Abbiamo già appurato che oggi la creazione di
ricchezza si muove su più binari paralleli: dai rapporti insiti nella società
alle architetture digitali. La socializzazione della fabbrica, con la
conseguente espansione della logica di produzione ed estrazione della ricchezza
all’interno di nuovi spazi e soprattutto tempi sociali, ha modificato
radicalmente le mediazioni sociali tra capitale e lavoro. Nella società di oggi
le due sfere sociali, la vita e il lavoro, partecipano insieme alle dinamiche
della valorizzazione.
E allora, a più di mezzo secolo dalla rivendicazione
dell’immaginazione al potere, riflettere ed assumere consapevolezza dei
cambiamenti in atto nel mercato e nella società diventa uno strumento
fondamentale di aggregazione e contrattacco. Immaginare una società di uomini e
donne libere dal ricatto della precarietà e della povertà, rivendicando il
diritto a vivere dignitosamente al di fuori delle maglie strette del mercato
predatorio.
Garantire il diritto di esistenza per tutte e per
tutti.
“Il reddito di base è un trasferimento monetario
erogato periodicamente dallo Stato o altri enti pubblici agli individui,
indipendentemente dalle loro condizioni economiche e non condizionato dalla
disponibilità ad offrire in cambio qualche tipo di contributo lavorativo”1.
Il reddito di base che si propone non è condizionato né all’accettazione di
qualsiasi tipologia di proposta di lavoro, né dipendente dalla situazione
economica, e non va confuso con una policy di contrasto alla povertà: è uno
strumento di lotta alle nuove forme di sfruttamento in virtù del cambiamento
del paradigma produttivo della ricchezza operato dal capitale in questa fase
storica, oltre che un’arma di redistribuzione della ricchezza. È la risposta
alle trasformazioni sistemiche e alle ricadute che si sono verificate nel mondo
del lavoro, frantumato e riconfigurato, sempre più sotto attacco, fino a
rendere normale la figura del lavoratore povero, ma anche sempre più interconnesso,
sia a livello digitale sia nella catene globali del valore.
Il reddito rende visibile la produttività sociale
(riconosce qualcosa che già esiste) che ad oggi è sommersa (nella volontà di
non riconoscerlo) e la remunera come reddito primario2. Aprirebbe
poi uno spazio importante di attivazione sociale, liberando la società dal
ricatto della precarietà e del lavoro povero: è la rivendicazione che tutte e
tutti debbano godere della libertà di autodeterminazione, per vivere una vita
dignitosa. È qui che si snoda il nucleo essenziale alla risposta sul perché
debba sussistere la cumulabilità tra reddito e salario: il reddito di base è
funzionale alla remunerazione della cooperazione produttiva, riconoscendo il
valore prodotto oggi dalle relazioni sociali su cui si basano i profitti le
nuove architetture digitali del capitalismo postfordista. Con il reddito di
base torna al legittimo produttore una quota di “General Intellect” prodotto
all’interno dei tempi di riproduzione.
A ciò legare una nuova narrazione sul mondo del
lavoro: contrapporre alle profonde modifiche legislative prodotte negli ultimi
vent’anni (dal pacchetto Treu al Jobs Act), concepite per produrre ed
alimentare una deregolamentazione selvaggia dei rapporti di lavoro e la
dilatazione dei tempi di vita dedicati al lavoro,una proposta unitaria composta
dal reddito di base e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario.
Un primo segnale è arrivato dal congresso annuale dei Labour inglesi svoltosi a
fine settembre a Brighton, che ha ratificato la proposta di abbassamento delle
ore di lavoro settimanali da 35 a 32 con lo stesso livello salariale, insieme
alla proposta di legge presentata in aprile scorso alla Camera da Liberi e
Uguali.
Infatti, è importante non dimenticare la centralità
che ancora oggi il lavoro vivo ricopre nel mercato e nella società: una
rivendicazione sul reddito di base che non tenga dentro una proposta di
riorganizzazione degli assetti sulla quantità temporale del lavoro sull’arco
della vita e della sua retribuzione minima è un orizzonte impraticabile. Sono
due binari paralleli lungo i quali deve procedere la rivendicazione della
liberazione della società dal lavoro e del lavoro: l’orizzonte del diritto per
tutte e per tutti ad una vita dignitosa, alla cumulabilità di reddito di base
ed ogni altra forma di remunerazione, e di una nuova legislazione
sull’organizzazione, le modalità e la durata del lavoro.
Nel panorama politico italiano, il tema del reddito ha
assunto una forte centralità negli ultimi anni, anche grazie al consenso
raccolto dal Movimento Cinque Stelle alle scorse elezioni politiche. È bene
presentare subito però un distinguo: il decreto legge 4/2019 che ha istituito
il “reddito di cittadinanza” non contiene un vero e proprio reddito così come è
stato descritto in precedenza, poiché manca sia l’incondizionalità che
l’universalità del beneficio.
Parliamo di un’erogazione attribuibile a chi dichiara,
tramite ISEE, non più di una determinata somma di reddito e patrimonio, per un
periodo di tempo definito, vincolata all’accettazione di una futura proposta di
lavoro (fino a tre), pena l’esclusione dalla platea dei beneficiari. Questa
tipologia di intervento, nonostante sia riconosciuta nel senso comune come una
vera e propria forma di “reddito”, è un semplice strumento di workfare.
È una politica attiva di welfare volta a produrre occupazione: è un concetto
distante anni luce dalle ragioni del reddito di base.
Nonostante ciò, è bene tener conto del precipitato che
questa misura ha prodotto all’interno del dibattito politico italiano ed
europeo, anche e soprattutto in virtù delle mutate condizioni di governo
rispetto alla prima approvazione del reddito di cittadinanza: sin dalle prime
discussioni, quasi la totalità dello scenario politico ha criticato fortemente
questa misura, costruendo una narrazione demagogica basata sulla dicotomia tra
un’ipotetica maggioranza di individui dedita al lavoro e un’altra
sedentaria, divanara, bambocciona e incapace di
procurarsi finanche i beni di prima necessità. In questi mesi, chi dalle prime
luci del giorno si è messo in fila per presentare la domanda per percepire il
reddito di cittadinanza è stato senza mezzi termini raffigurato come il cancro
improduttivo di questo paese.
C’è stato anche chi ha utilizzato come specchio per le
allodole l’esistenza di rapporti di lavoro con salari inferiori alla somma del
reddito di cittadinanza, ragion per cui “il regalo” di una quantità di denaro a
chi versa in condizioni di povertà era sinonimo di ingiustizia e persino offesa
nei confronti di questa abbondante fetta di occupati, i woorking poor (il
12,3% sul totale dei lavoratori). Ancora una volta si è costruito un dibattito
che provava a mettere contro le stratificazioni più basse della società: questo
ha spianato la strada alla riproposizione della raffigurazione ottocentesca
della povertà, che colpevolizza i singoli individui ignorando volutamente le
cicliche crisi economiche prodotte dal capitalismo e le relazioni sistemiche
tra aumento delle disuguaglianze e sistema economico.
Infatti, non scopriamo oggi che il reddito di
cittadinanza è diventato una misura di controllo e umiliazione della povertà,
piuttosto che la via attraverso la quale eliminarla: traduzione pratica (una
tra le tante) di questo disegno politico è stato il dibattito sui beni per
quali è permesso il pagamento tramite la card del reddito, e il limite massimo
di somme di denaro prelevabili agli sportelli automatici. Perché allora non
sfidare tutti gli attori politici, implementando e correggendo la proposta
sbilenca del reddito di cittadinanza, incorporando le misure su salari e tempi
di lavoro,nell’ottica del doppio binario lungo cui deve procedere una radicale
proposta di riforma del lavoro? Il reddito di base, oltre che derivante da una
nuova produzione di valore appurata in precedenza, deve essere rivendicato come
strumento per una vita dignitosa, che è diritto di tutte e di tutti.
Ora dobbiamo chiederci: cos’è cambiato con il
ribaltamento dell’alleanza di governo? Cosa cambierà a partire dalla prossima
legge di Bilancio?
Dalle prime dichiarazioni la discussione all’interno
della nuova maggioranza sembrerebbe non stravolgere il progetto di fondo del
reddito di cittadinanza: nella prima bozza della Legge di Bilancio del 2020
troviamo infatti condizioni di accesso per il Rdc più stringenti (la soglia
ISEE dovrebbe essere alzata dall’attuale 9360 a 10800, in controtendenza
rispetto all’universalità ed incondizionalità del reddito di base),
l’inasprimento delle sanzioni e, soprattutto, la possibilità di interrompere
l’erogazione del beneficio in virtù di brevi immissioni nel mondo del lavoro
(ulteriore precarizzazione). Ma non è tutto qui, poiché una parte dell’attuale
maggioranza sta cercando, attraverso il dibattito politico ed una misura
legislativa, di indebolire ancora di più il già fragile e contraddittorio Rdc.
Le parole dei renziani (“come si fa a riconfermarlo? Ha prodotto solo
assistenza, scoraggia al lavoro, e crea abusi ormai certificati”), unite al
bonus teorizzato da Misani (viceministro dell’economia) di 40 euro al mese per
chi percepisce un reddito pari o inferiore a 7500 (platea di esclusi dal Rdc),
i cosìddetti woorking poors (quasi 4 milioni in Italia), ripropone ancora una
volta lo schema di spartizione delle briciole tra una grandissima fetta di
popolazione che necessiterebbe di interventi incondizionati ed universalistici.
E’ giusto e necessario istituire un reddito di base
incondizionato e universale, è sbagliato e da impedire la retribuzione di
qualsiasi tipologia di lavoro a tempo pieno con una cifra inferiore a quella
che delimita la soglia di povertà. Le vertenze non vanno in contrapposizione ma
di pari passo. Reddito di base e retribuzioni dignitose sono rivendicazioni che
viaggiano in parallelo. Escludere l’una o l’altra è segno di grave miopia. Allo
stesso tempo, consegnare semplicemente questi fattori alla produzione
legislativa non coglierebbe la reale sfida che va affrontata: riconsegnare a
tutte e tutti la possibilità di riprendere in mano il destino delle proprie
esistenze, giocando la partita a viso aperto, senza mediazioni.
Vista l’universalità delle condizioni di partenza,
degli attori in campo e di come va giocata la partita, queste rivendicazioni
risultano essere un potente deterrente sia verso i sovranismi, sia verso
l’europeismo neoliberista, descritto ad oggi come l’unica vera alternativa.
Unire tutte e tutti nella lotta per il miglioramento delle proprie condizioni
di vita è lo strumento più efficace per decostruire e sbaragliare queste due
visioni di società e di mondo.
Va pretesa con forza la diminuzione dell’impatto del
tempo di lavoro nell’arco della vita, ma anche il riconoscimento di quella
forza lavoro che oggi vive e produce nella società, utilizzata dal neoliberismo
per rimpinguare i grandi patrimoni, e che ad oggi è tenuta nascosta. Ricompattarci
attorno alla battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di
salario e l’istituzione del reddito di base, per provare a costruire una
società diversa, che metta fine a qualsiasi forma di sfruttamento.
Per giocare e vincere la partita.
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