«A futura memoria (se la memoria ha un futuro)» è il titolo del libro in cui, nel dicembre 1989, poco
dopo la sua scomparsa, sono stati pubblicati alcuni scritti di Leonardo
Sciascia, tra cui l’articolo del “Corriere della sera” del 10 gennaio 1987, con il titolo, redazionale, “I
professionisti dell’antimafia” [1].
In
quell’articolo Sciascia esordiva con una lunga citazione dal suo romanzo Il giorno della civetta, pubblicato nel 1961, in cui il protagonista, il capitano
Bellodi, ripensa l’esperienza del prefetto Mori, durante il periodo fascista,
disapprova la sua azione fondata sulla sospensione delle garanzie costituzionali
in Sicilia e indica un’altra strada: «bisognerebbe sorprendere la gente nel
covo dell’inadempienza fiscale, come in America… Bisognerebbe, di colpo,
piombare nelle banche: mettere mani esperte nella contabilità… delle grandi e
piccole aziende, revisionare i catasti… annusare intorno alle ville, le
automobili fuori serie… e confrontare questi segni di ricchezza agli stipendi e
tirarne il giusto senso\». E aggiungeva un’altra autocitazione, tratta dal
romanzo A ciascuno il suo, del
1966: «Ma il fatto è… che l’Italia è un così felice Paese che quando si
cominciano a combattere le mafie vernacole vuol dire che se ne è stabilita una
in lingua» [2].
Seguivano
dei riferimenti al libro La mafia durante il fascismo dello storico
Christopher Duggan, recentemente scomparso, e a una piéce teatrale, La Mafia, di Luigi Sturzo, il prete fondatore del Partito popolare, di cui si
sono trovati solo gli abbozzi del quinto atto, che davano un’immagine
inquietante della realtà della mafia [3]. Il riferimento centrale nel corpo dell’articolo era il
libro di Duggan, considerato «un’accurata indagine e sensata analisi» su mafia
e fascismo. In effetti il testo di Duggan era basato su una ricerca
archivistica abbastanza attenta, ma arrivava a una conclusione inaccettabile:
che il fascismo avesse inventato la mafia. Certamente il fascismo ha utilizzato la lotta
alla mafia per risolvere i suoi conflitti interni, ma la mafia c’era, non era
un’invenzione. Il prefetto Mori ha potuto agire solo fino a un certo punto; il
tentativo di andare oltre quel punto, colpendo politici e grandi agrari collusi
con la mafia, è stato arrestato con il suo precoce pensionamento. Sciascia
utilizza il libro dello storico inglese per trarne un’indicazione: «l’antimafia
come strumento di potere». E avverte che quello che è accaduto con il fascismo
può «accadere anche in un sistema democratico, retorica aiutando e spirito
critico mancando».
Per
avallare questo assunto venivano fatti degli esempi: un sindaco, innominato, ma
il riferimento era a Leoluca Orlando, che «per sentimento o per calcolo cominci
ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e
cortei – come antimafioso, anche se dedicherà tutto il suo tempo a queste
esibizioni e non ne troverà mai per occuparsi dei problemi del paese o della
città che amministra». L’altro esempio aveva nomi e cognome: il magistrato
Paolo Emanuele Borsellino che, per avere svolto indagini sulla mafia, aveva
scavalcato un magistrato più anziano ed era stato nominato procuratore a
Marsala. La conclusione di Sciascia era tranchant: «i lettori
prendano atto che nulla vale più in Sicilia, per far carriera nella
magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso». Era evidente che
tutta l’analisi precedente, volta al passato, era solo una preparazione per
questa sciabolata rivolta al presente.
Le reazioni al’articolo di
Sciascia, Il Coordinamento antimafia
Le reazioni all’articolo di
Sciascia, pubblicato con un titolo redazionale che appesantiva ancora di più il
contenuto, furono furenti. Fra gli altri ci fu un comunicato dell’associazione
Coordinamento antimafia che, utilizzando la classificazione antropologica del
capomafia don Mariano, coprotagonista del romanzo Il giorno della civetta, che distingueva uomini, mezz’uomini, ominicchi,
pigliainculo e quaquaracquà, definiva Sciascia un quaquaracquà, cioè una
nullità, e lo relegava «ai margini della società civile» [4].
Il
Coordinamento antimafia era nato nel 1984 su proposta del Centro Impastato.
Dopo una fase abbastanza travagliata di convivenza, in cui aveva tentato di
collegare il variegato mondo dell’antimafia cittadina (aderirono 38
organizzazioni, tra associazioni, centri, comitati, sezioni di partito, frange
di sindacato, ma alcune organizzazioni esistevano solo sulla carta) nel 1986 si
era formata una singola associazione che aveva mantenuto quella denominazione
ma in realtà coordinava solo se stessa e si configurerà sempre più come
tifoseria del sindaco. Con l’aiuto di stampa e televisione si poneva come
l’unico verbo antimafia. Agiva insieme come claque e come ordalia, ignorando
tutto ciò che si muoveva al di fuori di essa e non era pronto a intrupparsi
nelle sue file.
Il comunicato del Coordinamento
suscitava la reazione di Sciascia che, si può dire, non aspettava altro per
infierire. Definiva il Coordinamento «frangia fanatica e stupida di quel
costituendo o costituito potere… un potere fondato sulla lotta alla mafia che
non consente dubbio, dissenso, critica. Ne sono soddisfatto: si sono consegnati
all’opinione di chi sa di avere un’opinione, nella loro vera immagine». A dire
di Sciascia esso coordinava «interessi politici e stupidità» [5]. E il «Giornale di Sicilia», che plaudiva all’articolo di
Sciascia, pensò bene di pubblicare i nomi dei componenti del Coordinamento,
qualcosa che somigliava a una schedatura e a una gogna.
Tenendo
conto dell’esperienza personale, il mio giudizio sul Coordinamento è ancora più
duro di quello di Sciascia: bisogna mettere nel conto anche una sequela di
scorrettezze; si potrebbe dire: la scorrettezza come regola, come modello
relazionale e modo di essere. Qualche esempio: comunicati approvati e non dati
alla stampa, poiché c’era una supervisione, occulta ma evidente, dei dirigenti
del Pci e delle Acli, allora affiancati nella lotta contro l’installazione dei
missili nucleari a Comiso; il peso esercitato dalle appartenenze a partiti e
organizzazioni nazionali, al limite dell’arroganza e della presunzione; la
superficialità e la mancanza d’interesse di tanti, che pure godevano di credito
e di pubblicità. Ma un conto è il giudizio politico un altro la gogna.
Alla testa del Coordinamento e
suoi ispiratori erano personaggi che, a dimostrazione della tempra della loro
fede e della loro coerenza, dopo sono passati nel centrodestra, in piena bufera
di berlusconismo, come dire il picco dell’immoralità pubblica nella storia
dell’Italia repubblicana. Sbocco non nuovo di trasversalismi teorizzati e
praticati e di “estremismi” fasulli. Per esempio, il gesuita Ennio Pintacuda,
punto di riferimento per l’antimafia più pubblicizzata e grande sostenitore di
Orlando, fino allo scontro con il confratello Bartolomeo Sorge e l’abbandono
della Compagnia di Gesù, si è riposizionato nell’area filoberlusconiana,
avendone in cambio la direzione del Cerisdi, un centro studi che per molto tempo
ha goduto di lauti finanziamenti pubblici e mirava a formare la classe
dirigente della città [6]. Altri, tra cui gli estensori del comunicato antisciascia
e allora in prima linea nel Coordinamento, sono letteralmente scomparsi.
Un buco nell’acqua: il
comunicato del Centro Impastato
Nel tentativo di riportare la
polemica a un confronto civile, mettendo al centro i problemi e lasciando da
parte offese e insulti, come presidente del Centro Impastato scrivevo un
comunicato pubblicato dal giornale “L’Ora”. Ecco il testo:
«Abbiamo preferito non prendere
la parola nel corso delle recenti polemiche perché il tono di esse ci è
sembrato il meno adatto per una riflessione seria su alcuni problemi
particolarmente gravi, che rischiano di aggravarsi ulteriormente. Ci limitiamo
adesso ad alcune considerazioni molto sommarie su qualcuno di essi.
1) Valutazione dell’operato del
sindaco Orlando e della giunta pentapartito. Il sindaco Orlando ha compiuto
alcuni gesti (quali, per esempio, la costituzione di parte civile del Comune al
maxiprocesso, le dichiarazioni fatte nel corso di esso, il tentativo di portare
un minimo di trasparenza nella procedura di aggiudicazione degli appalti di
opere pubbliche) che non possono non essere apprezzati, ma tutti i problemi di
Palermo (la disoccupazione, il risanamento del centro storico, il funzionamento
delle aziende municipalizzate etc. etc.) restano irrisolti per ragioni che non
è difficile individuare: la Democrazia Cristiana rimane legata ai peggiori
interessi, sotto la tutela di uomini come Lima, e il pentapartito è un pantano
che non consente nessuna politica rinnovatrice. Ci sembra arrivato il momento
di fare un bilancio di questa amministrazione comunale e di vedere se è
possibile sbloccare una situazione di immobilismo, avvelenata da polemiche
personalistiche.
2) Conformismo e
anticonformismo. In una città in cui straripa l’assuefazione alla violenza, la
stragrande maggioranza degli abitanti non si scuote neppure per l’assassinio di
un bambino, si svolgono manifestazioni in cui s’inneggia alla mafia, dominano
il conformismo filomafioso e l’indifferenza, parlare di «conformismo
antimafioso» ci sembra un po’ troppo.
3) Antimafia: seria o da
vetrina. È vero, c’è un’antimafia “da vetrina”, come qualcuno l’ha definita, ma
vogliamo fare qualche esempio? Ci sembrano «antimafia da vetrina»: l’azione,
abbastanza incolore, dei vari Alti Commissari contro la mafia; l’altrettanto
incolore operato delle Commissioni antimafia, nazionale e regionale; le
prediche con il morto davanti; le scoperte di grandi e piccoli inviati che
hanno dovuto attendere l’uccisione di Dalla Chiesa per parlare di mafia come
«questione nazionale» e lo hanno dimenticato il giorno dopo; i fumetti
televisivi e cinematografici e le pubblicazioni di mafiologi improvvisati
regolarmente prefate da firme “prestigiose”; buona parte delle attività svolte
nelle scuole per utilizzare in qualche modo i finanziamenti regionali; i centri
inesistenti che hanno finanziamenti pubblici per centinaia di milioni; le sigle
fabbricate sulle ceneri di ipotesi più consistenti che si è fatto di tutto per
non far maturare. Si collocano su un altro versante i pochissimi magistrati
che, rischiando la vita, hanno svolto le inchieste più impegnative contro la
mafia.
4) Problema della “giustizia
giusta”. È il problema più grosso, e non è di facile soluzione. La mafia e la
criminalità organizzata non sono una novità, ma le dimensioni e la complessità
attuali lo sono, e gli attuali ordinamenti giuridici sono inadeguati per
fronteggiare fenomeni che non sono una emergenza” ma un dato strutturale.
Ci chiediamo: ci può essere
“giustizia giusta” con gli assassinii regolarmente impuniti? Si ritiene che,
passata l’onda alta delle uccisioni, tutto si risolva con l’«uscita
dall’emergenza» e il ristabilimento delle regole del «garantismo classico»? Non
occorre piuttosto elaborare una riforma del processo penale e della normativa
vigente che tenga conto di questi fatti nuovi? Come intervenire sui canali di
accumulazione illegale? Come troncare il meccanismo di simbiosi tra capitale
illegale e legale garantito dal segreto bancario? Non si tratta di decretare
“stati d’assedio”, o di avallare “teoremi Buscetta”, ma di trovare soluzioni
adeguate a problemi che non possono essere minimizzati o considerati con
ottiche tradizionali.
Per affrontare seriamente
questi temi non ci pare che siano utili le polemiche, soprattutto quando si
risolvono in ingiurie e scomuniche. Occorrono: coraggio, studio, serenità[7]».
Il comunicato cadeva nel vuoto.
Commentavo: «Non è il momento adatto per discutere seriamente e serenamente.
Bisogna schierarsi, come se si fosse nel pieno di un combattimento senza
esclusione di colpi» [8].
La promozione di Borsellino e
la bocciatura di Falcone
Successivamente alla
pubblicazione dell’articolo, c’è stato un incontro tra Sciascia e Borsellino,
in cui ci sarebbe stato un “chiarimento”. Sciascia ha ammesso di essere stato
“mal consigliato” e non si può non osservare che uno come lui, maître-à-penser
già da anni, non poteva non essere consapevole degli effetti che le sue parole
avrebbero avuto. Avrebbe potuto e dovuto far attenzione a chi lo consigliava e
a cosa consigliava.
Se la ferita sembrava
rimarginata, e i rapporti fra Sciascia e Borsellino erano diventati quasi
amichevoli e cordiali, in realtà nel profondo essa rimaneva aperta e
sanguinante. Dopo la strage di Capaci, in cui morirono Giovanni Falcone, la
moglie Francesca Morvillo, gli agenti di scorta Rocco Dicillo, Antonio
Montinaro e Vito Schifani, in un incontro pubblico Borsellino, già consapevole
di un destino che si avvicinava, in un accorato intervento, in cui ricostruiva le
difficoltà e le inimicizie che avevano segnato la vita e l’attività di Falcone,
diceva: «Tutto cominciò con quell’articolo sui professionisti dell’antimafia» [9].
Falcone
era stato ostacolato più volte e in vari modi: bocciata la sua candidatura a
Consigliere istruttore, al posto di Rocco Chinnici, fondatore del pool
antimafia, assassinato il 29 luglio 1983; bocciata la sua candidatura al
Consiglio superiore della magistratura. Si potrebbe dire che, dopo la mafia, i
principali nemici di Falcone siano stati i suoi colleghi. Per invidia, per il
peso della sua personalità, non ostentato ma effettivo, per la sua visibilità.
Si è detto e scritto che la
bocciatura della candidatura di Falcone a capo del’Ufficio istruzione, allora
strategico nella attività giudiziaria antimafia e successivamente abolito, sia
stata il frutto dell’applicazione del criterio dell’anzianità, che portò a
favorire un magistrato come Antonino Meli, che mai si era occupato di mafia e
che smantellerà il pool antimafia, portando indietro di anni l’attività
giudiziaria contro la mafia. E siccome il rispetto del criterio fondato
sull’anzianità era proprio quello che voleva Sciascia, la colpa sarebbe sua. Accusa
che gli si è rivolta in passato ed è ritornata nel giorni scorsi, in occasione
del trentennale dell’articolo sul “Corriere”.
Sciascia aveva già risposto a
quell’accusa. In un articolo sulla “Stampa” del 6 agosto 1988, scriveva: nel promuovere Borsellino il CSM si era
«sottratto alla regola vigente senza però stabilirne un’altra. Se l’avesse in
quel momento stabilita, il caso del dottor Falcone, con tutto quel che oggi
importa, non ci sarebbe stato. Adottando un criterio per promuovere Borsellino
e tornando invece alla vecchia regola per non promuovere Falcone, ecco il nodo
che presto o tardi sarebbe venuto al pettine. La situazione di oggi, insomma,
non l’ho inventata io con quel mio articolo sul ‘Corriere’: c’era, e non poteva che esplodere. Io non ho fatto che
avvertirla, e tempestivamente» [10]. Non si può non dargli ragione.
Trent’anni dopo
Perché a trent’anni
dall’articolo di Sciascia quelle parole vengono ricordate e riesplodono le
polemiche? Tornano a confrontarsi, senza dialogare, due schieramenti. C’è chi
considera Sciascia un maestro di pensiero e di vita, un profeta, e invita al
pentimento, all’autocritica; chi sta dall’altro lato allora e ancor’oggi lo
considera un bastian contrario che ha fatto danni all’antimafia, provocando
l’isolamento dei magistrati più impegnati ed esponendoli alle critiche e
all’avversione di coloro che hanno usato le sue parole per condannare e
autoassolversi. Possiamo definirli i “professionisti della mafia”, a cominciare
dai politici, dagli imprenditori, più o meno collusi, che, facendosi scudo del
prestigio dello scrittore, passavano dal silenzio e dalla difensiva al
contrattacco, nel momento in cui erano in difficoltà e il maxiprocesso veniva
percepito come un inizio e più d’uno pensava che prima o poi sarebbe toccato a
lui. Da ciò nascerà, dopo il successo del maxiprocesso in tutti i tre gradi di
giudizio, lo smantellamento del pool antimafia. Ma questo non c’entra con il
parere di Sciascia. Però la sua polemica, sbagliata nel tono, nella scelta
degli esempi e del tempo, si prestava a quel tipo di uso strumentale.
I problemi che lo scrittore
poneva erano reali: il pericolo della strumentalizzazione dell’antimafia, il
rispetto delle regole, la democrazia come unica strada per lottare la mafia,
poiché ha «tra le mani lo strumento che la tirannia non ha: il diritto, la
legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia» [11]. Il tema di fondo del discorso di Sciascia era il sistema
di garanzie, cioè il garantismo. Ne aveva un’idea che sapeva di religioso, come
se si trattasse di una sorta di depositum fidei. Partendo da alcuni esempi concreti, aveva intravisto una sua
violazione, che si era ritenuto in dovere di denunciare come un vulnus
all’ordinamento democratico, ma per molti anni il culto del garantismo più che
la certezza del diritto aveva assicurato la certezza dell’impunità.
Sciascia
ha per molti anni esercitato una sorta di magistero civile: come abbiamo visto,
aveva indicato, nei primi anni ’60, le banche come il terreno su cui sondare
l’accumulazione mafiosa; precedendo di quasi trent’anni il mio saggio «La mafia finanziaria» scritto
e pubblicato quando imperversava lo stereotipo della mafia imprenditrice, per
giunta disorganizzata [12]. Il maestro di Racalmuto, dopo aver raccontato la
provincia siciliana [13], ha percorso una linea narrativa che mischiava i generi
letterari, con ampio spazio per la trattazione saggistica, l’analisi
sociologica e il compte philosophique. Il costante ancoraggio alla tradizione illuministica più che un
vezzo letterario era un modello di scrittura e un metodo di indagine. I suoi
apologhi su una società mafiosizzata nei suoi centri di potere, nei suoi codici
culturali, nella sua pratica quotidiana, costituiscono una variazione sul tema
del potere e delle sue implicazioni criminali, e questo è un patrimonio ormai
consegnato alla storia della letteratura e alla cultura, non solo italiana.
Trent’anni dopo possiamo chiederci se le sue parole sono state una
profezia. Certo, con quel che è accaduto negli ultimi anni, siamo portati a
pensarlo. Un breve elenco: imprenditori che si mostravano in prima fila nella
lotta alla mafia incriminati per i loro rapporti con Cosa nostra; uno di essi,
che passava per promotore del movimento antiracket, colto in flagrante mentre
intascava una mazzetta; un telegiornalista, insignito di award internazionali,
che ha fatto passare una faccenda di corna per aggressione mafiosa; una
magistrata, dirigente dell’ufficio che gestisce i beni confiscati, che ne aveva
fatto un’azienda privata, assegnandoli ai suoi amici e ricevendone favori, in
un classico do ut des; una prefetta che le
teneva bordone. Con questo campionario di “buoni esempi” si deve riconoscere
che la realtà ha superato le rappresentazioni dello scrittore, ma potremmo dire
che non ci troviamo di fronte a «professionisti dell’antimafia» (i
professionisti, cioè persone capaci e competenti, ci vogliono, per l’antimafia
come per qualsiasi altro tema, arduo e complesso, quelli che fanno danno sono i
dilettanti e i cialtroni) ma a dei cattivi attori che hanno recitato la
commedia dell’antimafia. La cosa grave, e che ci induce a una impietosa
riflessione, è che tanti ci hanno creduto.
Ma quel che ci interessa oggi è
lo “stato dell’arte” dell’antimafia. Cos’è accaduto dopo le polemiche del 1987,
a parte gli episodi già richiamati? Sono sorti comitati, centri, associazioni e
fondazioni, quasi tutti vanno avanti con finanziamenti ottenuti con metodi
personalistici e clientelari. La proposta del Centro Impastato che la Regione
Sicilia si doti di una legge che fissi criteri oggettivi per l’erogazione dei
fondi pubblici è stata isolata, come se fosse una stranezza, la trovata
eccentrica di chi non conosce le regole del gioco. In realtà, le conosce ma non
le accetta.
Nel 1995 è nata Libera.
Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, sulla base di associazioni
nazionali come le Acli, l’Arci, la Sinistra giovanile del Pds, legate
direttamente o indirettamente ai partiti, e il primo, consistente, nucleo di
adesioni si è costituito con l’elenco dalle loro sezioni locali, a prescindere
se fossero o meno impegnate in attività antimafia. I referenti regionali sono
stati nominati sulla base della loro appartenenze a queste associazioni. In
Sicilia è toccato a una rappresentante dell’Arci, che mai si era vista in
iniziative antimafia.. Successivamente la referente si è candidata con Forza
Italia ed è stata “dimissionata”. Dimissionati due vicepresidenti e i
responsabili per il lavoro nelle scuole e per i beni confiscati, senza nessuna
discussione. Chi scrive è stato sospeso, e si è dimesso, dopo aver posto
problemi di democrazia interna, dovuti al leaderismo carismatico del fondatore,
il sacerdote Luigi Ciotti. Recentemente è stato “licenziato” con un messaggino
il figlio di Pio La Torre, protagonista delle lotte contadine, dirigente
comunista e parlamentare nazionale, ucciso il 30 aprile del 1982.
Le attività continuative sono
quelle nelle scuole, del movimento antiracket, per l’uso sociale dei beni
confiscati. Nelle scuole l’educazione alla legalità si riduce troppo spesso a
prediche senza analisi, al richiamo al rispetto delle leggi, ignorando che
ancora più grave dell’illegalità mafiosa è quella delle istituzioni, che hanno
troppi scheletri negli armadi e nessuna volontà di aprirli. Le associazioni
antiracket, con esempi significativi, si limitano alle regioni meridionali,
nonostante che le estorsioni siano ormai presenti sul territorio nazionale;
l’uso sociale dei beni confiscati si limita a una decina di cooperative in
tutta l’Italia.
Sul terreno della giustizia
accanto a magistrati seriamente impegnati ci sono altri in vetrina o in giro
con un personaggio come il direttore della rivista “Antimafia duemila”, che dice di avere ricevuto dalla Madonna di Fatima la mission di lottare la
mafia, anticristo del nostro tempo, di avere le stimmate e di essere il
maggiore esperto di Ufo! Qualche altro magistrato, smessa temporaneamente o
definitivamente la toga, fa da foglia di fico a potenti in cerca di credenziali
o si candida come salvatore della patria, andando incontro a patetici
insuccessi. Sulla stampa e alla televisione qualcuno si atteggia a monopolista
del pensiero unico antimafioso.
Il processo in corso sulla
“trattativa” Stato-mafia rischia di delegare al potere giudiziario problemi,
come il rapporto tra mafia, politica e istituzioni, che dovrebbero essere
affrontati e risolti dall’intera società. Viviamo una crisi della democrazia,
all’interno di una crisi più generale frutto del dominio del capitalismo
finanziario e della dittatura del mercato globalizzato, che aggravano squilibri
territoriali e divari sociali. In Italia, dopo vent’anni di Berlusconi, andato
al potere con milioni di voti, sembrava che ci si potesse rialzare, con uno scatto
di dignità. Ma i giovani “rottamatori” hanno fatto, o tentato di fare, quello
che non è riuscito al patriarca di Arcore, abolendo l’articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori, che tutela i licenziati senza giusta causa, e progettando una
riforma costituzionale impresentabile. Per fortuna il 4 dicembre c’è stato il
referendum, ma non possiamo campare solo di referendum. Bisogna ripensare e
ricostruire i fondamenti del vivere quotidiano. Su questa strada la lezione di
Sciascia (considerato per tutta la sua opera, e non per un singolo episodio,
che può essere criticabile) con i suoi meriti e le sue contraddizioni può
essere un buon bagaglio di viaggio e le sue pagine, lette con attenzione e non
con devozione, ci servono ancora per capire in che mondo viviamo, anche se la
realtà è andata al di là delle sue più pessimistiche previsioni.
[1] L.
Sciascia, A futura memoria (se la memoria ha un futuro), Bompiani, Milano 1989. Le citazioni successive sono
tratte da questo libro.
[2] L.
Sciascia, Il giorno della civetta, Einaudi, Torino 1961; A ciascuno il suo, Einaudi, Torino 1966.
[3] C.
Duggan, La mafia durante il fascismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 1986; L. Sturzo, La Mafia, in Scritti inediti 1890-1924, Cinque Lune, Roma 1974.
[4] Cfr. U.
Santino, Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all’impegno
civile, Editori Runiti
University Press, Roma 2009, terza edizione, pp. 325 ss. Anche per le
successive considerazioni si rimanda a questo testo.
[5] L.
Sciascia, A futura memoria, cit., pp. 131 ss.
[6] U:
Santino, Storia del movimento antimafia, cit., p. 395.
[7] “L’Ora”,
3 febbraio 1987, Troppa antimafia? ma dai; il comunicato è pubblicato in appendice al mio L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ali giorni nostri, Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, pp.269 s.
[8] U.
Santino, L’alleanza e il compromesso, cit., p. 77.
[9] L’incontro,
organizzato dalla rivista “Micromega”, si svolse il 25 giugno 1992, presso la
Biblioteca comunale di Palermo.
[10] In
L.Sciascia, A futura memoria, cit., p. 153.
[11] Ibidem, p. 139.
[12] U.
Santino, La mafia finanziaria. Accumulazione illegale e complesso finanziario-industrale, in “Segno” nn. 69-70, aprile maggio 1986, pp. 7-49,
trad. inglese: The financial mafia. The illegal accumulation of wealth and the
financial-industrial complex, in “Contemporary Crises”, vol. 12, n. 3, September 1988, pp.203-243,
e in www.centroimpastato.com; P. Arlacchi La mafia imprenditrice. L’etica mafiosa e lo spirito del
capitalismo, il Mulino,
Bologna 1983, a cui è ispirata la legge antimafia del 1982, che non considerava
la dimensione finanziaria che già allora si affermava a grandi passi.
[13] L. Sciascia, Le
parrocchie di Regalpetra, Laterza, Bari 1956.
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