16° Rapporto sui diritti globali, la
sintesi del Focus del secondo capitolo sulle politiche sociali
Susanna Ronconi *
Dal 16° RAPPORTO SUI
DIRITTI GLOBALI – Un mondo alla rovescia
2°
Capitolo – POLITICHE SOCIALI
Il
Focus – LA SINTESI
Odio, criminalizzazione, esclusione sociale non possono che essere le
parole chiave necessarie nel 2018 per analizzare e capire quanto rapidamente
sta andando avanti, nel nostro Paese e nell’Unione, un processo di “governo
forte”, “disciplinare”, di questi temi sociali cruciali. Sul tema delle
migrazioni l’odio razziale è stato sdoganato dall’alto, con un ruolo assai
incisivo della politica. Non è diverso per le povertà. Quell’inclusione che,
nel vecchio modello, valeva la pena perseguire a fini di coesione e pace
sociale, oggi non solo appare troppo onerosa (il famoso o/o del liberismo dominante, o spendi in welfare o
destini allo sviluppo o, meglio, al profitto), ma anche tutto sommato non
dovuta. I poveri, siano loro a vergognarsi della loro povertà, e a esserne
responsabili – colpevoli – individualmente. I poveri divenuti strutturali e non
meritevoli di investimento, vanno tuttavia governati. Come noto e verificato, a
meno welfare corrisponde più controllo disciplinare, e anche sanzionatorio. Il
processo di controllo disciplinare e
di criminalizzazione della povertà, il ritorno delle “classi pericolose”, è un processo in atto anche in
Europa ormai da tempo. In più, l’ondata populista in Europa ha, nel suo
discorso pubblico, un forte ancoraggio all’aporofobia, il rifiuto
dei poveri, e si sta giocando la carta della produzione di normative antipoveri
alla ricerca di consenso. La povertà, quella visibile soprattutto, instilla in
chi povero non è un senso di incertezza e paura, e la paura è strumento tipico
dei totalitarismi.
Escludere
e punire in Europa. Divieti e sanzioni si stanno diffondendo in tutta l’Unione Europea,
soprattutto attorno all’accattonaggio, come
testimonia anche un’interpellanza al Parlamento Europeo presentata dalla rete
delle ONG europee che lavorano con i senza dimora, a difesa dei loro diritti.
In Ungheria, ad esempio, è in corso da otto anni il
trattamento sanzionatorio dei senza dimora che
segna una nuova, vergognosa, tappa nel giugno del 2018, con la proposta di
Viktor Orbán di inserire nella Costituzione un emendamento che vieta di vivere
nei luoghi pubblici. Formalmente il governo sostiene che sia un modo per
garantire a tutti una casa o un riparo, in realtà i servizi sono insufficienti
e sempre meno sostenuti dallo Stato. In quel Paese, inoltre, sono già in vigore
norme di penalizzazione, e relative sanzioni, per chi dorme in strada: un
programma obbligatorio di lavori socialmente utili, o, in alternativa, una
multa. Se la persona non ottempera né all’uno né all’altro, scatta la sanzione
penale, e alla terza volta si va direttamente in carcere. Il Regno Unito ha
adottato una normativa secondo cui è possibile allontanare forzatamente i
cittadini EU se trovati a dormire in un luogo pubblico, in quanto questo
comportamento violerebbe le norme sulla residenza.
Senza
dimora europei, l’escalation. Le cifre delle persone senza
dimora nell’Unione Europea sono in drammatico aumento. I
soli Paesi a non registrare un incremento significativo sono Norvegia e
Finlandia. In tutto il resto del continente c’è allarme rosso: tra il 2014 e il
2016 +145% in Irlanda e +150% in Germania, con 860.000 homeless censiti e
+20,5% in Spagna; +169% nel Regno Unito negli ultimi 10 anni; tra il 2008 e il
2016 +96% in Belgio e +32% in Austria; in Francia in un solo anno la crescita è
del 17%. Questo trend riguarda anche i minori: sono 3.333 i bambini homeless in Irlanda nel 2017, +276%
rispetto al 2014; in Olanda sono 4.000 nel 2015, +60% rispetto al 2013; in
Francia, dove nel 2012 risultano più di 30.000 minori senza tetto, il 33% degli
utenti di strutture per homeless sono under18, il gruppo più numeroso. In
media, le persone restano nella condizione di senza dimora per più di 10 anni,
e come conseguenza di un così prolungato periodo di deprivazione, l’aspettativa di vita è di 30 anni inferiore rispetto alla media
della popolazione.
Anche contro i senza dimora è stato sdoganato il razzismo. Uno studio
spagnolo segnala una percentuale del 47% delle persone senza dimora che sono
state bersaglio di hate crimes, di
cui l’87% non ha denunciato l’accaduto; tra le donne
homeless il 26% ha subito qualche forma di violenza fisica.
Secondo un’altra ricerca, ad agire discorsi o comportamenti di odio sono
soprattutto uomini (l’87% dei casi), giovani (il 57% degli autori ha una età
tra i 18 e i 35 anni); 10% dei casi è imputabile ad agenti di polizia e l’8% a
persone dichiaratamente naziste. Un progetto valido di aiuto ai senza tetto che
si sta diffondendo è Housing first, che
separa l’accesso a una casa dalle altre forme di sostegno. Non è richiesto ai
senza tetto di aderire a percorsi o servizi psichiatrici o per le dipendenze o
per l’alcol, né devono dimostrare di essere astinenti, secondo un approccio di
riduzione del danno. Housing First è orientato alla recovery, cioè sostiene e incoraggia le persone a non
mettere in atto comportamenti che possano causare loro danno. Oggi è adottato
in larga parte dell’Unione, soprattutto in Danimarca, Finlandia, Irlanda,
Francia, Olanda, Portogallo, Austria, Regno Unito. Anche in Italia si sta
diffondendo questa strategia: all’inizio del 2017, sono censiti 28 progetti in
10 regioni, dal Piemonte alla Sicilia.
Italia.
Dal Pacchetto sicurezza al decreto Minniti. In Italia le regole contro i senza fissa dimora sono appannaggio delle città e
dei sindaci, con l’ondata delle ordinanze seguite a una
innovazione legislativa nazionale, quella legge n. 125 del 2008 che,
all’articolo 54, attribuisce ai sindaci il potere di deliberare in difesa della
incolumità pubblica e della sicurezza urbana.
Nel 2017 arriva il decreto Minniti sul “DASPO urbano”. Il
decreto è figlio dell’incattivimento dei tempi e di una strategia di governo
delle città di lungo periodo, sancisce l’esclusione di gruppi sociali specifici
che vivono in una condizione di marginalità, di disagio sociale, di povertà, o
anche solo di “differenza” sociale o culturale. Prevede sanzioni e divieti per
condotte specifiche: divieti di stazionamento e di occupazione di spazi,
impedimento alla libera accessibilità e fruizione di infrastrutture, fisse e
mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale,
urbano o extraurbano e delle relative pertinenze; e di chi sia in stato di
ubriachezza, compia atti contrari alla pubblica decenza, eserciti il commercio
abusivo, eserciti attività di parcheggiatore o guardiamacchine abusivo;
sanzione amministrativa pecuniaria (100-300 euro) e ordine di allontanamento in
violazione dei divieti di stazionamento, la recidiva comporta un divieto di
accesso a una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei
mesi (il DASPO urbano, decisione del questore); in caso di reati, l’arresto in
flagranza può avvenire in maniera differita, sulla base di documentazione video
fotografica entro 48 ore dai fatti. Insomma, a gruppi sociali specifici tra i
più svantaggiati viene applicato un sistema repressivo che
si sottrae alle regole e alle garanzie del diritto penale e a questo si
aggiunge, ampliando a dismisura l’area del controllo e della sanzione destinata
ai poveri.
L’informazione indipendente fornisce i dati dell’applicazione del decreto:
nell’arco del periodo febbraio-dicembre 2017 risultano 2.104 provvedimenti,
l’85% sono ordini di allontanamento (1.781)
305 sono divieti di accesso in aree urbane e 18 divieti di
accesso in esercizi pubblici. Il trend è in crescita nel corso dei mesi,
soprattutto della misura predominante, che viene comminata soprattutto al Sud
(il 64% degli ordini di allontanamento avviene in Sicilia, 546, Lazio, 530 e
Campania, 495) e nelle grandi città (Palermo, Roma e Napoli); il 10% in Veneto
(212), soprattutto a Venezia, il 4% in Calabria, a Reggio Calabria (86). Ai
minimi, Trentino-Alto Adige (un solo provvedimento) e Marche (5). Le stesse tre
regioni del Centro-Sud totalizzano la gran parte dei divieti di accesso urbano
(il 73% del totale, 222 provvedimenti), seguite da Lombardia (13%, 39) ed
Emilia-Romagna (8%, 20). La durata prevalente del divieto di accesso è di 5
giorni o meno (il 73%), ma non sono pochi i provvedimenti che arrivano a 2-3
mesi (18%) e c’è un 6% che arriva ai 6 mesi. Si tratta innanzitutto di senza
dimora, nativi e migranti, colpiti per comportamenti quali bivacco (dormire),
atti osceni in luogo pubblico (urinare), consumo di bevande in luogo pubblico,
improprio utilizzo delle fontane pubbliche per lavarsi. Poi venditori ambulanti
e giocolieri, parcheggiatori, persone rom che fanno colletta. Secondo gli
ultimi dati ISTAT (che risalgono però al 2014) i senza casa in Italia sono
50.724, per circa il 60% stranieri, per l’85% maschi, per il 56% al Nord. E il
76,6% vive da solo. Si trovano soprattutto nelle grandi città e nei capoluoghi:
Roma, Milano, Palermo, Firenze, Torino, Napoli, Bologna. Solo un terzo deve
vivere di collette, ben il 62% trova lavori e lavoretti e accumula tra i 100 e
i 500 euro al mese, il 14% ha problemi di alcol, droghe e disturbi
psichiatrici. Secondo la Caritas (che ne ha censiti 26 mila nei suoi Centri
d’ascolto), hanno una età media di 43 anni, ma ci sono anche molti giovani tra
i 18 e i 34 anni, più di un quarto del totale. Una rilevazione del 2017
della Federazione Italiana degli Organismi per le Persone Senza Dimora –
l’organismo di coordinamento tra gli enti che si occupano di senza casa – mette
in evidenza un trend di sviluppo della condizione homeless, secondo cui le
categorie in aumento sono quelle dei più giovani (inclusi minori stranieri non
accompagnati), delle donne, dei lavoratori poveri e
di persone che hanno malattie gravi o terminali.
Le
architetture “ostili”. Pensate per impedire il sostare, il sedersi, il dormire è una tendenza comune
a tutte le città europee. La politica
architettonico-securitaria è ormai dispositivo di governo delle povertà urbane. A Londra, ad esempio, è
nata Camden Bench, una panchina di cemento che ha bordi arrotondati e una
pendenza che fa sì che dopo breve tempo risulti scomodissimo restarvi seduti,
tanto meno vi si può dormire o stazionare a lungo. La gamma è ormai ampia:
panchine con braccioli nel mezzo; sedute curve, segmentate e inclinate;
pavimentazioni irregolari e con sporgenze e aculei in ferro; muretti e gradini
con spuntoni e aculei; angoli barricati; divisori stradali e dei marciapiedi.
L’Italia non fa eccezione. Antesignana di tutte le panchine anti-sonno fu
quella disegnata per il sindaco Flavio Tosi di
Verona, già nel 2007, dotata di braccioli che ne dividono la superficie e
impediscono di sdraiarsi. Panchine come quelle sono proliferate in tutto il
Paese, accompagnate dalle “non-panchine” alle fermate dei bus, dove ci si può
solo appoggiare e non sedersi.
A mano
armata. I frutti violenti del securitarismo. Con la crescita dell’enfasi
securitaria, dell’insicurezza percepita e delle
retoriche giustizialiste, cresce la quota di violenza endemica nella società, i
cui bersagli sono sempre più gli esclusi e i migranti.
Le ricadute sulla polizia municipale delle
normative sulla sicurezza urbana hanno portato verso una sua maggiore militarizzazione e una centralità della sua
funzione anticrimine. Il processo di armamento delle polizie locali è in
crescita: tra i capoluoghi di provincia solo nel 12% dei casi la polizia non è
dotata di armi. Nel restante 88%, 90 città, l’armamento è andato aumentando dal
2012, anno in cui era armato l’85% del personale, nel 2014 era l’87%, nel 2016
il 92%. Complessivamente, nei capoluoghi circolano nella polizia municipale 27.308
armi. Il Taser, la “pistola elettrica non letale” i cui impulsi
elettrici (50 mila volt!) paralizzano momentaneamente (ma a volte
definitivamente…), dal 5 settembre 2018 viene sperimentata come arma di
ordinanza per polizia, carabinieri e Guardia di finanza. Inoltre, in base
al decreto Salvini su sicurezza e immigrazione,
sempre del settembre 2018, anche i Comuni oltre i 100 mila abitanti potranno
dotare di Taser la polizia municipale, decidendolo con un semplice regolamento
comunale. La logica dichiarata è quella di intervenire a mano armata limitando
i rischi delle armi da fuoco, ed è una logica prettamente adeguata all’ordine
pubblico sulle strade metropolitane, ma secondo molte associazioni per i
diritti umani, guardando all’esperienza in USA e Canada, l’effetto sarà ben
diverso: il Taser spesso non è utilizzato dalle polizie come alternativa meno
pericolosa rispetto all’arma da fuoco, ma come alternativa più incisiva ad
altri mezzi coercitivi come manette o manganelli. Dunque, con un possibile uso anche
in ordine pubblico o, appunto, contro poveri o
emarginati che “disturbino”. I casi di morti correlate all’utilizzo del Taser
negli USA dal 2001 a oggi sono circa mille, il 90% erano persone disarmate, con
problemi di salute dovuti anche all’utilizzo di alcol o droghe, o anche solo in
stato di stress e fatica dopo una corsa. Amnesty International denuncia «la facilità con cui il Taser può rilasciare scariche
multiple, che possono danneggiare anche irreversibilmente il cuore o il sistema
respiratorio».
Il
razzismo democratico. Il senso comune e lo hate speech contro
poveri e diversi ha “liberato” la violenza contro gli ultimi. Hanno riempito le
cronache gli attacchi razzisti a persone di
colore, compiuti come veri e propri raid, armi in pugno. Ma nel 2018 c’è da
registrare anche la pratica diffusa di “tiri al bersaglio” con armi pneumatiche
ad aria compressa, su cui i responsabili hanno un atteggiamento superficiale e
autoassolutorio, come si trattasse di ragazzate. Sono 11 i casi noti
nell’estate 2018, tutti ai danni di persone straniere. La corsa al porto d’armi è già scattata da tempo. La Lega
avanza sulla riforma della legittima difesa,
mentre il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha già onorato il patto con
la lobby delle armi (un indotto di 2.264 imprese, un
giro d’affari di oltre 7 miliardi di euro, cioè lo 0,44% del PIL, 87.500
occupati). Il 10 agosto 2018 viene emanato il decreto n. 104 che porta da 6 a
12 le armi sportive che si possono detenere, arrivano a 10 le armi lunghe e a
ben 20 quelle corte e cresce anche il numero dei proiettili, si allarga
dismisura il numero delle tipologie di persone che possono detenere un’arma da
guerra, grazie all’ampliamento della platea dei “tiratori sportivi”.
La
politica degli sgomberi. Un altro esempio di questo spirito securitario sono
gli sgomberi di abitazioni o luoghi occupati abusivamente. Le ragioni del
moltiplicarsi di occupazioni di stabili sfitti sta tutta nei numeri, delle
povertà in generale, e in quelli delle mancate politiche
per la casa, in particolare. Secondo dati del ministero
dell’Interno, nel 2017 sono state emesse 59.609 sentenze di sfratto, e di queste ben il 90% è per morosità incolpevole, che vuol dire impossibilità
manifesta degli inquilini di poter far fronte alle spese dell’affitto. Occupare
case sfitte o strutture in disuso, dunque, è l’unica alternativa per molte
famiglie italiane, oltre che per molti migranti e richiedenti asilo. Il primo
settembre 2018 Salvini ha firmato una circolare che, rifacendosi al decreto
Minniti, valuta positivamente l’azione tempestiva per prevenire nuove
occupazioni, ma invita a fare meglio: cioè, ad attivare attività
info-investigative per prevenire possibili invasioni. Prende
il via, dunque, il nuovo corso: vengono sgomberati rifugiati, migranti,
italiani, rom, senza alcuna alternativa, tanto che seguono immediate nuove
occupazioni, in un crescendo di tensione e conflittualità sociale.
I campi
rom. In Italia 26.000 persone rom vivono in emergenza abitativa nei campi,
16.400 in 148 insediamenti formali e circa 10.000 in campi informali. Il 73%,
7.000 persone, è disseminato in cinque regioni: Campania, Lazio, Piemonte,
Puglia e Lombardia. Le politiche municipali oscillano tra tolleranza di
situazioni anche informali a cui non hanno soluzioni da offrire, e loro
parziale regolamentazione, e politiche dello sgombero forzato,
spesso senza alternative e dunque destinato a riprodurre e disseminare altri
campi informali. Il 2017 si caratterizzano per un elevato numero di sgomberi
forzati in molte città, condotti spesso in deroga alle tutele procedurali
previste dal diritto internazionale. Gli sgomberi forzati sono stati 230, 96
nel Nord Italia, 91 nel Centro e 43 nel Sud; a Roma sono stati 33 e a Milano
25. Eguale tendenza si verifica nel 2018.
Le
politiche sulle droghe. Nel 2014 la Corte Costituzionale boccia la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, e si ritorna
al testo della legge 309 del 1990. Non una rivoluzione, ma almeno l’abrogazione
di alcune tra le misure più afflittive. Con l’articolo 13 del decreto Minniti si ritorna indietro. Nei confronti
di soggetti condannati (anche solo in appello) nell’ultimo triennio per reati
di produzione, traffico, cessione e detenzione illeciti di sostanze
stupefacenti, il questore ha il potere di disporre il divieto di accesso o anche
stazionamento nei locali pubblici o nei pubblici esercizi. La violazione delle
misure comminate è punita con una sanzione pecuniaria amministrativa (assai
elevata, tra 10 e 40 mila euro) e con la sospensione della patente. E si torna
al vecchio 75 bis della legge Fini-Giovanardi, che prevedeva appunto una serie
di misure comminate dal questore verso persone con condanne anche non
definitive per reati sugli stupefacenti e giudicate pericolose per la sicurezza
pubblica. Le misure del decreto Minniti sono destinate alle figure minori,
quelle di strada, spesso consumatori che spacciano su modica scala o comunque
piccoli spacciatori. Come sempre, la gran parte dei dispositivi penali sulle
droghe toccano i pesci piccoli e non intaccano il mercato nero e il grande
traffico. Con il decreto Minniti riprende a salire la percentuale di chi entra
in carcere per detenzione di sostanze, il 30%
degli ingressi, 14.139 su 48.144, l’8,5% in più rispetto all’anno precedente,
mentre coloro che sono incarcerati per traffico sono solo 4.981, e per
associazione finalizzata al grande traffico 976. Le persone tossicodipendenti
detenute sono una su quattro, 14.706 su 57.608, anche questo un trend di nuovo
in ascesa dopo il calo seguito all’abrogazione della legge Fini-Giovanardi. Ma
è il dato delle persone obbligate al colloquio prefettizio e sottoposte a sanzioni amministrative a dare il polso dell’aria
che tira: per detenzione ai fini del solo consumo personale (art. 75), vengono
sanzionate nel 2017 38.613 persone, con ben +18% sul 2016 e +39% sul 2015.
I minori vengono colpiti quattro volte più del 2015,
i consumatori di cannabis rappresentano l’80%. Le sanzioni comminate, 15.581
(+15%), colpiscono il 43% di quanti inviati dal prefetto, a fronte di
un’irrilevanza degli invii a un percorso terapeutico, 86 in tutto. Sulla scia
di Minniti, insieme al DASPO urbano per
i pesci piccoli del mercato delle droghe, il nuovo governo gialloverde lancia
un piano law&order per le
scuole nella stessa logica di privilegio degli strumenti repressivi che tutta
la politica del governo delle città esprime. Scuole
sicure, direttiva del ministero dell’Interno che punta a
debellare lo spaccio nelle scuole grazie a videosorveglianza, polizia e cani,
investendo 2,5 milioni di euro di cui solo il 10% a favore di un lavoro
educativo.
Hate
speech, cresce il razzismo. La Mappa dell’Intolleranza, stilata da Vox –
Osservatorio Italiano sui Diritti, segnala per il 2017-2018 una decisa crescita
dei discorsi d’odio on line, soprattutto per xenofobia, islamofobia e antisemitismo,
tra le categorie analizzate (che includono anche donne, persone omosessuali e
diversamente abili). Le analisi si basano sui messaggi su Twitter in due periodi, tra maggio e novembre nel
2017 e tra marzo e maggio nel 2018. I migranti sono il secondo target
dell’odio: i messaggi xenofobi sono il 32,45% del totale nel 2017 e il 36,93%
nel 2018, con un incremento in pochi mesi del 4%. Il contesto è quello di un
aumento esponenziale dei casi di discriminazione rilevati,
di cui il 69% avviene appunto per ragioni razziste, dai 540 del 2000 ai 2.652
del 2016, 5 al giorno. Gli italiani pensano per il 42% che gli stranieri siano
troppi; sono in realtà poco più di 5 milioni (5.144.440 immigrati regolarmente
residenti, corrispondenti all’8,5% della popolazione totale, secondo il XXVII
Rapporto della Caritas sull’immigrazione), che portano l’Italia a collocarsi al
5° posto in Europa e all’11° nel mondo. Il 24% vorrebbe respingerli tutti, il
44% vorrebbe accogliere solo rifugiati. Se poi si parla di rom, l’Italia vanta il primato negativo degli haters: l’82% li odia, nessuno peggio di noi. Le grandi
città sono le più razziste e xenofobe, Roma, Milano, Napoli, Firenze, Torino.
Tutti i
bersagli dell’odio on line. Le donne innanzi tutto, poi gli islamici, verso cui
cresce l’odio in tutto il Paese. Nuovo primato negativo, gli italiani antisemiti, il 21%, i peggiori in Europa. Ci sono 300 siti web antisemiti, di
cui 20 negazionisti e 160 profili Facebook. Il 40% delle persone LGBT dichiara di aver subito nell’ultimo anno
una discriminazione, soprattutto a scuola e sul posto di lavoro, sono il 60%
gli italiani che vorrebbero “maggior discrezione” da parte delle persone LGBT,
il 30% pensa sia meglio nascondere la propria omosessualità, il 41% non
vorrebbe una persona omosessuale come insegnante. Soprattutto al Sud e in
Lombardia permane l’odio verso i disabili. Le grandi città sono le più
intolleranti: presi di mira sindrome di down e disabilità gravi. Infine, il
barometro dell’odio cresce in tempi di campagna elettorale: in tre settimane
787 segnalazioni, un messaggio di odio ogni ora. Riguardano 129 candidati di
cui oggi 77 siedono in Parlamento. Il 43,5% degli hate speech viene da leader politici, primato alla
Lega (50%), 27% Fratelli d’Italia, 13% Forza Italia, 4% Casa Pound, il 3%
L’Italia agli Italiani e 2% Movimento 5 Stelle. Il bersaglio privilegiato, il
migrante (91%), ma ce n’è anche per persone LGBT (6%), rom (4,5%) e donne
(1,8%). Il 7% delle dichiarazioni incita in modo esplicito alla violenza.
* Fonte: 16° Rapporto sui diritti globali
**********
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