero trovare una
città in grado di ospitarli tutti, o se i residenti in Sicilia decidessero di
spostarsi in massa verso un altro luogo.
“La profonda disuguaglianza ha un pedigree estremamente lungo”, scrive lo
storico Walter Scheidel, che nel libro La grande livellatrice ripercorre
l’intreccio tra disuguaglianza e violenza dalla preistoria a oggi. “Duemila
anni fa, nell’impero romano le maggiori fortune private equivalevano a circa
1,5 milioni di volte il reddito annuo pro capite medio, all’incirca lo stesso
rapporto che intercorre oggi tra Bill Gates e l’americano medio”.
A metà del 2018 il 20 per cento
più ricco degli italiani possedeva circa il 72 per cento della ricchezza
nazionale. E nelle mani del 5 per cento più ricco c’era la stessa quota
di ricchezza del 90 per cento più povero.
La situazione è peggiorata negli ultimi dieci anni a causa della crisi economica cominciata nel 2008. La
ricchezza dell’1 per cento degli italiani più ricchi ha continuato a crescere –
facendo registrare un calo solo tra il 2016 e il 2017 – mentre le persone in
difficoltà sono aumentate.
Negli ultimi anni sono aumentati anche i minori che vivono in situazioni di
povertà. Save the children ha calcolato che il
loro numero è triplicato: “Nel 2008 appena un minore su 25 (il 3,7 per cento)
era in povertà assoluta, un decennio dopo si trova in questa condizione ben 1
su 8 (12,5 per cento). Sono numeri che spaventano: nel 2007 i minori in povertà
assoluta erano circa mezzo milione, oggi sono 1,2 milioni”.
A chi pensa che questa situazione sia circoscritta, l’Oxfam ricorda che in
Italia una persona su
quattro è a rischio povertà. Il confine tra chi ce la fa e chi
non ce la fa è molto più sottile di quanto si creda. Le statistiche aiutano a
scattarne una fotografia, ma da sole non bastano a misurarlo, a coglierne le
sfumature, a capire cosa significa scivolare, o precipitare, da una parte
all’altra. Le storie di chi è stato in difficoltà, o lo è ancora, aiutano a
farlo.
Nei loro racconti ci sono sempre dei momenti in cui si sente un rumore,
come di qualcosa che va in frantumi: un lavoro, una famiglia, una speranza.
Spesso le persone sono lasciate sole a raccogliere i cocci, qualche volta
trovano un aiuto che riesce a farle rimettere in piedi. Il reddito di
cittadinanza ha restituito a tanti un po’ di ossigeno, ma non ha abolito la
povertà, come prevedeva con
enfasi il governo italiano nel 2018. Piuttosto, ogni tanto decreti
sicurezza, daspo urbani e sgomberi hanno provato ad abolire i
poveri. Le storie di sette persone in cinque città diverse aiutano a capire
quanto queste risposte possano essere riduttive, inefficaci, spesso pericolose.
E aiutano a infrangere la retorica che li descrive come un tutt’uno, a volte
criminalizzandoli, a volte trattandoli con paternalismo, a volte descrivendoli
con un lirismo ingenuo.
(Giuseppe Rizzo)
Le due famiglie che dividono
l’appartamento a Palermo
Maria Teresa Giliberto, 46 anni, impiegata in biblioteca; Alessia Episcopo, 43 anni, insegnante.
Maria Teresa Giliberto, 46 anni, impiegata in biblioteca; Alessia Episcopo, 43 anni, insegnante.
Maria Teresa Giliberto Io sono impiegata
in biblioteca, ho un contratto part-time con il comune di Palermo e due figli.
Mio marito lavora per una catena di supermercati che sta vivendo una forte
crisi. Riceve lo stipendio con moltissimo ritardo: alla fine di ottobre, per
esempio, è arrivato lo stipendio di luglio. È per questo che abbiamo deciso di
condivivere la casa con un’altra coppia di amici. Non riuscivamo a pagare
l’affitto – 660 euro al mese – perché la busta paga arrivava con troppo ritardo
e quasi mai per intero. Non potevo garantire la regolarità dei pagamenti al
proprietario di casa, che fra l’altro è stato molto comprensivo. Andava avanti
così dal 2014.
Alessia Episcopo Io sono una docente. Faccio
l’insegnante di sostegno nella scuola dell’infanzia: sono di ruolo a Catania,
ma ogni anno chiedo l’assegnazione provvisoria a Palermo per stare vicino ai
bambini, visto che mio marito lavora qui come impiegato in un negozio. Noi
abbiamo avuto problemi quando abbiamo deciso di comprare questa casa, nel 2017:
durante i lavori i materiali per gli impianti sono stati rubati tre volte, così
la ristrutturazione è durata molto più a lungo del previsto. Abbiamo dovuto
ricomprare materiali per diecimila euro e oltre al mutuo abbiamo dovuto pagare
affitti per circa settemila euro. Adesso siamo molto indebitati: un mutuo, due
cessioni del quinto dello stipendio e un prestito personale. Condividere la
casa ci permette anche di aiutarci reciprocamente.
Maria Teresa Giliberto Lo scorso giugno
abbiamo deciso di provare a fare questa esperienza. Ci eravamo conosciute nel
2012 grazie a un gruppo su Facebook dedicato ai pannolini lavabili, perché
volevo cominciare a usarli. Alessia era un’esperta e iniziando a frequentarci i
bambini hanno fatto amicizia.
Alessia Episcopo Poi abbiamo cominciato a vederci
anche a prescindere dai pannolini… Quando nel 2013 sono rimasta incinta avevo
bisogno di aiuto e Maria Teresa, che era libera nel pomeriggio, mi ha
accompagnato a fare le ecografie.
Maria Teresa Giliberto Già durante un
trasloco fra il 2015 e il 2016 avevamo provato a condividere una casa, quella
volta l’avevamo fatto per un mese. Chiacchierando, lo scorso giugno, ho
spiegato ad Alessia che avrei voluto mandare i bambini in un centro estivo, ma
che il costo, 750 euro, era troppo per noi. E allora Alessia mi ha proposto di
portarli da lei, cioè in questa casa…
Alessia Episcopo Essendo un’insegnante, d’estate ho
più tempo a disposizione. Le ho detto: “Tenerne con me tre o cinque fa poca
differenza”.
Maria Teresa Giliberto Doveva essere una
soluzione provvisoria, ma la situazione lavorativa di mio marito è precipitata:
sembrava che a giugno dovesse risolversi, e invece è andata perfino peggio.
Così ha deciso di mettersi in congedo parentale: era stressante lavorare e non
ricevere lo stipendio, fra l’altro dopo anni trascorsi con il contratto di
solidarietà. Alessia, nel frattempo, mi ha proposto di rimanere qua. Dal 28
settembre ho traslocato ufficialmente.
Alessia Episcopo Ovviamente non sempre è facile. Gli
spazi ora sono più piccoli.
Maria Teresa Giliberto Abbiamo creato una
camera da letto e abbiamo portato alcuni dei nostri mobili qui, quindi abbiamo
un nostro spazio. Abbiamo imparato a convivere.
Alessia Episcopo Per esempio nella vita quotidiana,
quando abbiamo un po’ di tempo, decidiamo insieme i menu e in base a quelli facciamo
la spesa e poi dividiamo i costi. Dividiamo tutto, del resto: le utenze e
quello che serve per vivere. Questa soluzione ci permette anche di ottimizzare
i trasporti, per esempio per la scuola, e condividere una serie di compiti:
alle riparazioni, per esempio, pensa mio marito, all’orto il suo. In questo
modo sprechiamo anche meno risorse. Del resto è così che ci siamo conosciute,
parlando di riuso dei pannolini.
(Storia raccolta da Claudio Reale)
La madre che ha portato il curriculum a
tutti
Susmita, 31 anni, del Bangladesh, vive con la figlia di sette anni in una struttura del comune di Bologna.
Susmita, 31 anni, del Bangladesh, vive con la figlia di sette anni in una struttura del comune di Bologna.
Nove anni fa sono arrivata a Bologna dal Bangladesh per seguire mio marito,
che aveva un lavoro stabile come metalmeccanico. Un anno dopo sono rimasta
incinta ed è nata Rosmita: ero felice, non avrei mai immaginato quello che
sarebbe successo dopo. Una mattina, la bambina aveva poco più di un anno,
arrivano i carabinieri a casa nostra: mi dicono che mio marito è morto durante
il turno, un infarto. Era il 30 luglio 2013, non lo dimenticherò mai più.
Avevo 24 anni e mi sono trovata sola, senza un lavoro e senza conoscere
l’italiano. Mia madre voleva a tutti i costi che mi risposassi, ma io non ero
d’accordo: cosa avrei fatto se il mio nuovo marito avesse rifiutato mia figlia?
La mia famiglia e la comunità nel mio paese mi hanno voltato le spalle. Ho
dovuto lasciare la casa, non me la potevo più permettere. Non potevo buttarmi
giù perché avevo Rosmita, ma ogni sera mi chiedevo: come sarà domani?
Nel gennaio 2014 sono andata a vivere in una struttura di accoglienza delle
suore, dormivo in una stanza con un’altra mamma e un bambino, poi mi sono
trasferita in un edificio occupato dietro alla stazione: dentro eravamo 28
famiglie. La prima volta che sono entrata era tutto vuoto: abbiamo portato i
materassi, i mobili, il forno per cucinare. Il gas non c’era, usavamo le
bombole, e per sei mesi ci hanno tagliato anche l’acqua: io vivevo al quinto
piano e ogni volta dovevo portare su per le scale l’acqua potabile che ci dava
il comune. Mi dicevo: se può farlo un uomo, perché non può farlo anche una
donna?
Andavo a tutte le manifestazioni per il diritto alla casa e una volta a
settimana facevo anche il turno di notte di guardia al portone, per controllare
che non arrivasse la polizia. A ottobre 2016 c’è stato lo sgombero:
per fortuna un mese prima io e Rosmita ci eravamo spostate in un condominio
gestito dal comune. L’anno dopo ci hanno trasferito di nuovo, questa volta in
una casa tutta per noi.
Per trovare lavoro ho fatto un corso di italiano e ho portato il mio
curriculum ovunque: dove arrivava l’autobus arrivavo anche io. Un pomeriggio è
arrivata una telefonata: una cooperativa mi ha chiamato per fare una prova come
donna delle pulizie in un hotel. Ero felicissima. Da quel momento ho sempre
lavorato con loro: ora ho un contratto a tempo indeterminato e guadagno mille
euro al mese.
Rosmita ha compiuto sette anni e va in seconda elementare, ha dei voti
molto buoni. La vita è migliorata, eppure non possiamo permetterci neanche un
monolocale. A Bologna sotto i 500 euro non si trova niente, e con le bollette,
le spese condominiali e il costo della babysitter quando sono di turno non ce
la farei. Ho cercato anche una stanza in un appartamento condiviso, ma è molto
difficile: appena i proprietari sentono che sono straniera trovano una scusa e
mettono giù il telefono. La convenzione per questa casa del comune scade il 31
maggio 2020. Poi vedremo: abbiamo sempre trovato una soluzione, la troveremo
anche stavolta.
(Storia raccolta da Alice Facchini)
Il ragazzo in transizione
Marco L. , 41 anni, di Lecce, oggi vive a Torino in una residenza per persone transessuali.
Marco L. , 41 anni, di Lecce, oggi vive a Torino in una residenza per persone transessuali.
Sono nato e cresciuto a Lecce, secondo di tre figli. I miei sono dipendenti
statali, ma hanno anche qualche stanza al mare che affittano d’estate. Non
sapevo, non sapevamo, che cosa fosse la povertà. Mi sono diplomato al liceo
linguistico a pieni voti. Poi mi sono trasferito a Napoli per frequentare
scienze politiche all’università L’Orientale. Ho fatto il servizio civile a uno
sportello per immigrati, facendo anche dei corsi di inglese per lavoratori.
Dopo la laurea ho fatto un tirocinio a Roma e poi mi hanno assunto per un
progetto a Bruxelles al centro per lo sviluppo dell’impresa. Avevo uno
stipendio vero, ma comunque tutte le volte che avevo avuto bisogno i miei
c’erano stati. Superati i trent’anni sono tornato a Lecce proprio per loro,
perché volevano che cancellassi quelle migliaia di chilometri che ci
separavano. Ed è stato un errore.
Già da tempo ero a disagio con il mio corpo. A vent’anni, durante
l’università, immaginavo di chiedere ai chirurghi di togliermi il seno, di
cambiare sesso. Pensieri saltuari, finivano nel cassetto e la vita proseguiva
tranquilla. È quando sono tornato a Lecce che la cosa è esplosa. A 32 anni sono
caduto in una depressione profonda a causa della disforia di genere. Lavoravo
nella segreteria di un’agenzia di spettacoli ma dopo otto mesi mi sono
licenziato perché stavo troppo male.
Ho avuto un esaurimento nervoso, sono andato da alcuni psichiatri. Ho
trascorso due anni chiuso in casa dai miei genitori. Era un dolore fisico,
oltre che psicologico. Poi sono tornato a lavorare, ma trovare qualcosa non era
facile: un anno ho lavorato in un call center, poi qualche volta ho fatto il
lavapiatti, sempre per poche centinaia di euro. Quando ho cominciato il
percorso di transizione, i miei genitori hanno reagito male. Non erano più
disposti ad aiutarmi.
Sono dovuto andare a vivere da solo, sopravvivendo con i pochi risparmi che
avevo. Cercavo un lavoro più stabile, ma il tempo passava e non cambiava nulla.
Ero disoccupato per la maggior parte del tempo e i soldi presto finirono. Ogni
settimana andavo in ospedale a Bari, ma la depressione non guariva e i medici
decisero di interrompere il mio percorso di transizione. Mi venne imposto di
tornare a vivere al femminile, un incubo.
A 39 anni ho trovato il coraggio di chiedere un aiuto ai miei, intanto con
un impiego stagionale come lavapiatti ho messo dei soldi da parte. Mi sono
trasferito a Torino nel settembre del 2018 per riprendere la transizione in un
ospedale che mi era stato consigliato. Ho preso in affitto una stanza, ma
pagata la caparra e le prime mensilità mi sono rimasti solo 200 euro. Non avevo
un lavoro. Ho girato tutte le agenzie interinali, senza successo.
Dopo tre mesi, ho ricevuto la chiamata di un’azienda di pulizie per sei ore
alla settimana. I primi mesi guadagnavo 200 euro, non bastavano per l’affitto.
Poi lo scorso gennaio sono stato selezionato per una residenza per persone
transessuali in stato di povertà, gestita dal gruppo Abele. Vivo ancora lì,
pago un canone simbolico di cento euro al mese e intanto al lavoro hanno
cominciato a chiedermi gli straordinari, una buona notizia.
Oggi guadagno circa cinquecento euro al mese, ma faccio comunque fatica
perché i prezzi dei farmaci che devo prendere durante la transizione aumentano,
prodotti che prima pagavo tre euro ora costano dieci. Un banale gel ormonale
costa cinquanta euro. Per una persona in difficoltà economica questo è un
problema. Quando arriva lo stipendio, so che due-trecento euro se ne andranno
così. Pagato l’affitto non rimane quasi più nulla. Mi sono fatto degli amici,
ma devo inventarmi scuse per non uscire. “Non sto bene”, “devo lavorare”. In
realtà non posso permettermi neanche una birra. Mi vergogno a confessarlo.
Alla fine di questo mese non avrò più una casa perché il contratto che ho
qui scade. Mi sono candidato per un’altra residenza. Se va male dovrò tornare a
pagare un affitto vero, non so come. Sto cercando lavori più remunerativi, ma
per una persona transessuale non è facile. Ecco perché sono grato all’azienda
dove lavoro ora. In queste settimane però mi scade il contratto anche con loro.
Intanto ho fatto domanda per il reddito di cittadinanza, spero che i centri per
l’impiego possano aiutarmi. Devo stringere i denti, capire da dove far uscire i
soldi. Un’idea ce l’ho. Lavorare nella consulenza del lavoro, quello in cui mi
sono laureato. Ho preso un manuale, sto studiando. Vorrei trovare uno studio
per fare il praticantato. Il problema è che i primi sei mesi non sono
retribuiti, ma potrei compensare con un altro lavoro. Devo uscire dal tunnel in
cui sono entrato dieci anni fa, costruirmi una vita normale, con un lavoro
normale, che mi piaccia. La consulenza del lavoro è un sogno, quello che mi fa
svegliare la mattina e mi dà forza quando sto male.
(Storia raccolta da Luigi
Mastrodonato)
La coppia che ha avuto come residenza un
binario
Patrizia Piras, 53 anni, di Dolianova, Cagliari; Antonio Pretta, 50 anni, di Cagliari.
Patrizia Piras, 53 anni, di Dolianova, Cagliari; Antonio Pretta, 50 anni, di Cagliari.
Patrizia Piras Con Antonio ci siamo conosciuti
dieci anni fa in un call center a Cagliari. È stata la mia unica esperienza
lavorativa, prima facevo la casalinga. Tra l’altro ci ho lavorato tre mesi e
non mi hanno pagato neanche un euro. In compenso ho avuto il colpo di fulmine.
Da allora siamo inseparabili: siamo andati a vivere insieme, in affitto, sempre
in città. Mia figlia allora aveva dieci anni ed è rimasta a vivere con il mio
ex marito, a Dolianova, a venti chilometri da Cagliari.
Antonio Pretta Io ho provato a trovare altri
lavori, ma per me è difficile: ho la scoliosi e due ernie al disco. I medici mi
hanno certificato una disabilità del 40 per cento. Fino al 2009 – prima di
conoscere Patrizia – lavoravo in una ditta di infissi, ma era un periodo
complicato della mia vita. Durante un litigio con la mia ex moglie, lei mi ha
dato una coltellata al petto che mi ha quasi ucciso e ho dovuto lasciare il
lavoro.
Patrizia Piras Io cammino a stento. Ho la
cartilagine del ginocchio consumata e picchi di depressione.
Antonio Pretta Nel 2012 per due mesi abbiamo dovuto
dormire sulle panchine di piazza del Carmine a Cagliari. Non avevamo più un
lavoro, né qualcuno che ci aiutasse. Ci erano rimaste solo le bollette da
pagare e così ci hanno sfrattato.
Patrizia Piras Io dormivo con gli occhi aperti.
Vicino a noi c’erano delle coppie di minorenni: una ragazza era incinta. Poi un
giorno, un nostro amico – Alessandro, che è morto di aids – ci ha detto:
“Venite nei vagoni merci dismessi alla stazione, è meglio”.
Antonio Pretta Lo abbiamo seguito, ma dopo la prima
notte è arrivata la polizia ferroviaria. Però hanno visto che eravamo
tranquilli e ci hanno lasciato dormire lì. Avevamo tutto: letto, dispensa,
fornello e pure un lavandino fatto da me.
Patrizia Piras D’inverno quel posto era una
ghiacciaia, mentre d’estate era un forno. I bisogni li facevamo in un secchio.
Lasciavamo dei contenitori d’acqua sempre al sole, ma si riscaldava solo in
primavera e in estate.
Antonio Pretta Un dipendente degli uffici di
Trenitalia ha visto che andavamo a prenderla a delle fontanelle lontane dalla
stazione e così ci ha permesso di prenderla da loro. In cambio spazzavamo il
cortile.
Patrizia Piras Dopo un anno ci hanno dato la
residenza. “Quarto binario vagone 21 riv”, c’era scritto nel certificato. Un
giorno però è arrivata una ruspa per tirare giù i nostri rifugi. Ho detto all’operaio
che mi sarei suicidata e lui ha mandato un fax ai capi a Milano per dire:
“Fatelo voi”.
Antonio Pretta Da fine 2014 stiamo in una casa, con
Stella e Zampa, cane e gatto. Ce l’ha trovata un volontario Caritas. Paghiamo
322 euro al mese per 17 metri quadri qui a Cagliari. Abbiamo un divano letto e
un bagno, per arrivare alla doccia dobbiamo spostare le casse dove teniamo i
vestiti. Le teniamo lì perché non abbiamo altro spazio.
Patrizia Pira Ricordo il primo Natale, era venuta
mia figlia per qualche giorno. Non c’era ancora l’acqua! Ora ha venti anni:
ogni tanto viene a trovarci, anche se meno. Il mio ex marito ha ancora un
negozio di alimentari e mi dà 150 euro al mese, divisi in tre rate.
Antonio Pretta Io ora ho il reddito di cittadinanza
e la Caritas ci dà 150 euro per aiutarci a pagare le bollette. Ogni sabato e
domenica pulisco i bagni e le sale alla loro mensa e firmo le ore di presenza
perché sono in affidamento al servizio sociale. Nel 2013 due conoscenti mi
hanno lasciato una catenina da custodire, ma poi si è scoperto che era rubata.
Io non lo sapevo, ma ci hanno creduto solo gli assistenti sociali, i giudici
no.
Patrizia Piras Io l’ho sempre sostenuto…
Antonio Pretta Alla mensa andiamo solo se non
abbiamo cibo o la bombola del gas per cucinare. Ogni domenica mia suocera, 79
anni, ci porta carne, pane, pasta, pelati. Mio cognato mi dà magliette nuove,
scarpe, pantaloni… Viviamo così, sempre insieme.
(Storia raccolta da Monia Melis)
Il pittore che ha dormito ovunque
Carlo Mazzioli, 70 anni, vive in un centro della Caritas a Roma.
Carlo Mazzioli, 70 anni, vive in un centro della Caritas a Roma.
Se dovessi dire quando sono cominciate le difficoltà, direi che sono
cominciate subito. Penso di esserci nato, nelle difficoltà. Era il 1947,
eravamo in pieno dopoguerra e Monteverde Nuovo, a Roma, era un quartiere con
intorno orti, casolari e campagna, dove vivevano molte persone povere. Mio padre
e mia madre lo erano. Papà aveva fatto l’autista per i militari americani dopo
che avevano liberato Roma, poi aveva continuato per qualche anno. Faceva avanti
e indietro dall’ambasciata americana in via Veneto. Mamma faceva la casalinga.
Io ero il primo di tre fratelli e i soldi non bastavano mai. Vivevamo in
affitto e spesso cambiavamo casa.
Io ho cominciato a lavorare da ragazzo. Negli anni settanta ho lavorato
alla Bottega dell’artista a Trastevere, preparando le tele e i colori per chi
dipingeva. Tra i clienti c’era pure Giorgio De Chirico. Io stesso disegnavo e
facevo acquerelli, cosa che non ho mai smesso di fare. Alla Bottega ci sono
rimasto tre o quattro anni. Le cose nella mia vita sono peggiorate quando papà
si è ammalato di tumore alle ossa. Ha sofferto tantissimo, un dolore davvero
inimmaginabile. È morto poco dopo, e poi è morta pure mia mamma, per un tumore
al fegato, e la loro perdita mi ha segnato per sempre. Io e i miei fratelli
eravamo ragazzi e oltre che orfani ci siamo ritrovati senza una casa, senza
niente.
Io non ho potuto studiare, mi sono fermato alla terza media, e trovare
lavoro non è mai stato semplice. Ho fatto un po’ di tutto, ma senza mai
riuscire a farcela davvero. E così, senza un posto dove dormire e senza un
lavoro stabile, lentamente mi sono ritrovato per strada già negli anni
settanta. Ho dormito ovunque. Nelle stazioni, nei parchi, sul lungomare di
Ostia. E la vita di strada ti segna. Era così negli anni settanta ed è così
ancora oggi. Si fanno delle amicizie, ma tante se ne perdono. Io non sento
quasi più nessuno delle persone che ho conosciuto in giro. Molti si sono persi,
altri non so che fine hanno fatto. Può succedere a chiunque, basta un divorzio,
un licenziamento. E piano piano, se non hai chi ti aiuta, finisci per strada.
Questa società non perdona nessuno.
Oggi ho una pensione sociale di circa seicento euro ma non ce la faccio lo
stesso a pagarmi un affitto a Roma. Dormo nel centro Santa Giacinta della
Caritas e di giorno ogni tanto vado a Binario 95. Grazie a Binario sono anche
andato a Parigi perché ho vinto un concorso di pittura. Santa Giacinta e
Binario sono posti tranquilli, con pochi ospiti, dove hai la libertà di entrare
e uscire quando vuoi, entro certi limiti, e dove si possono fare delle
attività. Proprio in uno di questi posti ho conosciuto la mia compagna, una
decina di anni fa. Ero alla Caritas di Ostia, dove si trovava anche lei perché
era in difficoltà. È portoghese e ora è dovuta tornare a Lisbona per dare una
mano al padre di 91 anni. Ci sentiamo ogni giorno e io sono andata a trovarla
due volte. Facciamo quello che possiamo.
(Storia raccolta da Giuseppe Rizzo)
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