sabato 28 dicembre 2019

La partita del reddito: “Osare inventare l’avvenire” – Mauro Melone



Abbiamo già appurato che oggi la creazione di ricchezza si muove su più binari paralleli: dai rapporti insiti nella società alle architetture digitali. La socializzazione della fabbrica, con la conseguente espansione della logica di produzione ed estrazione della ricchezza all’interno di nuovi spazi e soprattutto tempi sociali, ha modificato radicalmente le mediazioni sociali tra capitale e lavoro. Nella società di oggi le due sfere sociali, la vita e il lavoro, partecipano insieme alle dinamiche della valorizzazione.
E allora, a più di mezzo secolo dalla rivendicazione dell’immaginazione al potere, riflettere ed assumere consapevolezza dei cambiamenti in atto nel mercato e nella società diventa uno strumento fondamentale di aggregazione e contrattacco. Immaginare una società di uomini e donne libere dal ricatto della precarietà e della povertà, rivendicando il diritto a vivere dignitosamente al di fuori delle maglie strette del mercato predatorio.
Garantire il diritto di esistenza per tutte e per tutti.
“Il reddito di base è un trasferimento monetario erogato periodicamente dallo Stato o altri enti pubblici agli individui, indipendentemente dalle loro condizioni economiche e non condizionato dalla disponibilità ad offrire in cambio qualche tipo di contributo lavorativo”1. Il reddito di base che si propone non è condizionato né all’accettazione di qualsiasi tipologia di proposta di lavoro, né dipendente dalla situazione economica, e non va confuso con una policy di contrasto alla povertà: è uno strumento di lotta alle nuove forme di sfruttamento in virtù del cambiamento del paradigma produttivo della ricchezza operato dal capitale in questa fase storica, oltre che un’arma di redistribuzione della ricchezza. È la risposta alle trasformazioni sistemiche e alle ricadute che si sono verificate nel mondo del lavoro, frantumato e riconfigurato, sempre più sotto attacco, fino a rendere normale la figura del lavoratore povero, ma anche sempre più interconnesso, sia a livello digitale sia nella catene globali del valore.
Il reddito rende visibile la produttività sociale (riconosce qualcosa che già esiste) che ad oggi è sommersa (nella volontà di non riconoscerlo) e la remunera come reddito primario2. Aprirebbe poi uno spazio importante di attivazione sociale, liberando la società dal ricatto della precarietà e del lavoro povero: è la rivendicazione che tutte e tutti debbano godere della libertà di autodeterminazione, per vivere una vita dignitosa. È qui che si snoda il nucleo essenziale alla risposta sul perché debba sussistere la cumulabilità tra reddito e salario: il reddito di base è funzionale alla remunerazione della cooperazione produttiva, riconoscendo il valore prodotto oggi dalle relazioni sociali su cui si basano i profitti le nuove architetture digitali del capitalismo postfordista. Con il reddito di base torna al legittimo produttore una quota di “General Intellect” prodotto all’interno dei tempi di riproduzione.
A ciò legare una nuova narrazione sul mondo del lavoro: contrapporre alle profonde modifiche legislative prodotte negli ultimi vent’anni (dal pacchetto Treu al Jobs Act), concepite per produrre ed alimentare una deregolamentazione selvaggia dei rapporti di lavoro e la dilatazione dei tempi di vita dedicati al lavoro,una proposta unitaria composta dal reddito di base e la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Un primo segnale è arrivato dal congresso annuale dei Labour inglesi svoltosi a fine settembre a Brighton, che ha ratificato la proposta di abbassamento delle ore di lavoro settimanali da 35 a 32 con lo stesso livello salariale, insieme alla proposta di legge presentata in aprile scorso alla Camera da Liberi e Uguali.
Infatti, è importante non dimenticare la centralità che ancora oggi il lavoro vivo ricopre nel mercato e nella società: una rivendicazione sul reddito di base che non tenga dentro una proposta di riorganizzazione degli assetti sulla quantità temporale del lavoro sull’arco della vita e della sua retribuzione minima è un orizzonte impraticabile. Sono due binari paralleli lungo i quali deve procedere la rivendicazione della liberazione della società dal lavoro e del lavoro: l’orizzonte del diritto per tutte e per tutti ad una vita dignitosa, alla cumulabilità di reddito di base ed ogni altra forma di remunerazione, e di una nuova legislazione sull’organizzazione, le modalità e la durata del lavoro.
Nel panorama politico italiano, il tema del reddito ha assunto una forte centralità negli ultimi anni, anche grazie al consenso raccolto dal Movimento Cinque Stelle alle scorse elezioni politiche. È bene presentare subito però un distinguo: il decreto legge 4/2019 che ha istituito il “reddito di cittadinanza” non contiene un vero e proprio reddito così come è stato descritto in precedenza, poiché manca sia l’incondizionalità che l’universalità del beneficio.
Parliamo di un’erogazione attribuibile a chi dichiara, tramite ISEE, non più di una determinata somma di reddito e patrimonio, per un periodo di tempo definito, vincolata all’accettazione di una futura proposta di lavoro (fino a tre), pena l’esclusione dalla platea dei beneficiari. Questa tipologia di intervento, nonostante sia riconosciuta nel senso comune come una vera e propria forma di “reddito”, è un semplice strumento di workfare. È una politica attiva di welfare volta a produrre occupazione: è un concetto distante anni luce dalle ragioni del reddito di base.
Nonostante ciò, è bene tener conto del precipitato che questa misura ha prodotto all’interno del dibattito politico italiano ed europeo, anche e soprattutto in virtù delle mutate condizioni di governo rispetto alla prima approvazione del reddito di cittadinanza: sin dalle prime discussioni, quasi la totalità dello scenario politico ha criticato fortemente questa misura, costruendo una narrazione demagogica basata sulla dicotomia tra un’ipotetica maggioranza di individui dedita al lavoro e un’altra sedentaria, divanara, bambocciona e incapace di procurarsi finanche i beni di prima necessità. In questi mesi, chi dalle prime luci del giorno si è messo in fila per presentare la domanda per percepire il reddito di cittadinanza è stato senza mezzi termini raffigurato come il cancro improduttivo di questo paese.
C’è stato anche chi ha utilizzato come specchio per le allodole l’esistenza di rapporti di lavoro con salari inferiori alla somma del reddito di cittadinanza, ragion per cui “il regalo” di una quantità di denaro a chi versa in condizioni di povertà era sinonimo di ingiustizia e persino offesa nei confronti di questa abbondante fetta di occupati, i woorking poor (il 12,3% sul totale dei lavoratori). Ancora una volta si è costruito un dibattito che provava a mettere contro le stratificazioni più basse della società: questo ha spianato la strada alla riproposizione della raffigurazione ottocentesca della povertà, che colpevolizza i singoli individui ignorando volutamente le cicliche crisi economiche prodotte dal capitalismo e le relazioni sistemiche tra aumento delle disuguaglianze e sistema economico.
Infatti, non scopriamo oggi che il reddito di cittadinanza è diventato una misura di controllo e umiliazione della povertà, piuttosto che la via attraverso la quale eliminarla: traduzione pratica (una tra le tante) di questo disegno politico è stato il dibattito sui beni per quali è permesso il pagamento tramite la card del reddito, e il limite massimo di somme di denaro prelevabili agli sportelli automatici. Perché allora non sfidare tutti gli attori politici, implementando e correggendo la proposta sbilenca del reddito di cittadinanza, incorporando le misure su salari e tempi di lavoro,nell’ottica del doppio binario lungo cui deve procedere una radicale proposta di riforma del lavoro? Il reddito di base, oltre che derivante da una nuova produzione di valore appurata in precedenza, deve essere rivendicato come strumento per una vita dignitosa, che è diritto di tutte e di tutti.
Ora dobbiamo chiederci: cos’è cambiato con il ribaltamento dell’alleanza di governo? Cosa cambierà a partire dalla prossima legge di Bilancio?
Dalle prime dichiarazioni la discussione all’interno della nuova maggioranza sembrerebbe non stravolgere il progetto di fondo del reddito di cittadinanza: nella prima bozza della Legge di Bilancio del 2020 troviamo infatti condizioni di accesso per il Rdc più stringenti (la soglia ISEE dovrebbe essere alzata dall’attuale 9360 a 10800, in controtendenza rispetto all’universalità ed incondizionalità del reddito di base), l’inasprimento delle sanzioni e, soprattutto, la possibilità di interrompere l’erogazione del beneficio in virtù di brevi immissioni nel mondo del lavoro (ulteriore precarizzazione). Ma non è tutto qui, poiché una parte dell’attuale maggioranza sta cercando, attraverso il dibattito politico ed una misura legislativa, di indebolire ancora di più il già fragile e contraddittorio Rdc. Le parole dei renziani (“come si fa a riconfermarlo? Ha prodotto solo assistenza, scoraggia al lavoro, e crea abusi ormai certificati”), unite al bonus teorizzato da Misani (viceministro dell’economia) di 40 euro al mese per chi percepisce un reddito pari o inferiore a 7500 (platea di esclusi dal Rdc), i cosìddetti woorking poors (quasi 4 milioni in Italia), ripropone ancora una volta lo schema di spartizione delle briciole tra una grandissima fetta di popolazione che necessiterebbe di interventi incondizionati ed universalistici.
E’ giusto e necessario istituire un reddito di base incondizionato e universale, è sbagliato e da impedire la retribuzione di qualsiasi tipologia di lavoro a tempo pieno con una cifra inferiore a quella che delimita la soglia di povertà. Le vertenze non vanno in contrapposizione ma di pari passo. Reddito di base e retribuzioni dignitose sono rivendicazioni che viaggiano in parallelo. Escludere l’una o l’altra è segno di grave miopia. Allo stesso tempo, consegnare semplicemente questi fattori alla produzione legislativa non coglierebbe la reale sfida che va affrontata: riconsegnare a tutte e tutti la possibilità di riprendere in mano il destino delle proprie esistenze, giocando la partita a viso aperto, senza mediazioni.
Vista l’universalità delle condizioni di partenza, degli attori in campo e di come va giocata la partita, queste rivendicazioni risultano essere un potente deterrente sia verso i sovranismi, sia verso l’europeismo neoliberista, descritto ad oggi come l’unica vera alternativa. Unire tutte e tutti nella lotta per il miglioramento delle proprie condizioni di vita è lo strumento più efficace per decostruire e sbaragliare queste due visioni di società e di mondo.
Va pretesa con forza la diminuzione dell’impatto del tempo di lavoro nell’arco della vita, ma anche il riconoscimento di quella forza lavoro che oggi vive e produce nella società, utilizzata dal neoliberismo per rimpinguare i grandi patrimoni, e che ad oggi è tenuta nascosta. Ricompattarci attorno alla battaglia per la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e l’istituzione del reddito di base, per provare a costruire una società diversa, che metta fine a qualsiasi forma di sfruttamento.
Per giocare e vincere la partita.

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