[…] Gli zapatisti non sono affatto un fenomeno eccezionale.
Parlano una varietà di lingue maya (tzeltal, tojalobal, chol, tzotzil, mam),
sono originari di comunità che hanno tradizionalmente conosciuto un certo grado
di autogoverno (in parte perché così potevano funzionare come riserve di lavoro
indigeno per gli allevamenti e le piantagioni situati altrove), e di recente
hanno formato nuove comunità, in gran parte multietniche, in nuovi territori
della Selva Lacandona [Collier, 1999; Ross, 2000; Rus, Hernandez e Mattiace,
2003]. In altre parole, sono un classico esempio di quegli spazi di
improvvisazione democratica di cui ho parlato, in cui un amalgama indefinito di
persone, molte delle quali con esperienze precedenti di autogoverno municipale,
porta alla costituzione di comunità inedite al di fuori del controllo
diretto dello Stato. E non c’è niente di particolarmente nuovo neppure nel
fatto che sono al centro di un gioco globale di influenze: se da una parte
hanno assorbito idee da molti posti, dall’altra con il loro esempio hanno
avuto un enorme impatto sui movimenti sociali di tutto il pianeta. Il
primo encuentro zapatista del 1996, per esempio, ha portato alla
formazione di una rete internazionale denominata People’s Global Action (pga) e
basata sui principi di autonomia, orizzontalità e democrazia diretta. Sono
entrati a farne parte i gruppi più disparati, come il Movimento dos
Trabalhadores Rurais Sem Terra in Brasile, la Karnataka State Farmer’s
Association (un gruppo indiano di azione diretta che si ispira al socialismo
gandhiano), e un numero infinito di collettivi anarchici in Europa e nelle
Americhe, oltre a numerose organizzazioni indigene di ogni continente. È stato
proprio il pga a chiamare a raccolta contro la riunione del wto a Seattle nel
novembre 1999. I principi dello zapatismo, il rifiuto
dell’avanguardismo, l’enfasi sulla creazione di alternative
percorribili nella propria comunità al fine di sovvertire la logica del
capitale globale: tutto questo ha avuto un’enorme influenza su coloro che
hanno partecipato ai nuovi movimenti sociali, anche se spesso le persone
coinvolte avevano solo una vaga idea di chi fossero gli zapatisti e quasi
sicuramente non avevano mai sentito parlare del pga. Senza dubbio lo sviluppo
di internet e delle comunicazioni globali ha permesso a questo processo di
procedere più velocemente che in passato, aprendo la strada ad alleanze più
formali ed esplicite, ma questo non significa che ci troviamo di fronte a un
fenomeno senza precedenti.
Si può valutare l’importanza di questo punto solo se si prende in
considerazione ciò che può succedere quando non lo si tiene sempre ben
presente. Voglio a questo proposito citare un autore le cui posizioni sono
piuttosto vicine alle mie. In un libro intitolato Cosmopolitanism [2002], Walter
Mignolo spiega in modo efficace quanto siano legati all’idea di
conquista e di imperialismo la tesi di Kant sul cosmopolitismo o la
dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti umani. Inoltre cita l’appello
alla democrazia degli zapatisti per rispondere a Slavoj Žižek quando afferma
che gli attivisti di sinistra devono stemperare la critica all’etnocentrismo,
riconoscendo che la democrazia è «l’autentica eredità europea dall’antica
Grecia in avanti» [1998, p. 1009]. Scrive Mignolo:
Gli zapatisti hanno utilizzato la parola «democrazia» nonostante essi la
intendano in modo differente rispetto al senso che le attribuisce il governo
messicano. La democrazia non viene concettualizzata dagli zapatisti a
partire dalla filosofia politica europea, ma a partire dal modello di
organizzazione sociale dei Maya, fondato sulla reciprocità, sui valori
comunitari invece che sui valori individuali, sulla saggezza piuttosto che
sull’epistemologia […]. Gli zapatisti non hanno avuto scelta. Sono
stati costretti a usare la parola imposta dal discorso politico egemonico,
sebbene l’utilizzo della medesima parola non comporti una sua interpretazione
mono-logica. Ma una volta che è stata utilizzata, la parola «democrazia»
diventa un link attraverso il quale le concezioni liberali di democrazia e i
concetti indigeni di reciprocità e organizzazione sociale comunitaria si
incontrano [2002, p. 180].
Si tratta di una buona idea. Mignolo la definisce border thinking,
«pensiero di confine», e la propone come modello per arrivare a un sano
«cosmopolitismo critico», in opposizione alla variante eurocentrica
rappresentata da Kant o Žižek. A me sembra però che Mignolo in questo processo
teorico finisca per ricadere in una versione più edulcorata dello stesso
discorso essenzialista che sta cercando di evitare. In primo luogo, dire che
«gli zapatisti non hanno avuto scelta» se non usare la parola «democrazia» è
semplicemente falso. Ovviamente hanno fatto una scelta. Altri gruppi
indigenisti hanno fatto scelte diverse. Il movimento aymara in Bolivia,
per fare un esempio, ha deciso di rifiutare in toto la parola
«democrazia» perché, sulla base dell’esperienza storica del loro popolo, il
nome era stato applicato solo a sistemi imposti su di loro con la violenza.
Pertanto, la loro tradizione di processi decisionali egualitari non aveva nulla
a che fare con la democrazia. A me sembra che la decisione zapatista di
accogliere il termine sia stata più che altro una decisione volta non solo a
prendere le distanze da una possibile politica identitaria, ma anche a cercare
alleati, in Messico e altrove, tra quanti sono interessati a un più ampio
dibattito tra le forme di auto-organizzazione (allo stesso modo in cui hanno
cercato di innescare un dibattito con chi era interessato a riesaminare il
significato di parole come «rivoluzione»). In secondo luogo, Mignolo, come
Lévi-Bruhl, si mette a fare paragoni tra mele e arance, cioè tra la teoria
occidentale e la pratica indigena. Di fatto, lo zapatismo non è una semplice
emanazione delle pratiche tradizionali maya: le sue origini vanno cercate in un
prolungato confronto tra queste pratiche e molteplici soggetti, come gli
stessi intellettuali maya (probabilmente a loro agio anche con
le opere di Kant), o i teologi della liberazione (che si
ispirano a testi profetici scritti nell’antica Palestina), o i meticci
rivoluzionari (che si ispirano all’opera del presidente Mao,
vissuto in Cina). La democrazia non emerge dal discorso di qualcuno. Sembra
quasi che anche autori come Mignolo, quando prendono come punto di partenza la
tradizione occidentale, magari per criticarla, finiscono per rimanervi
intrappolati dentro.
In realtà, «la parola imposta dal discorso egemonico» è in questo caso un
compromesso-grimaldello su una parola greca coniata originariamente per
descrivere una forma di autogoverno municipale e poi applicata a una repubblica
rappresentativa. È proprio questa contraddizione che gli zapatisti hanno
ereditato. In effetti, sembra impossibile sbarazzarsene. I teorici liberali [per
esempio Sartori, 1987, p. 279] di tanto in tanto mostrano il desiderio di
mettere da parte la democrazia ateniese, dichiararla irrilevante e farla finita
con questa eredità, ma per motivi ideologici questa mossa è tuttora
inammissibile. Tutto sommato, senza Atene non si potrebbe più sostenere che la
«tradizione occidentale» ha in sé qualcosa di democratico. Non rimarrebbe che
far risalire le nostre idee politiche alle meditazioni totalitarie di Platone,
o altrimenti ammettere che non esiste qualcosa che nella realtà corrisponda al
concetto di «Occidente». In effetti, anche i teorici liberali si sono chiusi
nell’angolo. Ovviamente gli zapatisti non sono i primi rivoluzionari a essersi
impossessati di questa contraddizione, ma le loro azioni stavolta hanno avuto
una risonanza inusuale e potente, in parte perché ci troviamo in un’epoca in
cui lo Stato attraversa una profonda crisi.
Il matrimonio impossibile
Credo che questa contraddizione, nella sua essenza, non sia solo
linguistica. Riflette qualcosa di più profondo. Negli ultimi duecento anni, i
democratici hanno cercato di innestare gli ideali di autogoverno popolare
sull’apparato coercitivo dello Stato. Ma per loro natura gli Stati non
si possono realmente democratizzare. Rimangono, tutto sommato, delle forme
di violenza organizzata. I Federalisti americani erano realistici quando
sostenevano che la democrazia è in contraddizione con una società che si basa
sulle diseguaglianze di ricchezza, perché per difendere quella ricchezza serve
un apparato coercitivo che tenga a freno la plebe alla quale la democrazia
conferisce potere. In questo senso Atene era un caso unico nel suo genere
perché era un fenomeno di transizione: c’erano diseguaglianze di potere,
probabilmente anche una classe egemonica, ma non esisteva un apparato
coercitivo formale. Di qui l’assenza di accordo tra gli studiosi sul fatto se
Atene fosse o meno uno Stato.
Analizzando il monopolio della forza coercitiva dello Stato moderno si vedono
le pretese democratiche dissolversi in un mare di contraddizioni. Per esempio,
mentre le élites moderne hanno in gran parte abbandonato il
discorso ampiamente utilizzato in passato sul popolo come «grande bestia»
assassina, la stessa immagine torna alla ribalta, quasi nelle stesse forme del
XVI secolo, nel momento in cui si propone di democratizzare certi aspetti
dell’apparato coercitivo. […]
Francis Dupuis-Déri [2002] ha coniato il termine «agorafobia politica» per
riferirsi alla diffidenza verso le deliberazioni e le procedure decisionali
pubbliche, una diffidenza che percorre tutta la tradizione occidentale, dalle opere di
Costant, Sieyés e Madison fino a Platone e Aristotele. Aggiungerei che anche le
conquiste più sorprendenti dello Stato liberale, i suoi elementi più
genuinamente democratici come le garanzie sulla libertà di parola e di
riunione, rimandano alla stessa agorafobia. Solo quando diventa assolutamente
chiaro che il discorso pubblico e l’assemblea non sono il fulcro della
decisione politica, ma nel migliore dei casi il tentativo di criticare,
influenzare o stimolare chi prende le decisioni, solo allora quelle garanzie
diventano sacrosante. Malauguratamente, questa agorafobia non viene condivisa
solo dai politici e dai giornalisti ma anche, in larga misura, dal pubblico. Le
ragioni non vanno cercate troppo lontano. Le democrazie liberali non
hanno niente di simile all’agorà ateniese, ma non scarseggiano
di circhi romani. Il fenomeno degli «specchi deformanti», con cui le élites al
potere incoraggiano le forme di partecipazione popolare che ricordano
continuamente alle persone comuni quanto siano inadatte a governare, sembra
aver raggiunto la perfezione in molti Stati moderni. Si consideri per esempio
la diversa visione di natura umana che si potrebbe ottenere se si partisse da
un’esperienza di guida automobilistica in autostrada o da un’esperienza di
trasporto pubblico. Ma questa passione degli americani (o dei tedeschi) per le
automobili non è casuale bensì il risultato di decisioni politiche consapevoli
prese dai politici e dalle élites industriali agli inizi degli
anni Trenta. E si potrebbe scrivere una storia simile anche per la televisione,
o per il consumismo, o – come ha osservato Polanyi tanto tempo fa – per il
«mercato».
Che la natura coercitiva dello Stato si fondi su una contraddizione
fondamentale i giuristi lo sanno da tempo. Walter Benjamin [1978]
ha ben colto la questione sostenendo che qualsiasi ordine legale che reclama il
monopolio dell’uso della violenza fonda le sue pretese su un potere altro da
sé, ovvero su atti che erano considerati illegali nel sistema giuridico
precedentemente in vigore. Pertanto, la legittimità di un sistema giuridico
poggia necessariamente su atti violenti di natura criminale: i rivoluzionari
francesi o americani erano in fondo colpevoli di alto tradimento dal punto di
vista del sistema giuridico in cui erano cresciuti. I re sacri, dall’Africa al
Nepal, avevano risolto la questione collocandosi, come gli dèi, al di fuori del
sistema. Ma come ci ricordano autori come Agamben e Negri, il «popolo» non può
evidentemente esercitare la sovranità allo stesso modo. […]
Lo Stato democratico è da sempre un concetto contraddittorio. La globalizzazione –
con la sua spinta a creare nuove strutture decisionali su scala planetaria, che
hanno semplicemente reso grottesco ogni riferimento alla sovranità popolare o
addirittura alla partecipazione – si è limitata a rendere evidente questa
contraddizione. Come di consueto, la soluzione neoliberista è stata di
confermare il mercato come l’unica forma di decisione pubblica di cui abbiamo
bisogno, riducendo lo Stato alle sue funzioni esclusivamente coercitive.
Ed è proprio per questo che la proposta zapatista è assolutamente
sensata: bisogna abbandonare l’idea che la rivoluzione significhi impossessarsi
dell’apparato coercitivo dello Stato e innescare invece un processo di
rifondazione della democrazia basato sull’auto-organizzazione di comunità
autonome. Questa è la ragione per cui una remota insurrezione nel sud del
Messico ha provocato tanto entusiasmo in tutto il mondo, sicuramente nei
circoli radicali ma non solo.
Sembra quasi che la democrazia stia tornando negli spazi da cui è sorta:
negli spazi intermedi, negli interstizi del potere. Se da lì riuscirà a
estendersi all’intero pianeta dipenderà non tanto dalle nostre teorie quanto
dalla nostra reale convinzione che la gente comune, seduta insieme a
deliberare, sia capace di gestire le proprie faccende meglio delle élites che
le gestiscono a loro nome e che impongono le decisioni prese con la forza delle
armi. Per gran parte della storia umana, di fronte a queste domande, gli
intellettuali di professione hanno sempre preso le parti delle élites.
La mia impressione è che la maggioranza delle persone sia ancora sedotta dagli
«specchi deformanti» e non abbia fiducia nelle possibilità della democrazia
popolare. Ma forse adesso le cose stanno cambiando.
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