The Many pensano
come se fossero the Few . Ecco la radice della sconfitta del Labour –
Massimiliano Civino
Spesso la semplificazione diventa inevitabile, perché
rinvia ai limiti della cultura prevalente della società in un dato momento
storico. Così gli individui, di fronte ad una situazione di impotenza
e di ingiustizia subita, invece di cercare una
comprensione nella dinamica dei rapporti sociali che evolvono contro di loro,
imputano la loro sofferenza alla prevaricazione del
potere altrui: l’Euro, il capitale finanziario, gli evasori, i politici
corrotti, l’immigrazione e via elencando. Non che questi problemi non ci siano,
ma quando si parla di una crisi sociale che si porta avanti da qualche
decennio, essi sono soprattutto sintomi, ossia la febbre di un male profondo
che richiede una diagnosi più complessa.
La sconfitta del Labour alle ultime elezioni,
verificatasi in termini così netti nonostante la proposta di un programma
radicale di politiche di welfare in difesa delle fasce
più deboli della società, THE MANY come recita lo slogan, ci dice innanzitutto
che la crisi rappresenta una sfida culturale di più ampio respiro rispetto alle
soluzioni offerte da quel tipo di proposte.
La domanda da cui partire
La domanda principale dalla quale io partirei dopo
questo deludente risultato è: come mai, dopo nove anni di politiche liberiste e
di austerità, una maggioranza trasversale di elettori, inclusa una parte di
coloro che hanno subito maggiormente gli effetti di quelle politiche, hanno
confermato la loro fiducia nel governo dei conservatori?
Nel cercare una risposta, vorrei innanzitutto evitare
quell’approccio semplificatorio che vorrebbe individuare dei colpevoli nelle
ragioni di un tale esito: il cattivo trattamento dei media nei confronti del
Labour, le bugie dei Tories, ovvero la campagna denigratoria nei confronti di
Corbyn, o all’opposto la sua esaltazione come leader di sinistra radicale.
Non solo, ma giustificare il risultato delle elezioni
con l’ambiguità del Labour sulla scelta della Brexit a me sembra una ragione
debole e fuorviante. In fondo il voto sulla Brexit andrebbe a sua volta
spiegato. Come molte analisi del voto hanno confermato, dietro il
voto per la Brexit vi sarebbe una protesta contro le istituzioni
europee per riconquistare una maggiore sovranità nazionale. Perché allora non
ha convinto il programma di nazionalizzazioni e di spesa pubblica nazionale
proposto dal Labour?
Il tentativo di individuare colpevoli è certamente
un meccanismo di negazione. Ma
come ci insegna la psicanalisi, se questo meccanismo può aiutare a superare
momentaneamente una frustrazione, il rimosso può tornare a presentarsi più
tardi in forme ancora più distruttive.
Proviamo dunque ad affrontare il problema da una
diversa prospettiva. Perché non prendere in considerazione l’idea che la
narrazione dei Tories continui ad essere più attraente per la maggior parte
degli elettori, THE MANY? Perché non accettare che la maggioranza degli
esclusi, se è pur vero che chiede protezione, lo fa per ottenere più libertà
dallo Stato? Perché non partire dalla constatazione che coloro che soffrono di
un’ingiustizia sociale sono alla fine confusi, e spesso sanno poco o nulla del
cambiamento necessario per la società?
In altre parole, il Labour dovrebbe considerare
seriamente la possibilità che nella società si sia sedimentata sempre più
l’idea che la privatizzazione del Sistema Sanitario Nazionale (NHS) possa
essere una soluzione e non un problema. Una società dove i molti (THE MANY)
credono che solo le imprese creino lavoro, che sia il potere del denaro che
genera ricchezza, che la diseguaglianza sia un fatto naturale e l’egoismo
sociale sia il motore del progresso. Ovvero che è il mercato a premiare i pochi
(THE FEW), e quindi essi meritano il loro
privilegio.
La percezione del privilegio
La cosa che mi ha lasciato molto perplesso durante
questa campagna elettorale, è stata questa ossessione del Labour di dimostrare
la copertura finanziaria per
ogni proposta del proprio manifesto, applicando una sorta di pareggio di
bilancio al suo programma. Come se il denaro dovesse “regolare ogni passo della
vita” (J.M.Keynes) Questo è significativo di come lavora l’ideologia e di come,
spesso inconsapevolmente, si è intrappolati nelle stesse catene culturali degli
avversari.
Dunque il Labour dovrebbe cominciare a guardare la
crisi principalmente come ad una sfida culturale che
vada oltre l’intervento dello stato per redistribuire le risorse. Non si tratta
di conquistare una vittoria elettorale con qualche tacca in più ma di cambiare
la cultura di una società.
I sudditi pensano di essere sudditi perché il re è re,
ma è altrettanto vero che il re è re perché essi continuano a comportarsi come
sudditi.
Partire da questa debolezza dei molti (THE MANY),
aiuta a comprendere perché il potere ha gioco facile ad avvelenare i loro
pozzi, arruolando la grande maggioranza degli uomini alle proprie dipendenze e
lasciando senza eserciti coloro che vorrebbero un mondo migliore.
Un potere in fase di dissoluzione
Io penso che il potere del denaro, il
consumismo, continui a sedurre i molti (THE MANY), tanto quanto i pochi (THE
FEW). Come brillantemente spiega Marx: “Io sono brutto, ma posso comprarmi la
più bella tra le donne. E quindi io non sono brutto, perché l’effetto della
bruttezza, la sua forza repulsiva, è annullata dal denaro. Io, considerato come
individuo, sono storpio, ma il denaro mi procura ventiquattro gambe; quindi non
sono storpio. Io sono un uomo malvagio, disonesto, senza scrupoli, stupido; ma
il denaro è onorato, e quindi anche il suo possessore.”
Questo potere è in fase di dissoluzione. La
crisi, infatti, non è altro che il disgregarsi dei rapporti dati, della cultura
dominante, con l’emergere di una crescente difficoltà a continuare a svolgere
la vita umana sulla base di quel potere. I pochi, THE FEW, sentendosi appagati,
credono ingenuamente di poter continuare a praticare il loro privilegio
senza conseguenze.
La sconfitta del Labour è un’opportunità per
confrontarci con i molti, THE MANY, offrendo loro non soltanto un manifesto di
politiche di welfare, ma la speranza di un nuovo mondo nel quale la più grande
ricchezza di un essere umano non sia nel denaro, ma in un altro essere umano.
È una traversata nel deserto quella che abbiamo di
fronte.
Se non saremo capaci di confrontarci con la verità la
crisi non potrà essere superata e sarà inevitabile la rovina della società
intera.
Impariamo la lezione dalla
sconfitta e dimostriamoci all’altezza della sfida. Non
trasformiamo la sconfitta in oblio.
Le ragioni di una sconfitta - Nicola Melloni
I segnali di una sconfitta c’erano tutti, nonostante le illusioni dettate
dalle piazze piene e dalle lunghe file di giovani ai seggi. Ne avevo scritto qualche giorno fa, ben
prima delle elezioni: la narrazione principale di questa tornata elettorale era
stata la Brexit e su quello si sono decisi i risultati. Il Labour ha perso
terreno nel Nord storicamente di sinistra, il red wall non ha
retto (anche se non è crollato). Erano seggi dove aveva vinto il Leave al
Referendum, e hanno ribadito convinti il proprio voto: Don Valley, Labour dal
1922 ma dove i pro-Brexit avevano preso il 69%; Great Grimsby, Labour dal 1945
ma 72% di Leave; o la Blyth Valley dove il 25% dei bambini vive in
povertà. A Putney, nel Sud di Londra, invece, storico seggio conservatore, il
Labour ha facilmente prevalso con 10 punti di distacco. Sono diverse le zone di
Londra, Manchester e Liverpool dove i laburisti hanno oltre il 70%.
L’aritmetica è piuttosto semplice: il fronte Brexit si è compattato intorno ai
Conservatori (con l’aiuto decisivo del Brexit Party che ha eroso consensi ai
Laburisti nel Nord); quello Remain si è affidato principalmente, ma non
unicamente, al Labour.
Corbyn si è trovato in una situazione impossibile: sostenere un secondo
referendum è costato una quarantina di seggi al Nord. Non lo avesse fatto,
avrebbe dato il via libera ai Libdem come unico partito del Remain:
senza poi tenere in considerazione che quasi il 70% dell’elettorato laburista è
contrario alla Brexit. Avrebbe forse allora potuto sostenere con ancora più
convinzione l’opposizione all’uscita dall’Ue sperando di spazzar via i Libdem?
Poteva forse guadagnare qualche seggio trattenendo quei 4 punti andati ai
Libdem ma non era certo possibile azzerarne il consenso; al contrario di un
partito mono-scopo come il Brexit Party che può sparire da un giorno all’altro,
i LibDem rappresentano interessi economici e politici ben definiti e una
borghesia liberale spesso assolutamente indisponibile a votare Labour. Insomma,
qualsiasi scelta sarebbe stata perdente.
Corbyn ha provato a trasformare il «secondo referendum» sulla Brexit in una
elezione normale in cui si parlasse di un programma vastamente apprezzato e
metter fine a un drammatico decennio di governo Conservatore. Non c’è riuscito,
le carte le hanno date gli altri e il risultato è stato una sconfitta di
proporzioni storiche.
In molti si domandano come sia possibile che le zone più povere del Paese
abbiano votato per un partito che le ha affamate e per un leader che considera
la working class con disprezzo. Il punto, a mio parere, va
valutato storicamente.
Il populismo attuale non è altro che il frutto di una progressiva
de-istituzionalizzazione della politica iniziata con la stagione neo-liberista.
In questi decenni i partiti di cosiddetta sinistra hanno perso qualsiasi
capacità tanto rappresentativa che di mobilitazione. Il red wall dunque
esisteva più come concetto geografico che politico – un po’ come le regioni
rosse in Italia. Se è vero che Corbyn proponeva, infine, un programma che
parlava anche e soprattutto a quelle regioni, è però altrettanto vero che
questo non è bastato. Anzi, è stato proprio ignorato. Per gente e classi
sociali che sono state ignorate per decenni, veder messo in discussione un voto
inequivocabile come quello del referendum è stato uno schiaffo inaccettabile,
l’ennesima controprova di come Westminster sia un mondo a parte rispetto ai
bisogni del Nord. Johnson ha giocato proprio su questo: ha offerto il suo
corpaccione come scudo contro il Parlamento, «l’establishment» e in difesa del
voto popolare. Ha imposto la sua narrativa – d’altronde in Uk per tre anni si è
parlato solo di Brexit – e ha vinto. Come ovvio, la capacità di attrazione su
una fetta di società frustrata e che si sentiva defraudata del suo potere
decisionale è risultata molto più forte di quella nel fronte Remain (diviso
e non altrettanto agguerrito).
A questo, ed è giusto sottolinearlo, si è aggiunta una campagna senza
quartiere scatenata – quella sì dal vero establishment – contro Corbyn. Una
persona di specchiata onestà e rigore morale e politico è stato dipinto come un
anti-semita razzista, mentre il razzismo conclamato di Johnson è stato
completamente ignorato. La Bbc si è trasformata in una
succursale di Rete4, con violazioni della legge elettorale,
conduttori in veste di agit-prop e un coverage basato su
falsità e parzialità. Il che non spiega la sconfitta ma spiega la bassissima
popolarità di Corbyn a dispetto di un programma largamente apprezzato.
Da questo discendono inevitabilmente delle importanti lezioni per la
sinistra tutta. Da oggi, ovviamente, vorranno farvi credere che la sinistra
radicale sia un inutile rottame della storia destinato inevitabilmente alla
sconfitta. E che solo un programma che guarda al centro può fermare le destre.
È una sciocchezza opportunista.
I risultati britannici dicono tutt’altro: al crollo dei laburisti è
corrisposta una performance penosa dei liberaldemocratici, la cui leader non è
stata neppure eletta. Nonostante tutta la stampa moderata dipingesse Corbyn
come un novello Attila, i Libdem sono riusciti a intercettare solo una piccola
percentuale dei voti laburisti in uscita, Non c’è nessuna voglia di centro o di
ritorno al New Labour. I voti persi sono andati tanto a destra più che al
centro. E pensando che Boris Johnson è solo l’ennesimo estremista di destra
eletto, il messaggio forte e chiaro è che le partite non si giocano più al
centro, ma sulle estreme: l’elettore mediano potrà forse ancora essere un
«moderato» ma lo schiacciamento della distribuzione porta a maggioranze
radicali ed estreme, prendendo il voto degli sconfitti della globalizzazione
neo-liberale.
La seconda lezione, però, è che non bastano programmi e candidati radicali.
Come si è visto, il programma economico e sociale più di sinistra in trent’anni
non solo non è bastato ma ha perso le regioni più povere della Gran Bretagna.
Toccherebbe, forse, ritornare a Gramsci: è il lavoro quotidiano nella
società, la creazione di una coscienza di classe e di un blocco storico a
permettere la vittoria. L’agenda è strettamente controllata dalla destra, così
come i media. Ed è chiarissimo che il cosiddetto centro moderato preferisce la
destra peggiore a un’alternativa di sinistra (basti guardare un giornale come
il Corriere della sera rivalutare quel simpatico mattacchione
di Boris in funzione anti-socialista, il vero nemico). E la campagna
denigratoria – una sorta di «metodo Boffo» al cubo – che ha appena subito
Corbyn sarà replicata contro qualsiasi altro candidato.
Qualche speranza, incredibilmente, può venire dagli Stati uniti: la
campagna di Sanders ha seminato bene. Le ondate di scioperi di questi anni
hanno cominciato a costruire tanto una coscienza che una comunità politica di
riferimento. E la sinistra è riuscita in parte a imporre una propria
narrazione, dalla diseguaglianza alla critica di Wall street fino alla sanità
pubblica. In Uk il Labour non è riuscito a far nulla del genere: i sindacati
sono smobilitati da tre decenni; lo slogan principale della campagna elettorale
è stato la difesa della Nhs (il sistema sanitario nazionale) che, per quanto
sacrosanta, è alla fine una difesa dello status quo, obiettivamente
più debole della promessa di un grande cambio e del «take back control»
della Brexit.
Eppure l’esperienza di Corbyn ha lati innegabilmente positivi: Momentum con la sua struttura
organizzativa ha dimostrato un’inaspettata capacità di mobilitazione, in netta
controtendenza con la de-istituzionalizzazione della post-democracy e
lo stesso Corbyn ha riempito piazze, cercando di riannodare un filo con la
nuova base del partito: studenti, lavoratori delle grandi città, ceto medio
proletarizzato e incazzato. E in fondo, nonostante la batosta, il Labour
rimane, e di gran lunga, il partito di sinistra più votato in Occidente.
Insomma, come ha detto Aaron Bastani, un progetto di rinascita a sinistra è
un progetto trentennale, che non si può fermare a un’elezione persa. Per
vincere le elezioni bisogna mettersi in condizione di creare quel blocco
sociale, di imporre una narrazione diversa, di resistere a un sistema di potere
che non accetterà mai di giocare una partita regolare – hanno troppo da perdere
per permetterlo. Corbyn potrà aver perso, ma qualche cosa da insegnare ce l’ha
ancora.
Nessun commento:
Posta un commento