1.
L’orizzonte dell’inclusione è scomparso
Nella storia
del capitalismo post-Rivoluzione d’Ottobre ha chiaramente vinto la tesi secondo
cui esiste una sorta di proporzionalità inversa tra diseguaglianza
sociale e degrado ecologico: ciò significa che per migliorare le condizioni
di vita della maggioranza della popolazione l’unica strada percorribile è
aumentare a dismisura la pressione sulla biosfera.
Ciò che
il New Deal negli Stati Uniti e le politiche dei
Trenta Gloriosi in Europa Occidentale, ma anche la pianificazione
economica Sovietica, avevano in comune era infatti l’idea che l’inclusione
sociale delle classi subalterne potesse avvenire solo attraverso la crescita
economica (misurata attraverso il PIL, la cui nascita è datata 1934,
non casualmente), intesa come aumento della produzione, e che questa prevedesse
necessariamente un’intensificazione dell’impatto ambientale. L’obiettivo
teorico dell’inclusione ha guidato le forme dell’agire politico oltre che la rappresentazione
pubblica del potere. La grande crisi iniziata negli anni Settanta ha ormai
ridotto drasticamente la capacità di funzionare di questo ideale regolativo e
sta rendendo evidente il funzionamento reale del sistema. Si tratta di un
mutamento radicale che è destinato a segnare la fine della prospettiva di
inclusione: l’orizzonte di miglioramento sociale non esiste più, ma persistono
lo sfruttamento delle risorse e il degrado ambientale. È diventato
evidente che l’assoluta maggioranza della popolazione mondiale è destinata a
restare stabilmente esclusa dalla ricchezza e adesso anche a pagare le
conseguenze della crisi ecologica e di quella climatica.
2. Le
minoranze rumorose hanno determinato il problema politico
Il discorso
cambia però se si presta attenzione alle minoranze “rumorose”. Prendendo
per esempio in considerazione la grande stagione delle lotte contro le nocività
industriali (in particolare 1968-1973) o considerando l’esplosione recente dei
conflitti per la giustizia ambientale in diverse aree del pianeta, non è
esagerato sostenere che la crisi ecologica sia divenuta un problema
specificamente politico grazie e non malgrado la
conflittualità operaia e sociale. L’idea che per costruire società più
egualitarie fosse necessario produrre di più e quindi aumentare l’impatto
negativo sull’ambiente ha sempre guidato l’azione delle socialdemocrazie ed è
invece stata sempre avversata dagli ambientalisti (che hanno spesso accettato
il corollario di questo ragionamento: a un ambiente più sano avrebbe fatto da
contraltare una società più diseguale). Mentre soprattutto nella storia europea
si è prodotta un’evidente frattura anche tra l’ortodossia marxista dei
grandi partiti e la reinterpretazione operaista del problema,
che ha portato diverse esperienze di movimento a partecipare alle battaglie
ambientaliste con posizioni molto radicali. È stata una stagione in cui la
conflittualità aperta riguardava proprio l’idea dello sviluppo attraverso
l’industrializzazione, la questione che solo l’aumento numerico della classe
operaia avrebbe potuto garantire il cambiamento sociale. Quella stagione e
quella rappresentata dai movimenti attuali hanno mutato l’oggetto del
contendere.
3. Il
negazionismo reazionario è una delle soluzioni neoliberali
In questo
quadro, quasi tutte le forze politiche tradizionali, ormai interne al quadro
neoliberale, hanno assunto un atteggiamento che oscillava fra l’aperto
negazionismo e l’indifferenza: prima bisognava concentrarsi sulle questioni
relative alla Guerra Fredda, poi bisognava sostenere la costruzione del mondo
globalizzato. È chiaro che da questo punto di vista non esiste alcuna
prospettiva di estinzione della specie umana né sono interessanti i richiami
alla sesta estinzione di massa, l’idea del limite si pone infine solo per i gruppi
sociali più deboli, non per il sistema nel suo complesso. La scelta del
negazionismo in campo climatico o ecologico è perfettamente coerente con il
grande progetto reazionario neoliberale, in cui non esiste nulla al di fuori
dello spazio di mercato. In assenza di una strategia di sviluppo capace di
trasformare il problema ecologico da fattore di crisi a opportunità di
profitto, la risposta delle élite al protagonismo dei movimenti sociali è
rimasta l’inversione di tendenza rispetto alla forbice sociale: aumentare la
polarizzazione sociale ad ogni passaggio della crisi. La contraddizione tra
capitalismo e democrazia è stata risolta all’interno di questo disegno: si è
operata la riduzione dell’autonomia e la capacità di azione dei sistemi
politici e degli Stati anche allo scopo di estrarre liberamente tutte le
risorse necessarie.
4. La
conversione verde è un’altra soluzione neoliberale
Il progetto
neoliberale implica anche il rafforzamento di una particolarità del sistema,
cioè la tendenza del capitalismo ad assorbire tutte le anomalie per
renderle conformi ai principi dell’accumulazione. La categoria
di sviluppo sostenibile (1987) non si è sottratta a questo
schema, indica ormai chiaramente una possibile compatibilità tra
accumulazione del capitale e cura dell’ambiente. Verso la metà degli anni
Novanta, l’idea di green economy ha permesso di
fare un passo in più, riuscendo a presentare la crisi ecologica non più come un
ostacolo allo sviluppo, bensì come una sua fondamentale condizione di
possibilità (si pensi per esempio a come viene normalmente presentata l’economia
circolare nel dibattito pubblico). C’è un ragionamento sottile che
accompagna tale svolta, perché a causare il degrado ambientale non è il
capitalismo, è la povertà o, meglio, sono i poveri. Essi devono
essere messi in condizione di non nuocere, ed è per questo che le politiche
di green economy si incrociano con quelle di deportazione
delle comunità di nativi nel Sud globale, di espulsione di contadini dalle loro
terre e di gentrificazione delle città. L’idea di fondo, dal sapore tardo
ottocentesco è, in fin dei conti, che la diseguaglianza sociale sia necessaria
alla salubrità dell’ambiente. Ciò perché se bisogna liberarsi dal welfare
state e dalle preoccupazioni sociali, lasciando libere le élite di
investire per salvaguardare gli equilibri ambientali, si torna di fatto
all’idea che solo i ricchi possono salvare il pianeta. È una posizione
ideologica che serve a preparare una nuova grande ondata di accumulazione che
segue esattamente il modello di espropriazione delle precedenti e si realizza
sul corpo di donne, migranti, lavoratori e lavoratrici. Questa idea
fondamentalmente neoliberale possiede anche un risvolto politico, perché a
farsi carico della stabilità ambientale – e in particolare climatica – saranno
esperti illuminati e non le comunità: la partecipazione democratica diviene
dunque un fattore di limitazione rispetto a politiche pubbliche definite come
ecologiste.
5. Il
mercato ha fallito, viva il mercato
Si tratta di
pratiche di governo che sono state implementate a partire dal 1997, anno della
firma del Protocollo di Kyoto. Il riscaldamento globale è stato
rappresentato come un fallimento del mercato (che non ha saputo
contabilizzare le cosiddette “esternalità negative”) e quindi l’unica
originale soluzione presentata è stata ricorrere di nuovo al mercato.
Bisogna ribadire che l’invenzione dei nuovi mercati delle emissioni è
al momento l’unica soluzione proposta e l’unica prospettiva di politica
economica entro cui si muove la Convenzione Quadro sui Cambiamenti Climatici
dell’ONU. Il vero dato interessante ci sembra però che l’ampio consenso sociale
e geo-politico rispetto a questa opzione di governo del clima sia scomparso.
Non solo dal punto di vista degli apparati statali, che hanno chiaramente
dimostrato la loro assoluta impotenza in questo contesto. Lo si è visto
chiaramente all’ultima conferenza delle parti a Katowice, dove il
fronte negazionista (Stati Uniti, Brasile, Arabia Saudita, Kuwait),
che si muove secondo schemi politici classici, ha di fatto sconfessato
l’IPCC, cioè l’istituzione scientifica incaricata di fornire i dati a
partire dai quali la negoziazione propriamente politica si sarebbe poi dovuta
sviluppare. Bisognava rinegoziare, ma in un mercato libero, assumendo che le emissioni
sono una merce da gestire secondo un metodo consolidato, ossia nessuna regola,
ma soprattutto non devono esserci istituzioni nella
contrattazione, ma le grandi aziende. In quella occasione è emersa
anche la crisi di buona parte delle ONG, che ha finalmente deciso
di cambiare il campo di confronto politico, soprattutto di fronte a risultati
empirici sconsolanti: a più di vent’anni da Kyoto le emissioni sono
aumentate, non diminuite e sono andate di gran lunga oltre ogni limite
oggetto di contrattazione (è il punto fondamentale dei vari interventi di Greta
Thunberg).
In questo
scenario, sono stati i movimenti socio-ecologici a scompaginare tutto il quadro
politico, occupando
lo stesso spazio che avevano avuto in passato, cioè determinando il problema politico
e ponendo le basi per la nascita di uno spazio politico globale del tutto
nuovo. Il numero incredibile di conflitti per la giustizia ambientale
evidenzia un percorso in cui il quadro è totalmente sovvertito, le questioni
poste sono totalmente differenti da quelle discusse nei summit sul clima e gli
attori in campo sono nuovi. Sta scomparendo l’orizzonte statale delle
rivendicazioni e soprattutto non c’è alcuno spazio di mediazione sul fatto che
il problema è il capitalismo, non gli esseri umani.
6. La
transizione la paghino i ricchi
Dopo la
presentazione della proposta da parte del partito democratico
statunitense, un’area della sinistra mondiale si sta ricompattando
intorno alla proposta di un Green New Deal, senza però avere realmente
presentato un progetto concreto né fattivamente risolto il problema
rappresentato dalla proposta di investimento pubblico in settori che vengono
rigorosamente mantenuti privati. Governi come quello italiano e spagnolo,
per esempio, hanno inserito la proposta tra i propri obiettivi, senza
ovviamente chiarire cosa intendano fare. Le opposizioni di Stati Uniti e Gran
Bretagna presentano progetti un po’ meno vaghi, ma sempre molto generici. Il
problema di fondo rimane lo stesso, non è dato investimento di tipo keynesiano
all’interno di un progetto neoliberale, altrimenti l’intera faccenda si risolve
nell’ennesimo trasferimento di denaro pubblico ai privati. Finché la
discussione rimarrà finalizzata a sostenere l’uscita dalla crisi nel campo
capitalista i risultati potranno essere compatibili solo con la proposta di una
nuova grande ondata di accumulazione verde. Esistono in realtà già
proposte alternative, molto concrete, costruite sull’idea che il “Green New
Deal” sia un percorso da realizzare dal basso, soprattutto finalizzato
all’eguaglianza sociale e non alla riproduzione del sistema. L’inversione dello
schema neoliberale si risolve infatti proprio in questo, nell’idea che la
riduzione delle diseguaglianze è la condizione necessaria per la transizione
ecologica, dall’una dipende l’altra. Un sistema costruito sulla
sopraffazione non può realizzare alcuna transizione ecologica se non in termini
di sottrazione di libertà. Ciò significa che non è necessario produrre di più,
bensì distribuire diversamente e privilegiare la partecipazione popolare e
democratica. In fin dei conti è anche quello che dicono in questi mesi
i gilets jaunes, la cui lotta possiede evidenti connotazioni
ambientali: la transizione ecologica la vogliamo, ma non a spese di chi
è già impoverito: la paghino i ricchi.
(Articolo
tratto dal Granello di Sabbia n. 42 di Novembre – Dicembre 2019. “Il Sol dell’avvenire e l’avvenire del Sole“)
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