Votando per Boris Johnson, gli inglesi hanno definitivamente suggellato la
loro volontà di abbandonare l’Unione Europea. E il candidato vincente lo ha
confermato nel suo primo discorso post elettorale pronunciando la frase
destinata a rimanere nella storia: «Now
let’s get Brexit done, ora facciamo la Brexit». Ma i tempi sono incerti.
Di sicuro si sa che l’uscita ufficiale avverrà il 31 gennaio 2020 con un
trattato che transitoriamente mantiene tutto immutato in attesa che venga
firmato un successivo accordo che definisca le nuove regole su cui
si baseranno i futuri rapporti fra Gran Bretagna e Unione Europea.
Il cronoprogramma indica il 31 dicembre 2020 come data per la firma del
nuovo trattato, ma le trattative su temi così complessi si sa quando iniziano,
mai quando finiscono. Per cui attendiamoci pure tempi lunghi durante i quali
gli sherpa delle due parti saranno impegnati in un silenzioso e paziente
lavoro per raggiungere un accordo considerato soddisfacente sia al di là
che al di qua della Manica. Ma
l’Unione Europea commetterebbe un grave errore se si concentrasse solo
sull’attività diplomatica. Se contemporaneamente non avvia un
processo di riflessione su se stessa, la Brexit potrebbe rivelarsi
solo la prima crepa di un processo
di disgregazione molto più vasto che potrebbe avere come esito finale il
ridimensionamento se non la scomparsa dell’Unione Europea.
Lo diventa solo quando nuovi elementi di contesto rendono la situazione
così difficile, da fare avvertire gli immigrati non più come dei bisognosi da
accogliere o come nuove persone che possono contribuire al rafforzamento della
propria casa, ma come degli usurpatori che pretendono di trovare riparo sotto
un tetto ormai così mal messo da non riuscire a dare copertura neanche agli
abitanti originari. Allora scatta la xenofobia che però non è figlia del
cattivismo, ma dell’insicurezza. Dunque se vogliamo contrastare i nazionalismi
è dell’insicurezza che dobbiamo occuparci con due distinti compiti: uno a
carico del paese ospitante, l’altro a carico dei paesi con emorragia
migratoria. Che nel caso specifico chiamano in causa da una parte la Gran
Bretagna, dall’altra l’Unione Europea. Infatti il grosso dei migranti che
nell’ultimo decennio ha attraversato la Manica lo ha fatto con un passaporto
dell’Unione.
Nella maggior parte dei casi le analisi sulla Brexit si sono limitati alla
denuncia degli egoismi che stanno alla base di una tale scelta. Ciò che
invece non abbiamo fatto, o non lo abbiamo fatto abbastanza, è tentare di
capire perché gli egoismi si siano
rimessi in moto. Sappiamo che uno dei moventi della Brexit è
il sentimento di avversione verso l’ondata migratoria che ha
investito la Gran Bretagna nell’ultimo decennio. Ma un popolo abituato da oltre un secolo a convivere con un gran numero
di immigrati provenienti da ogni parte del mondo, non diventa xenofobo
all’improvviso.
La Gran Bretagna deve chiedersi come ha fatto a
rendere la propria situazione interna così fragile, sapendo che pur
appartenendo all’Unione Europea ha sempre conservato una buona dose di
autonomia in virtù della moneta propria. Londra sa che l’origine della sua
attuale fragilità va ricercata nella malagestione bancaria, non
solo quella di oltre Atlantico, ma anche di casa propria, considerato che
l’azzardo portò alla crisi di colossi bancari come Northern Rock, Royal
Bank of Scotland, lo stesso Lloyds. Secondo un rapporto della House of Commons,
dal 2007 al 2009 il governo britannico ha speso 107 miliardi di sterline per
nazionalizzare o ricapitalizzare le banche inglesi sull’orlo del precipizio. Ed
anche se buona parte di quei soldi oggi sono rientrati, l’operazione ha
comunque avuto effetti pesanti sulla spesa pubblica inglese. Basti dire
che lo stesso Boris Johnson ha inserito il potenziamento del servizio
sanitario nazionale fra i punti qualificanti del suo futuro governo.
Ma oltre ai tagli alla spesa pubblica vanno considerati gli effetti
sull’occupazione provocati dalla recessione globale. Via via che l’economia si
contraeva, migliaia di lavoratori britannici perdevano il lavoro mentre le
imprese smettevano di assumere. Alla fine del 2011 in Gran Bretagna quasi tre
milioni di persone erano in cerca di lavoro, l’8,3% della forza lavoro. Solo
nel 2015 la disoccupazione tornò al 4,3%, gli stessi livelli del 1995. Tutto
sommato la tempesta fu di breve durata ma lasciò segni profondi nel corpo del
popolo inglese che a fronte di tanta disoccupazione vedeva crescere
l’immigrazione dal resto d’Europa. Dal 2009 al 2017 la Gran Bretagna ha
registrato l’arrivo di 2,3 milioni di nuovi stranieri di cui 1,5 provenienti
dall’Unione Europea. Ed è a questo punto che la palla passa nel campo dell’UE, che deve chiedersi come ha fatto a
mettere in moto una emorragia migratoria tanto vasta. Bruxelles sa che la
risposta sta nelle politiche di gestione dei debiti sovrani.
Foto di Johannes Plenio da Pixabay
Fatta la scelta di non lasciare agli stati dell’eurozona altra possibilità
di finanziamento dei propri deficit se non rivolgendosi ai mercati, la priorità
dell’Unione è diventata quella di assicurarsi la fiducia degli investitori.
E siccome la fiducia si conquista
dimostrando di sapere essere debitori affidabili, gli stati dell’eurozona si
sono dati come obiettivo il rigore finanziario finalizzato al
servizio del debito. Le inevitabili conseguenze sono state
tagli all’istruzione, alle spese sociali, alla sanità, alle pensioni con
aggravamento della recessione in atto che al contrario avrebbe richiesto
politiche di rilancio pubblico. Così i paesi più deboli dell’eurozona hanno
visto crescere povertà e
disoccupazione, con inevitabile aumento dell’emigrazione che si è abbattuta sui
paesi a maggior resilienza, fra cui la Gran Bretagna. Ma a un certo
punto gli inglesi hanno manifestato crisi di rigetto e per dichiarare, una
volta per tutte, la propria indisponibilità a continuare a fare da
ammortizzatori delle politiche di Bruxelles e Francoforte, nel 2016
hanno optato per la Brexit.
Su latte versato è inutile piangere, ma ora l’Unione Europea deve decidere che fare: se continuare a
privilegiare i mercati col rischio di perdere altri popoli o se privilegiare i
cittadini ridimensionando i mercati. La scelta potrebbe sembrare
ideologica, in realtà è una questione di sopravvivenza. Se l’Europa vuole
avere futuro deve farsi amare dai cittadini e per farsi amare deve dimostrare
di lavorare per loro con strumenti adeguati. Primo fra tutti dotandosi di una moneta comune gestita secondo logiche di
servizio ai governi affinché possano perseguire la piena occupazione e la
promozione dei servizi pubblici senza impantanarsi in debiti impagabili
scaricati sui più deboli e sulle generazioni future. Keynes ce l’aveva
già insegnato quasi un secolo fa. Ma la sua visione era di un’economia al
servizio della persona.
Articolo pubblicato anche sul quotidiano l’Avvenire
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