(di Suzi Weissman)
L’«estremo centro» che ha governato
negli ultimi trent'anni è in crisi ma è attaccato soprattutto da destra. In
questa campagna elettorale però il Labour di Corbyn sta mostrando che può
esistere un'alternativa di sinistra. Intervista a Tariq Ali
Le elezioni politiche in Gran Bretagna sono state convocate il 6 novembre e
i britannici voteranno il 12 dicembre. Il vantaggio di un calendario così
intenso, se non altro, è che i cittadini non dovranno aspettare le
interminabili durate delle campagne elettorali americane. Mentre conservatori,
Brexit party e liberaldemocratici stanno puntando tutto sulla Brexit, il
partito laburista di Jeremy Corbyn ha scelto di mettere al centro la lotta alla
cappa di austerità che attanaglia il paese da decenni.
Boris Johnson ha inaugurato la sua campagna sulle colonne del giornale
conservatore Daily Telegraph paragonando Corbyn a Stalin: «La
tragedia del partito laburista di Jeremy Corbyn è che disprezzano il motore del
profitto in modo viscerale. […] Questo gusto della vendetta contro alcune
categorie di persone non si vedeva dai tempi dei gulag di
Stalin».
Dal canto suo, Corbyn ha iniziato parlando con passione della necessità di
investire 400 miliardi di sterline per contrastare le crisi gemelle
dell’emergenza climatica e dell’impoverimento sociale. Per discutere di questi
giorni di campagna elettorale in Gran Bretagna e della dinamica della risposta
della sinistra alla politica dell’«estremo centro», Suzi Weissman di Jacobin
Radio ha intervistato Tariq Ali.
Puoi darci un’idea del programma di Corbyn? Quali sono i temi su cui si
concentra, cosa intende realizzare e che tipo di elettorato vuole conquistare?
Il programma Corbyn è molto semplicemente una rottura totale con il
capitalismo neoliberista e il ritorno a una socialdemocrazia, in realtà,
abbastanza tradizionale. Nel mondo in cui viviamo oggi quello che propone
Corbyn suona come ultraradicale, anche se solo trenta o quarant’anni fa era la
norma. Il programma propone ingenti investimenti pubblici in infrastrutture e
alloggi popolari e la cancellazione delle tasse universitarie. Quello che sta
succedendo nelle università britanniche, infatti, è spaventoso: molti non riescono
più ad andarci perché non possono permettersi le rette. Per inciso, la
responsabilità di questo fenomeno non è del Partito conservatore, ma del
governo di Tony Blair e del suo cancelliere Gordon Brown, entrambi laburisti di
destra. Corbyn ha detto che abolirà le tasse e l’istruzione superiore tornerà a
essere gratuita.Il programma laburista parla di più fondi in generale per tutto
il sistema educativo. Si parla di far pagare le tasse alle scuole private,
attualmente considerate come enti di beneficenza e quindi non soggette a
imposte. È un programma che promette sconvolgimenti, insomma. Il Labour vuole
anche aumentare i fondi del servizio sanitario nazionale, dove anche qui è
stato Blair a iniziare il processo di privatizzazione, poi proseguito e allargato
dai conservatori. Sull’altro fronte, Boris Johnson si vanta di aver stretto un
accordo economico con Trump e gli Stati Uniti. E proprio Trump, durante la sua
ultima visita nel Regno Unito, ha detto pubblicamente che la Gran Bretagna deve
rimuovere ogni regolamentazione sul servizio sanitario nazionale, altrimenti
niente accordo. Insomma di fatto il Labour propone con enfasi rinnovata quello
che è semplicemente un ritorno allo stato sociale e al servizio sanitario
pubblico di un tempo. In un suo ultimo intervento però Corbyn ha anche parlato
di istituire una società farmaceutica statale per ridurre il costo dei farmaci
e aiutare il servizio sanitario a eliminare i costi di prescrizione.
Quindi un’azienda statale di farmaci generici?
Sì, un’azienda di Stato per produrre medicinali a basso costo. L’obiettivo
della creazione di una società farmaceutica pubblica è produrre farmaci
generici e contrastare il predominio delle cosiddette Big Pharma nel
settore sanitario. Attualmente alcuni farmaci sono così costosi che il servizio
sanitario non può neanche permetterseli. Penso che si tratti di un’innovazione
molto radicale, che i fondatori del servizio sanitario nazionale britannico,
Clement Attlee e Nye Bevan, non avevano visto all’epoca. E sarà una mossa estremamente
popolare.
Ora, tutto ciò è di vitale importanza, ma la cosa che davvero spaventa i
governanti di questo paese è che Corbyn ha detto molto chiaramente che non
premerà mai il grilletto nucleare da solo. Per questo lo stanno attaccando.
Avrebbe dovuto precisare che, in realtà, nessun governo britannico può mai
lanciare una bomba nucleare autonomamente, che si tratta di una decisione presa
dagli Stati Uniti e che, comunque, la Gran Bretagna non ha armi nucleari
indipendenti di cui parlare. I sottomarini che trasportano i missili non
possono essere usati senza l’autorizzazione preventiva degli Stati Uniti: è un
dato di fatto. Questa idea del ritorno all’indipendenza nucleare della Gran
Bretagna è una gran bufala: non cambierà niente, anzi in caso di Brexit la
situazione probabilmente peggiorerà.
Nel tuo libro del 2015 intitolato The Extreme
Centre hai dato una descrizione delle forze
neoliberali in quel momento egemoni. Adesso, quel centro apparentemente stabile
e forte è sotto attacco quasi ovunque nel mondo. Joseph Stiglitz, economista
premio Nobel, ha recentemente scritto in un articolo che il mantra del
neoliberismo per cui la privatizzazione produce una qualità della vita più
elevata si è dimostrato falso. Prova ne è il fatto che in quarant’anni il
neoliberismo non ha realizzato niente di quello che aveva promesso. L’unica
cosa che ha creato è una redistribuzione verso l’alto della ricchezza e la
crescita della disuguaglianza. Ora, chi finora ha tratto vantaggio
politico da questa situazione è la destra autoritaria populista. Tuttavia di
recente è nata una sinistra popolare, quella di Bernie Sanders negli Stati
Uniti e di Jeremy Corbyn appunto, che sembra in grado di contrastarla. Come
vedi queste dinamiche nel Regno Unito?
Bisogna fare due osservazioni preliminari. L’attacco all’«estremo centro»
arriva sempre sia da sinistra che da destra. Dietro Corbyn c’è la rivolta dei
giovani laburisti che hanno preso in mano il partito e l’hanno trasformato in
quello che è oggi. Per fare un esempio dei cambiamenti che hanno introdotto:
c’è una circoscrizione alla periferia di Londra chiamata Chingford, che ha
sempre votato molto a destra. Era il seggio di Norman Tebbit, stretto
collaboratore di Margaret Thatcher, e adesso è il feudo Iain Duncan Smith,
un tory di estrema destra che ha idee spaventose in materia di
assistenza sociale e così via. Alle ultime elezioni i laburisti sono stati a un
soffio da strappare Chingford alla destra. E nella campagna elettorale attuale
provano a vincere mettendo in prima linea una candidata giovane di origine
bengalese, Faiza Shaheen. Il primo fine settimana di campagna elettorale, i
militanti laburisti sono andati in cinquecento a bussare a tutte le porte della
circoscrizione.
I laburisti hanno una squadra di attivisti ben organizzata e ben formata,
composta in gran parte da giovani, che puntano ai seggi marginali. Al contrario,
i Tories, dove l’età media dei militanti supera i sessant’anni, non hanno quasi
nessun giovane e si sono dovuti affidare a un’azienda privata di pubbliche
relazioni. Hanno privatizzato le elezioni. Troveremo in giro Pr addestrati come
automi a diffamare Corbyn e attaccare il Partito laburista. Contro questi
idioti esternalizzati basterà dire cose sensate, perché loro non sapranno
rispondere. Se Corbyn sta scalando i sondaggi, già dalla prima settimana della
campagna elettorale, è proprio in virtù di questa differenza strutturale tra i
due partiti principali contendenti.
Per tornare al tuo punto, comunque, al di là di Corbyn e Sanders, è vero
che finora gli attacchi più forti al centro sono arrivati da destra:
Salvini in Italia, Le Pen in Francia, l’AfD in Germania. È un dato inquietante
e non si può dire che questo sviluppo sia stato provocato dalla sinistra: è una
conseguenza delle politiche dell’«estremo centro». Quindi non ci sono solo
buone notizie, ma sicuramente c’è la conferma dell’idea di Stiglitz che il
neoliberismo ha fallito e gli ultimi quarant’anni sono stati un disastro sotto
molti punti di vista. Cosa peraltro che tanti di noi sostenevano fin
dall’inizio. Abbiamo visto come è fallito il progetto di Michelle Bachelet in
Cile, che è forse l’archetipo del politico di «estremo centro». In due mandati
non è riuscita a modificare minimamente l’infrastruttura sociale e politica
ereditata dalla dittatura di Pinochet, che oltre a essere un fascista era anche
un convinto sostenitore del neoliberismo e ha trasformato il Cile in una cavia.
Nelle piazze cilene si vedono alcuni striscioni incredibili, in effetti. Su
uno c’era scritto «il neoliberismo è iniziato qui e finisce qui».
Sì, è fantastico. Anche a Beirut lo slogan più popolare nelle strade,
cantato da musulmani, cristiani e gente di tutte le sette e fazioni, è
indirizzato contro i politici: «Siete tutti uguali», cioè siete tutti ladri,
siete un’oligarchia che non fa niente per noi. L’elemento di classe in questo
movimento laico è estremamente forte. Anche l’Argentina è un caso interessante.
Pensava di aver sconfitto definitivamente la sinistra (certo, quella argentina
è una sinistra problematica), ma alle ultimi elezioni l’apostolo neoliberista
tanto lodato dall’Economist, dal Financial Times e
dal Wall Street Journal è finito ancora una volta nel cestino.
Hanno vinto i peronisti e la gente ha festeggiato in strada.
Perciò la situazione oggi è molto fluida e il neoliberismo è fragile. Il
capitalismo globale (i suoi governanti, direttori e manager) non ha capito che
il crollo di Wall Street del 2008 è stato un evento decisivo per la politica
economica contemporanea. Si è pensato di poterlo ignorare e continuare come
prima, ma quello che sta succedendo ora in tutto il mondo dimostra che è molto
difficile fare finta di niente. Prendiamo il Guardian, giornale che
politicamente è in mezzo al guado: prima i suoi editorialisti attaccavano
Corbyn ferocemente, adesso sostengono il Labour alle elezioni perché hanno
capito, almeno a quanto scrivono, che la Gran Bretagna ha bisogno di un
cambiamento radicale.
È incredibile, e sembra anche che anche il Financial Times sostanzialmente
sostenga il partito laburista.
Il Financial Times vede queste elezioni come una scelta
tra la Brexit di Johnson da un lato e Corbyn dall’altro, e sostiene che
quest’ultimo sia il male minore. Effettivamente questa è la loro linea attuale,
ma lo spostamento del Guardian penso sia più importante,
perché è un giornale letto da molte persone di sinistra.
Esiste il pericolo che Corbyn non riesca a rispondere alle esigenze della
vecchia classe operaia industriale, che è stata lasciata indietro nella
politica globale e troppo spesso si rivolge ai populisti dell’estrema destra?
Questo è un lato essenziale del problema. Quando Trump è andato in Kentucky ha
detto «Torniamo al carbone», anche se poi materialmente non è vero.
No, in Gran Bretagna non è così. In realtà il problema di Corbyn è che
guida un partito diviso sul tema Brexit. Corbyn stesso è in una posizione per
cui deve difendere gli interessi di tutti gli elettori del partito laburista,
cosa non facile da fare. I discorsi che ha pronunciato nella parte
settentrionale del paese, dove c’è stato un forte voto a favore del Leave,
hanno mostrato molta attenzione alle esigenze della classe operaia. E Corbyn ha
sostenuto molte volte pubblicamente, sia nel sud-est che nel nord, che il punto
non è uscire o rimanere nell’Unione europea, ma battere il neoliberismo in Gran
Bretagna, migliorare le condizioni di vita delle persone e creare comunità.
Quindi il messaggio della campagna elettorale su questo fronte è molto
chiaro: i laburisti dicono «vogliamo una Gran Bretagna diversa e crediamo che
l’unico partito in grado di cambiarla sia il Labour». E su questo punto credo
che nessuno abbia niente da ridire. Neanche Tom Watson (leader dei laburisti di
«estremo centro» che cerca di sabotare Corbyn da anni), che ha lasciato il
partito senza attaccare Corbyn. Ha dichiarato che se ne andava per motivi
personali, non politici, e che si augurava che il Partito laburista vincesse le
elezioni, a differenza di altri ex deputati e militanti anti-Corbyn che invece
invitano a votare conservatore.
Ecco in sintesi quello che sta succedendo nella campagna elettorale
britannica finora. Agli appuntamenti elettorali c’era tanta gente, l’umore è
buono sia tra le fila dei parlamentari laburisti sia tra i militanti che fanno
il duro lavoro in strada. Il primo video della campagna ha ottenuto oltre 3 milioni
di visualizzazioni online. Anche se ovviamente è difficile fare previsioni,
sono abbastanza fiducioso sul fatto che il Labour sarà il primo partito in
Parlamento, o comunque ci arriverà molto vicino. Peraltro i leader dello
Scottish National Party hanno confermato pubblicamente il loro sostegno a
Corbyn qualora i laburisti avessero bisogno dei loro voti per formare un
governo. Non entreranno nel governo, ma lo sosterranno dall’esterno e va bene
così.
Sembra che la Gran Bretagna stia soffrendo di Brexhaustion, di
esaurimento da Brexit, proprio come negli Stati Uniti si soffre per il
trauma-Trump. Cioè i media sono invasi solo da questi temi e alle questioni
politiche non viene dato spazio. In questo senso, sembra che Corbyn abbia
toccato le corde giuste, innanzitutto chiarendo che il Labour è a favore del
miglioramento delle condizioni di vita per tutti, poi scegliendo di parlare dei
programmi piuttosto che del Deal. Mi chiedevo come stesse
funzionando questo discorso nel Nord del Regno Unito. La gente è ancora
concentrata solo sulla Brexit o c’è il desiderio di passare ad altro?
L’atmosfera generale è di andare oltre. Se Boris Johnson avesse fatto una
Brexit morbida prima delle elezioni oggi avremmo una campagna completamente
basata sulle questioni di fondo. Invece, con una certa intelligenza, il leader
conservatore oggi dice che la Brexit si otterrà solo se lui verrà riconfermato
al governo. D’altro canto, proprio ieri a Telford qualcuno ha chiesto a Corbyn
se il «New Deal» proposto dai laburisti sulla Brexit avrebbe permesso alle
persone di continuare a circolare liberamente, e lui ha dato una risposta molto
chiara, che cito: «Voglio che i nostri giovani crescano in un mondo dove
possono viaggiare, dove possono sperimentare altre società, dove possono dare
il loro contributo. E sai cosa? Questo arricchisce la loro vita e arricchisce
la vita di tutti noi, quindi voglio fare in modo che tutti i cittadini
dell’Unione europea rimangano qui, possano venire qui, restino qui, e saremo
felici di lavorare con loro, come del resto molti britannici fanno in altre
parti d’Europa, dando un contributo altrettanto prezioso alle società in cui
sono andati a vivere».
Sembra probabile che né i laburisti né i conservatori otterranno una
maggioranza assoluta alle elezioni e dovranno cercare alleati per formare un
governo. Se il Partito nazionalista scozzese (Pns) è disposto a lavorare con il
Labour, che dire dell’alleanza tra Tories e LibDem? E quale impatto pensi possa
avere il Brexit party di Nigel Farage?
L’Snp ha chiarito che darà appoggio esterno a un eventuale governo
laburista. I LibDem hanno una leader molto di destra, Jo Swinson, e hanno
escluso qualsiasi sostegno al Labour. Swinson è una acerrima nemica di Corbyn
perché sostiene che quest’ultimo rappresenti un rischio per la sicurezza
nazionale, in quanto non amante della guerra. L’ha detto davvero. Che i LibDem
sostengano un nuovo governo conservatore se il partito di Johnson risultasse
primo in Parlamento è possibile, perché l’hanno già fatto prima e proprio Swinson
ha fatto parte dell’ultima coalizione tra LibDem e Tories. Ma speriamo di non
arrivare a questo punto: se il partito laburista risulterà primo per voti penso
che riuscirà a formare un governo con il sostegno del Pns. Almeno è su questo
che noi puntiamo e che speriamo.
Sembra insomma che Corbyn sia riuscito ad articolare una posizione che
colma in qualche modo il divario tra i laburisti a favore del Leave e
quelli a favore del Remain. Pensi che funzionerà?
Sono moderatamente ottimista sul fatto che i laburisti saranno il primo
partito in Parlamento. L’uscita di Tom Watson potrebbe essere la prima di una
lunga serie: qualcuno mi ha detto che nel partito ci si aspetta che il ritmo
degli addii dei laburisti di destra sarà di un parlamentare a settimana o al mese.
La mia domanda a questo punto è la seguente: esiste una lunga tradizione di
topi che abbandonano la nave che affonda, però che succede se alla fine la nave
non affonda ma, anzi, galleggia meglio dopo che se ne sono andati?
*Tariq Ali, storico, giornalista e scrittore pakistano naturalizzato
britannico, è autore di molti saggi e romanzi tradotti anche in italiano. È
editor della New Left Review. Suzi Weissman è autrice di Victor Serge: A
Political Biography. Questo articolo è uscito su JacobinMag.com. La traduzione è di
Riccardo Antoniucci.
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